La propaganda da Almirante a Meloni

23 Gennaio 2024

C’è un legame che percorre tutta la storia della cultura occidentale, quello tra parole e immagini. In certi settori – l’emblematica rinascimentale, ma anche la pubblicità dal primo Novecento in poi e la propaganda politica di ieri e di oggi – questo legame diventa un’alleanza in cui le une non possono fare a meno delle altre. In Iconografia della destra. La propaganda figurativa da Almirante a Meloni, (prefazione di Edoardo Novelli, Viella, 2023), Luciano Cheles ha indagato questa saldatura tra piano verbale e piano visivo a proposito della pubblicistica della destra italiana nel secondo dopoguerra. Da tempo lo studioso ha affrontato questo tema in diversi saggi pubblicati su riviste italiane e internazionali; adesso Cheles mette assieme tessere di partito, locandine, gadget, manifesti, adesivi, volantini, webcards; materiali eterogenei prodotti prima dal MSI (il Movimento Sociale Italiano fondato e guidato da Giorgio Almirante), poi da Alleanza Nazionale e infine da Fratelli d’Italia.

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Nel 1970, su una tessera del MSI, un giovane in camicia ci guarda puntando l’indice verso di noi: lo stesso gesto, studiato anni fa da Carlo Ginzburg, era stato adottato durante la prima Guerra mondiale nel mondo anglosassone e in Italia come invito ad arruolarsi. Sulla tessera la scritta è “Aiutateci a difendervi!”, insomma il tema (ricorrente nelle destre di ieri e di oggi) della difesa: c’è sempre un nemico, interno o esterno, che ci minaccia. E da questa continua offerta di difesa consegue il lessico intriso di riferimenti al combattimento e ai valori morali che dovrebbero accompagnarlo. Solo qualche giorno fa, un giornalista d’area, presentando Giorgia Meloni come “uomo dell’anno” scriveva che “nel tempo di guerra, abbiamo scelto chi ha dimostrato di saper combattere”.

C’è sempre un pericolo incombente. Ecco, ancora nel 1970, un giovane che impugnando poderosamente una bandiera tricolore si slancia verso un uomo che, non inquadrato, protende il braccio verso di lui: “Con noi prima che sia troppo tardi”. Anche qui una camicia che non nasconde la corporatura possente – un po’ Zagor, un po’ Tex Willer – e soprattutto capelli lunghi; particolare che oggi non sembra affatto significativo, ma che in quel momento era segno di modernità. Insomma, il giovane col tricolore, con la sua vigorosa aria popolare, forse anche borgatara, vuol essere a tutti i costi un personaggio del presente. 

Decenni fa (come anche ora), è in questa dialettica tra attualità e passato (compreso il passato fascista) che si gioca l’immagine della destra in Italia. Cheles fa notare come la propaganda missina abbia tentato da una parte di ringiovanire il proprio stile comunicativo, dall’altra di mantenere fermo il legame con le proprie “radici” (in altre parole, il Ventennio). Su questa linea si spiega, ancora nel 1970, il manifesto in cui due giovani camminano sorridendo assieme a una ragazza in minigonna, e la scritta “nostalgia dell’avvenire”, mentre alle spalle dei tre fa la sua comparsa un rassicurante arcobaleno.

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Dalla stessa esigenza di svecchiamento proviene il desiderio di rinnovare anche le forme grafiche, senonché, come dimostra l’autore, non di rado si vanno a pescare modelli nella grafica di sinistra (e non solo di quella italiana).

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Nel frattempo, il passato non scompare. Naturalmente i simboli fascisti vengono abbandonati, non così il mito di Roma imperiale che aveva nutrito gran parte della propaganda di Mussolini: una sopravvivenza tanto artefatta, quanto efficace (come del resto lo era stata altre volte nella storia, e ben prima del Novecento). Ecco una tessera del 1954 il cui sfondo è il selciato di una via consolare della Roma antica, ed ecco Gianfranco Fini su un manifesto del 2005 con alle spalle un altro basolato romano. C’è anche il latino, ma Cheles fa notare che invece di Iter Italiae era molto meglio Iter Italicum: questa è la forma ampiamente attestata nella tradizione (anzi nella Tradizione).

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Eccola di nuovo, la romanità, in una webcard di qualche mese fa segnalata da Cheles: Gioventù Nazionale celebra in uno stile vintage-Ventennio la festa del Natale di Roma (preesistente, ma incorporata dal regime a partire dagli anni Venti), con la frase “Invincibile, Eterna.
Auguri a te Roma che domini il Mondo”. La frase (scritta con la consueta attrazione per la Maiuscola) non va presa alla lettera, d’accordo, ma neppure è una battuta di spirito; qual è il suo senso, allora?

C’è dunque una coerenza nella propaganda di destra, dal 1946 a oggi, secondo Cheles: “le immagini svolgono un ruolo di primaria importanza nella pubblicistica della destra: è sul loro uso oculato che si basa la politica del doppio registro. Essendo per natura vaghe, esse si prestano ad essere utilizzate per veicolare messaggi che risulterebbero indigesti se fossero espressi verbalmente”.

Il fatto è che le immagini ci si presentano come ovvie e immediatamente leggibili, e in modo particolare quando le si guarda attraverso dispositivi facili e piacevoli (gli schermi lucidi e luminosi di computer e smartphone). Ma non è affatto così, e lo spiega un libro di Cristoph Wulf pubblicato recentemente da Meltemi, Gli esseri umani e le loro immagini. Fondamenti immaginari e performativi degli studi culturali. Come scrive Wulf, “le immagini promettono di superare l’invecchiamento, la fragilità e la morte. Le immagini non invecchiano né decadono e, a differenza dei corpi da cui derivano, non sono mortali. Le immagini hanno una vita propria nel cosmo immaginario dei media, nella coscienza collettiva della società e nei ricordi individuali delle singole persone”. 

L’immaginario, ci spiega, Wulf, è ben più di un repertorio di figure; piuttosto, è “un sistema o una rete di elementi invisibili che lasciano le loro tracce letterarie e iconiche in varie combinazioni”, e la sua dinamica “non si esaurisce nella misura in cui genera ripetutamente nuove combinazioni e miscele ibride”. Ecco perché le immagini – comprese naturalmente quelle della politica – intrattengono con l’immaginario individuale e collettivo un rapporto intenso, e tutt’altro che lineare. Entro questo processo, il versante verbale, ancora una volta in collaborazione con quello visivo, si ritaglia un ruolo primario. 

Per questo Cheles compie – a margine di quella iconografica– una vasta ricognizione, diciamo così, filologica. Veniamo a sapere, ad esempio, che l’inno di Azione Giovani era la traduzione di una canzone presente nel film Cabaret di Bob Fosse (1972), ambientato nella Germania degli inizi del Nazismo. Nel film di Fosse, Tomorrow belongs to me viene cantata da un ragazzo nell’uniforme della gioventù hitleriana, ma da quando “Il domani appartiene a noi!” è entrato come canzone e, soprattutto, come slogan identitario nel patrimonio culturale della destra italiana, le radici originarie del pezzo – per quanto nato entro una ricostruzione artistica – sono sempre state omesse. Detto per inciso, vale la pena ricordare alcuni passi di questa versione italiana, in particolare la penultima strofa: “La terra dei padri, la fede immortal / nessuno potrà cancellar. Il sangue, il lavoro, la civiltà / cantiamo la tradizion”. Insomma, una finzione che diventa più vera del vero (come del resto dimostrano appropriazione e arruolamento di Tolkien).

Ma questo è solo un dettaglio dell’esplorazione di Cheles: lo studioso rilegge minuziosamente interviste, dichiarazioni, discorsi dei tre leader principali della destra, Almirante, Fini e Meloni. Il risultato di questa indagine è una constatazione sorprendente (ma neanche tanto): la continua riproposizione di espressioni, motti, aforismi e slogan del Ventennio fascista. Poiché troppo recente, nel saggio non è potuto entrare quel proposito di “spezzare le reni” alle correnti della magistratura da parte del sottosegretario Andrea Delmastro. Come spiegare allora “la frequenza con cui Meloni, e prima di lei Fini, hanno riciclato citazioni mussoliniane nei loro discorsi pubblici”? Ci si può chiedere se questo accade perché l’intenzione è di lanciare messaggi più o meno espliciti ai sostenitori nostalgici o, piuttosto, perché questa è la grammatica che hanno a lungo frequentato, e che fornisce alcune basilari coordinate di pensiero. 

Iconografia della destra è tutto meno che un instant book, ma ci sono anche l’attuale destra di FdI e la figura di Giorgia Meloni. Per Cheles “la femminilità ostentata di Meloni, una femminilità convenzionale e costruita ad arte secondo i canoni dello star system, serve a mascherare il suo ingombrante retroterra ideologico e rendere meno ostiche le sue idee estremiste” perché “ci predispone a perdonarle le affermazioni più audaci”. Dopo tutto, sono gli stessi giornali d’area a definirla “una star internazionale” e “un’icona pop”. 

La relazione tra forme visive e vita politica è sempre problematica, e viene da chiedersi quali siano i meccanismi che si attivano nell’immaginario quando a capo di un partito o di un governo c’è una donna. Una cosa però è certa: la promessa di vicinanza – se non di contatto – fatta dall'immagine pubblica dei politici non viene mai esaudita; mentre li guardiamo in televisione o su manifesto ci sembra di poterli avvicinare o di entrare addirittura in intimità con loro. Ma questa distanza rimane sempre incolmabile, e questo spiega la necessità di rivolgersi ai capi con un consolante "tu": ieri Berlusconi era "Silvio", oggi c'è una Presidente del Consiglio, ma prima di tutto c’è "Giorgia".

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