Grand Tour di Louise Bourgeois
C’è una bellissima foto di Louise Bourgeois nel suo studio di New York, a 35 anni, con i capelli lunghissimi e chiari, avvolti intorno alle spalle. È una foto insolita rispetto a quelle più note: è giovane, con i capelli sciolti, un’aria mesta; è davanti a una tela posta su di un cavalletto, il pennello in mano. Gli occhi che guardano nel vuoto e quello sguardo melanconico sono gli stessi delle foto più iconiche. Siamo sempre abituati a vederla nei ritratti più maturi, come nella straordinaria fotografia che Robert Mapplethorpe le scattò nel 1982, in cui sorride con l’aria di chi sta facendo una birichinata, in pelliccia di scimmia (ipse dixit!) accarezzando la sua Fillette (New York, MoMA, 1968), portata sottobraccio come una pochette o una baguette. La foto di cui sto parlando, invece, non ha nulla di ironico o irriverente. È la foto di una giovane che a fatica si sta inserendo nel mondo dell’arte, in una New York consapevole del suo nuovo ruolo di capitale mondiale della sperimentazione artistica, in cui si fondono gli echi surrealisti che provengono dalla vecchia Europa, forme di realismo locale, attenzione per la cultura visiva autoctona dei nativi americani. È in quel contesto che Bourgeois, tra il 1938 e il 1949 in particolare, ha prodotto una serie di lavori che hanno originato un nucleo di motivi visivi che avrebbe continuato a sviluppare nel corso della sua carriera, elaborando una propria figuratività simbolica di ispirazione surrealista, focalizzandosi sull’esplorazione della psiche e della sessualità, del suo ruolo di donna e del rapporto tra i sessi. Capolavoro indiscusso di quegli anni è la serie Femme-maison (1946-47, New York, S.R. Guggenheim Museum). Nel 1949, poi, Bourgeois capisce che la scultura è il linguaggio che più propriamente si confà alla sua poetica e progressivamente abbandona la pittura per riprenderla occasionalmente nella sua lunga carriera. Nell’aprile del 2022, il Metropolitan Museum of Art di New York ha inaugurato Louise Bourgeois: Paintings, mostra interamente dedicata alla fase pittorica dell’artista, che ha fatto poi tappa al New Orleans Museum of Art (NOMA). Una medesima selezione di lavori di pittura e grafica, arricchita di altri lavori che documentavano filiazioni dell’intero percorso artistico da quel periodo iniziale, è stata poi esposta a Vienna nei saloni rococò del Lower Belvedere (Louise Bourgeois. Persistent Antagonism) dal settembre 2023 al gennaio 2024. E proprio in quel gennaio ero a Vienna. Sono riuscito a vedere la mostra per il rotto della cuffia, prima di ripartire: non l’avrei persa per nulla al mondo, convinto – come ho dichiarato fermamente anche alla mia compagna – che un’occasione del genere in Italia non l’avremmo mai potuta avere. Ebbene, nemmeno il tempo di rientrare in Italia che sono stato smentito su due piedi dall’annuncio che a giugno non avrebbe aperto una, ma ben tre mostre dedicate alla più grande delle artiste del secondo Novecento.
Infatti, nel giro di una settimana (tra il 20 e il 25 giugno 2024) si sono inaugurate a Roma (Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria, a cura di Cloé Perrone, Geraldine Leardi e Philip Larratt-Smith, Galleria Borghese, in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, fino al 15 settembre 2024), Firenze (Louise Bourgeois in Florence. Do Not Abandon Me, a cura di Philip Larratt-Smith e Sergio Risaliti, Museo Novecento e Cell XVIII (Portrait), a cura di Philip Larratt-Smith con Arabella Natalini e Stefania Rispoli, Museo degli Innocenti, al 20 ottobre 2024) e Napoli (Louise Bourgeois. Rare Language, Galleria Studio Trisorio, fino al 31 ottobre 2024) tre capitoli di una sorta di mostra diffusa, un singolare Grand Tour che tocca tre delle capitali culturali italiane. Queste tre mostre si pongono a coronamento di un biennio di grande attenzione europea – complice lo zampino della Easton Foundation che preserva l’eredità dell’artista – nei confronti dell’artista franco-americana, che ha visto, oltre alla rassegna di Vienna, anche The violence of handwriting across a page. Louise Bourgeois x Jenny Holzer allestita presso il Kunstmuseum di Basilea da febbraio a maggio 2022, alla quale Francesca Serra ha dedicato, qui su Doppiozero, una puntuale recensione.
Le tre mostre italiane, diverse ma complementari, riescono a restituirci un’immagine completa di un’autrice che continua a sbalordire per la complessità della sua ricerca in particolare quella degli ultimi decenni della sua settantennale attività, quando – in età avanzata – ha realizzato la maggior parte dei suoi lavori più impegnativi.
Nelle tre mostre ho individuato, nel complesso, tre temi dominanti che rappresentano, a mio modo di vedere, una sintesi del percorso artistico di Louise Bourgeois e che potrebbero servire da traccia a chi voglia intraprendere – non lasciandosi intimorire dalla calura estiva – questa sorta di Grand Tour bourgeoisiano.
Sculture
Il rapporto di Bourgeois con la scultura e i suoi materiali è soprattutto centrale nella mostra romana, dove i curatori mirano a far dialogare i lavori di Bourgeois con la Galleria Borghese, tenendo a mente la prima visita a Roma dell’artista franco-americana, nel 1967, così come i fondamentali soggiorni a Pietrasanta e Carrara punto di partenza di un cambio di paradigma nel concepire l’opera scultorea. Le 20 opere selezionate, tra sculture e installazioni, tentano di innestare dialoghi su questioni universali indagate dall’arte occidentale, quali la metamorfosi, la memoria e l’espressione di stati emotivi e psicologici.
Come avviene spesso in esposizioni siffatte, tuttavia, i confronti sono per lo più basati su assonanze formali che su veri rapporti di dipendenza o derivazione. Se questo può apparire il limite principale della mostra, è difficilissimo non rimanere colpiti dalla selezione elegante e puntuale dei lavori esposti. Non è certo la prima volta che l’artista è posta a dialogo con l’antico: la prima mostra italiana dedicata a Louise Bourgeois, infatti, si è tenuta nel 2008 al Museo di Capodimonte, a Napoli (Louise Bourgeois per Capodimonte), e anche in quel caso il percorso si nutriva di confronti con la collezione. Proprio in quella occasione, venne presentata per la prima volta l’installazione Cell (The Last Climb) che apre in maniera monumentale e scenografica la mostra romana. Si tratta in effetti di un’opera che riassume alcuni aspetti dell’intera carriera dell’artista, così come della sua idea di scultura, fin dall’inizio votata a una dimensione ambientale e per certi versi performativa.
Nell’ormai insostituibile testo che raccoglie scritti e interviste di Bourgeois, Distruzione del padre. Ricostruzione del padre (Quodlibet, Macerata 2009) la scultura emerge come la pratica centrale del discorso artistico di Bourgeois. Eppure, in quelle pagine non si trova mai un riferimento alla scultura del passato. Né Bernini, né Michelangelo, né altri (neanche di Rodin, a dirla tutta, che in fondo è uno dei riferimenti della sua pratica “combinatoria”). Ma quello che interessa a Bourgeois è la tradizione scultorea italiana tout court, o meglio, la tradizione “artigianale” dei tecnici della scultura. Nel 1968, nel richiedere una borsa di studio per sviluppare il suo lavoro all’estero, l’artista sottolinea come a seguito di un breve soggiorno a Pietrasanta, seguendo da vicino il lavoro di tali professionisti, ha scoperto tecniche per portare la sua scultura verso nuove direzioni, esprimendo il desiderio di poter passare almeno sei mesi in Italia per lavorare quotidianamente e ininterrottamente con artigiani esperti (Distruzione del padre, cit., p. 93). Queste esperienze saranno centrali per tutta la sua carriera e si rafforzeranno anche nei successivi soggiorni italiani. Ne sono un esempio le sculture degli ultimi vent’anni, per esempio, basate quasi tutte sull’uso del frammento corporeo e del calco. A Galleria Borghese, in particolare, i calchi delle mani intrecciate dell’artista e di Jerry Gorovoy, suo caro amico e storico assistente, sia in marmo (Untitled - No. 7, 1993-2009, Sala di Enea e Anchise) che in bronzo (The Welcoming Hands, 1996, Giardino della Meridiana) evidenziano un uso sapiente di tali tecniche di lavoro.
In una intervista a William Rubin nel 1969, alla domanda su quali sentimenti nutrs per i materiali tradizionali come marmo o bronzo, l’artista sottolinea la loro importanza come possibilità di fissare stabilmente qualcosa di impermeabile e mobile come quelle che lei definisce “forme colate” (materiale fluido colato in contenitori elastici) che prendono un aspetto geometrico e organico a un tempo. Se ancora in quegli anni le forme che Bourgeois indaga risiedono in una dimensione più libera e improvvisata, a partire dal viaggio in Italia si osserva una attenzione nuova alle modalità di dare vita a queste figure e ai simboli sottesi (Distruzione del padre, cit., pp. 95-96).
Tutto questo si ritrova, per esempio, nella serie Janus esposta a Galleria Borghese (Janus, Janus in Leather Jacket, Hanging Janus with Jacket, tutti del 1968, all’Uccelliera). Partiamo dal presupposto che tutto il lavoro di Bourgeois è incentrato sul corpo. L’aspetto personale e psicoanalitico della sua produzione è talmente nota che non è necessario soffermarcisi.
Vale invece la pena riflettere su come questi lavori della fine degli anni Sessanta propongano una fusione di elementi contrastanti, sia dal punto di vista formale che di contenuto, che alimenta tutte le sculture che possiamo definire “della svolta”. Opera centrale in questo senso è Janus Fleuri (1968). Il riferimento a Giano nella serie apre a considerazioni sull’idea formale di bifrontalità e delle diverse declinazioni, così come di perdita di centro e di equilibrio per via dell’essere “mobiles” sospesi (Calder è dietro l’angolo), come si evince nelle versioni in cui i due “corni” (allusioni nemmeno troppo mascherate al pene) si presentano più o meno aperti o più o meno vestiti di “giacche” di pelle ma con riferimenti abbastanza mascolini. Nel Giano “fiorito”, invece, accade qualcosa di più interessante. Il riferimento al dio romano delle soglie e dei passaggi diventa espressione di una ambivalenza che si rivela una meditazione sulla coesistenza di contrari (chissà se anche in senso duchampiano, uno dei punti di riferimento di Bourgeois a New York) che portano a una messa in discussione sulla rigidità dei generi e dei ruoli. Infatti, Janus Fleuri sembra innestare in un unico corpo elementi sessuali maschili e femminili fondendoli in un essere ibrido (non a caso l’opera è esposta nella Sala dell’Ermafrodito), la cui “inflorescenza” sembra rappresentare la sessualità femminile. Si tratta di una ambivalenza cara all’artista e che si manifesta in maniera più chiara nella celebre Fillette, sempre del 1968, la ragazzina che è anche un fallo. Come ha osservato Stefano Velotti in un articolo di qualche anno fa (Autoritratto come fioritura. Note su Louise Bourgeois, in “Fata Morgana”, 15, 2012, pp. 157-169) e come aveva già anticipato Rosalind Krauss nel 1989, in Louise Bourgeois: Portrait of the Artist as Fillette, ci troviamo davanti a veri e propri autoritratti intimi dell’artista, effigi dell’ambiguità e dei suoi simboli interiori. Quelle sculture che sono a un tempo maschili e femminili, dure e morbide, organiche e inorganiche, solide e fragili, sintetizzano, in definitiva, un approccio dicotomico che appartiene a tutto il lavoro di Bourgeois così come alla sua personalità.
Cellule
Cells (intesa nel senso biologico di ‘cellula’, ma anche in quello monastico di ‘cella’) è il titolo delle stanze create da Bourgeois dall’assemblaggio di elementi eterogenei con lo scopo di ospitare gli oggetti personali, trovati o creati dalla stessa artista. Si tratta dell’evoluzione massima della sua concezione della scultura. Già nelle prime esposizioni di oggetti scultorei, alla fine degli anni Quaranta, l’artista concepiva l’allestimento in senso ambientale, come enviroment, in cui il rapporto tra spettatore e spazio era centrale. Allo stesso tempo, le sue sperimentazioni cominciavano a convergere verso l’assemblaggio di elementi e materiali differenti, così come di naturale e artificiale, astratto e biomorfo. Da The Destruction of the Father, del 1974, la dimensione installativa prende sempre più piede nella pratica dell’artista.
Le Cells parlano di ansia e panico; rappresentano, in un certo senso, una sorta di reificazione di sedute psicoanalitiche, hanno uno scopo lenitivo e liberatorio. Bourgeois rivendica costantemente che il suo modo di parlare è solo in termini visuali, dunque, la sua analisi non può che esprimersi con i suoi lavori. L’arte per Bourgeois è una questione di rapporto con il corpo, la parola non appartiene a questo universo; e tale fisicità si può esprimere solo con la scultura, come dichiarano apertamente l’artista e Jerry Gorovoy in una intervista rilasciata a Maria Nadotti nel 1993. L’idea centrale delle Cells è quella di segnare un confine evidente tra lo spazio interno (l’individuo) e lo spazio esterno (il mondo). Gli elementi che compongono tali frontiere possono essere delle grate (e a quel punto la Cell diventa una gabbia) o delle porte e finestre che non sempre si possono aprire, ma che sono accessibili allo sguardo dello spettatore. È una pelle che può essere trasparente o che presenta lacerazioni che permettono di leggere un interno abitato da frammenti materiali di ricordi. Sono – con riferimento al titolo di una importante mostra del 2015-2017 (Louise Bourgeois. Structures of Existence: The Cells, Haus der Kunst, Monaco di Baviera; Garage Museum of Contemporary Art, Mosca; Guggenheim Museum, Bilbao; Louisiana Museum of Modern Art, Humlebaek) – “strutture dell’esistenza”: confortevoli, perturbanti o anche estremamente violente.
L’opera d’arte, per Bourgeois, diventa dunque un dispositivo atto a innescare meccanismi di ritorno all’infanzia non felice che ha forgiato la sua personalità, quasi con l’idea di impedire che quel trauma possa essere rimosso. L’intera poetica di Bourgeois è un continuo viaggio a ritroso a quei momenti della sua esistenza e l’ambiente domestico è il luogo in cui avviene questo ritorno. Come ho già indicato in un precedente articolo (Di stanze, in “Zetaesse”), in questo senso, Bourgeois si riconnette all’immaginario della pittura francese a cavallo tra otto e novecento, l’arte che ha visto nell’intérieur il genere prediletto per raccontare visivamente i turbamenti connessi con i disequilibri dei rapporti familiari ma, in particolare dalla fine del secolo, esso inizia a parlare specificatamente di una intimità personale che cela sovente un desiderio di ritorno al mondo infantile. Pittori nabis come Édouard Vuillard e Pierre Bonnard, che sono stati tra i punti di riferimento giovanile dell’artista, hanno realizzato scene di interno perturbanti esattamente negli stessi anni in cui Freud concepisce la psicoanalisi e in anticipo su Proust, del quale, del resto, erano coetanei e amici. Come in quei dipinti, nelle Cells di Bourgeois, lo spazio domestico è lo spazio della famiglia e dell’infanzia, luogo psicologico ideale per far emergere tensioni o desideri di recupero del passato.
Lo spazio domestico è – a fine Ottocento come ancora oggi – inoltre, la metafora della chiusura rispetto al mondo e allo stesso tempo è, per Louise Bourgeois, la rappresentazione del corpo e specificatamente del corpo femminile. Il lavoro di Bourgeois mira a isolare il materiale psicologico, chiudendolo nel sicuro dei sei lati di una stanza, ma allo stesso tempo vuole stimolare il voyerismo. Tutta l’arte che ha a che fare con l’intérieur è una messa in scena dell’atto del voyeur. Ed è proprio su questo punto che Bourgeois insiste: «il brivido di guardare ed essere guardati». Ma soprattutto il brivido di guardarsi dentro e di offrire agli altri la visione della propria interiorità.
In Cell (The Last Climb) (2008, National Gallery of Canada, Ottawa), la scala prelevata dallo studio di Brooklyn dell’artista prima che venisse demolito nel 2005 è risemantizzato come metafora di metamorfosi psicologica. Il tema dell’ascesa, della redenzione (“l’ultima scalata”), è in un certo senso una tensione a voler superare anche i confini imposti dalla gabbia che tuttavia non ha coperture, si libra verso il cielo e si ricongiunge all’ambiente che lo ospita. Le sfere in vetro blu, evocatrici di pace e trascendenza, si pongono in contrasto con le grandi sfere di legno ai piedi della scala, generando una tensione tra spinte contrarie e ambivalenti che abitano l’opera: legno e vetro, opacità e trasparenza, pesantezza e leggerezza, un moto continuo e ascensionale. È una rappresentazione dell’essere e dell’esistenza, laddove i rocchetti di filo (comunque legame con il mondo infantile e a sua mamma tessitrice) possono alludere anche alla fragilità dell’esistenza stessa. In Passage Dangereux (1997, esposta nel Salone del Lanfranco) l’artista invece esplora il passaggio complicato dall’adolescenza all’età adulta, accumulando oggetti, specchi, opere e materiali che danno conto della complessità della psiche umana in via di trasformazione.
Ancora all’infanzia rimanda Peaux de lapins, chiffons ferrailles à vendre (2006) presente nella mostra al Museo Novecento di Firenze, in cui sculture in tessuto e sacchi di stoffa pendono dal soffitto, quasi come corpi pendenti da una forca. In tutti questi lavori – dove si fondono assieme dolcezza e violenza, rigidità e morbidezza, forza e fragilità – è evidente come si materializzi, attraverso l’accumulo, l’assemblaggio e l’accostamento apparente incongruo di oggetti, una dimensione onirica e psichica che genera nello spettatore un misto di attrazione e repulsione. Esattamente quella idea di non verbalizzare, ma di visualizzare i fantasmi di una vita d’artista.
La Grande Madre
Maman, il ragno gigante realizzato da Louise Bourgeois nel 1999 per la Turbine Hall della Tate Modern di Londra, è il simbolo della madre. Della madre in generale, ma della sua in particolare. Sua madre, riparatrice di arazzi, era una Aracne che ha infuso nella figlia l’amore per l’arte. Morta troppo presto, nel 1932, la figura materna è rimasta presente in maniera ossessiva nella mente e nel lavoro di Bourgeois, divenendone – soprattutto negli ultimi anni – tema prevalente. Maman è un gigante benevolo e protettivo, stabile seppure retto su gambe esili. Custodisce le sue uova al sicuro nel suo ventre. Dal punto di vista più strettamente artistico, Maman fonde tutti gli elementi tecnici e simbolici delle sue sculture e installazioni: l’uso del bronzo, della rete metallica che protegge (come nelle Cells), dell’acciaio e del marmo in un’unica scultura, fa di Maman una summa del suo lavoro. Se a Roma è presente in mostra un’antenata della scultura (Spider, 1997, Giardini Segreti), il centro del chiostro del Museo Novecento, nella mostra a Firenze, ospita Spider Couple (2003), due ragni intrecciati che quasi camminano assieme, come madre e figlio o, forse, come madre e figlia (inteso come doppio ritratto dell’artista con sua madre).
Do Not Abandon me, la mostra fiorentina ospitata al Museo Novecento per celebrarne i dieci anni dalla sua istituzione, fa leva soprattutto sulla dimensione eminentemente femminile del lavoro di Bourgeois, in connessione con il complesso dello Spedale delle Leopoldine che ospita il museo, ed è dedicata agli ultimi anni di carriera dell’artista, durante i quali i temi della madre e della maternità sono diventati predominanti se non esclusivi. Se la mostra romana era più incentrata sulla pratica scultorea, l’uso delle tecniche tradizionali l’evoluzione ambientale del lavoro dell’artista, le sale della mostra fiorentina raccolgono molte opere su carta (come molte, e bellissime per il loro senso di immediatezza e forza istintiva, sono esposte anche da Studio Trisorio a Napoli, che delle tre mostre rappresenta una sorta di sintesi delle varie pratiche dell’artista), in tessuto e materiali eterogenei.
Protagoniste assolute, per la forza che sprigionano e il furor creativo ancora vivissimo nell’artista novantenne, è la serie di guaches rosse realizzate da Bourgeois negli ultimi anni della sua vita, quasi interamente dedicate al tema della madre con il bambino, alla gravidanza, alla trasformazione del corpo. Si tratta di fogli in cui l’uso liquido dell’inchiostro rosso steso su carta bagnata, evoca fluidità corporee, ambienti amniotici, elementi simbolici, immagini di seni, di ventri, di parti, fiori che sembrano anche ritratti di organi interni.
Il racconto della maternità di Bourgeois non ha nulla di retorico o melenso. Si tratta, anzi, di un continuo scandaglio interiore in cui si consuma la battaglia tra sofferenza e perdono di sé stessa. È soprattutto l’analisi di un archetipo incentrato sull’idea di rinascita e su quella di cura che per l’artista franco-americana ha rappresentato più o meno in sordina il leitmotiv del suo lavoro. Come indagato nella mostra curata da Massimiliano Gioni a Milano nel 2015, la “Grande Madre” è, tra altri, il paradigma della riconquista libera da dogmi patriarcali, da parte della donna, del ruolo di colei che mette a mondo un figlio, ma anche di colei che partorisce sé stessa (in La Grande Madre. Donne, maternità e potere nell’arte e nella cultura visiva, 1900-2015, Skira, Milano 2015, p. 17). L’esplorazione nell’intimo operato dall’artista per tutta la vita prosegue negli ultimi lavori con rinvigorita forza e senza cadere mai di tono. L’uso del tessuto diventa in questa fase predominante. Di nuovo un tuffo nel passato, un riandare all’infanzia, al laboratorio di riparazione di arazzi di famiglia dove lavorava la sua mamma, dove lei ha mosso i primi passi d’artista. Le piccole sculture in tessuto dedicate a gravidanza e parto (come Do Not Abandon Me, del 1999, che dà il titolo alla mostra oppure Umbilical Cord, del 2003) sono tra i pezzi di maggiore delicatezza e impatto emotivo. In queste opere, le temporalità e i ruoli si sovrappongono: il ricordo di sua madre, della sua infanzia, dell’essere figlia e quello di essere stata madre a sua volta. Non so se è perché siano strettamente legati al rapporto simbiotico madre-figlio, ma in questi lavori emerge una tendenza alla ricomposizione, alla ricucitura, che è in antitesi con i tagli, le castrazioni, le dissezioni che Bourgeois ha operato in lavori con al centro il corpo maschile. Basti pensare a The Destruction of the Father. Questi lavori, invece, sembrano operare una sorta di riparazione delle lacerazioni e cura delle ferite che fanno il paio con l’idea stessa di maternità. In una intervista a Trevor Rots nel 1990, l’artista dichiara che «alla violenza può succedere la riparazione. Fortunatamente dall’ambiente da cui provengo si restauravano arazzi, e così l’idea della riparazione mi ha sempre accompagnato. Le cose si possono riparare. […] Ho una certa fede nell’azione simbolica» (Distruzione del padre, cit., p. 212). L’arte come azione simbolica del riparare, ecco la chiave di tutto.
- Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria , da un’idea di Cloé Perrone, curata con Geraldine Leardi e Philip Larratt-Smith, in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma - Villa Medici.
Roma, Galleria Borghese, 21 giugno - 15 settembre 2024
- Louis Bourgeois in Florence. Do Not Abandon Me, a cura di Philip Larratt-Smith e Sergio Risaliti
Firenze, Museo Novecento, 22 giugno - 20 ottobre 2024
- Cell XVIII (Portrait), a cura di Philip Larratt-Smith con Arabella Natalini e Stefania Rispoli
Firenze, Museo degli Innocenti, , 22 giugno - 20 ottobre 2024
- Louise Bourgeois. Rare Language
Napoli, Galleria Studio Trisorio, 25 giugno - 31 ottobre 2024
In copertina Spider Couple (2003). Installation view of “Louise Bourgeois, Do Not Abandon Me” Museo Novecento, 2024.Photo by Ela Bialkowska OKNO studio©The Easton Foundation/Licensed by S.I.A.E.,Italyand VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY.
In copertina, Louise Bourgeois, Les Fleurs, 2009, Gouache on paper, suite of 12, 59.7 x 45.7 cm, each sheet, Photo: Christopher Burke, © The Easton Foundation/Licensed by S.I.A.E., Italy and VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY