Tiziano, la scarpetta della sposa

9 Settembre 2024

Chi si appresta a visitare in questi afosi mesi estivi le sale di Palazzo Barberini, una delle sedi delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, avrà l’opportunità di veder raddoppiato il piacere di percorrere quegli spazi. Per via di lavori di ammodernamento del primo piano della vicina Galleria Borghese legati ai fondi PNRR, alcuni capolavori di quest’ultima sono trasferiti nella galleria “cugina”, al fine di permettere al pubblico una continuità di fruizione altrimenti non possibile. 

L’apprezzabile scopo di mantenere visibili alcuni capolavori come Ritratto d’uomo di Antonello da Messina, la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini, la Madonna con Bambino, san Giovannino e angeli di Sandro Botticelli, il Ritratto di giovane donna con unicorno di Raffaello, Susanna e i vecchioni di Peter Paul Rubens, l’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano, la Predica del Battista di Paolo Veronese offre ai due musei l’occasione irrinunciabile di poter mettere in dialogo le due collezioni nazionali per eccellenza di arte antica, nate entrambe dalla volontà collezionistica di due protagonisti della vita sociale e culturale del Seicento, dei ex machina della trasformazione artistica della Roma del Seicento, Maffeo Barberini e Scipione Borghese. Si tratta indubbiamente di un’importante collaborazione istituzionale, che dà conto dell’importanza, per i musei dello Stato, di lavorare in maniera sinergica e strutturale nel comune sforzo di conservare, tutelare e valorizzare il patrimonio culturale nazionale. 

In questa mostra sui generis, le due collezioni, più che dialogare, si integrano in maniera organica e in alcuni passaggi permettono dei confronti davvero suggestivi, come quello tra la Fornarina (Gallerie Nazionali d’Arte Antica – Palazzo Barberini) e la Dama col liocorno (Galleria Borghese) di Raffaello che difficilmente potranno rivedersi accostate. Per il turista o il visitatore d’occasione vi è dunque la possibilità di buttarsi nel mezzo degli anelli di una spirale di capolavori dell’arte occidentale da vertigine; per il visitatore abituale di entrambi i musei è l’opportunità di riflettere su connessioni, parallelismi e affinità del gusto dei cardinali Barberini e Borghese. Fin qui le considerazioni nobilissime che hanno portato all’allestimento di questa mostra stra-ordinaria

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Raffaello, Dama con liocorno, 1506 circa, Galleria Borghese e La Fornarina, 1518-20, Gallerie Nazionali d’Arte Antica - Palazzo Barberini. Exhibition view, Foto Alberto Novelli.

La pittura vista da vicino

Per quanto riguarda la mia personalissima esperienza, visitare questa esposizione ha rappresentato la possibilità straordinaria di trovarmi vis-à-vis con alcuni dipinti capitali della storia della pittura occidentale, nonché della formazione di uno storico dell’arte, in una dimensione che le stringenti (e necessarie) regole sul tempo di visita e il gran numero di frequentatori di Galleria Borghese non possono permettere. Secondo me un valore aggiunto dell’esperienza offerta dai musei romani si rivela in tutta la sua pienezza proprio nella libertà di godere di queste opere con un tempo intimo e personale, e con un numero un poco più circoscritto di compagni d’avventura, soprattutto se si sceglie un giorno infrasettimanale e un orario pomeridiano.

Quanto tempo occorre per godere di un dipinto? Un istante oppure un intero pomeriggio, si potrebbe dire. Le mie considerazioni a freddo sulla visita a Palazzo Barberini partono proprio dalla modalità di frequentazione dei musei e di fruizione delle opere che i ritmi dettati dall’overtourism e dalle conseguenze che ne derivano (la contingentazione degli ingressi di Galleria Borghese, per esempio).

Passeggiare per l’ala sud di palazzo Barberini mi ha permesso di concentrare la mia attenzione su alcuni capolavori che spesso do per scontati quando visito Galleria Borghese. Ecco. Il piacere tranquillo ed esclusivo nel godere questi pezzi fenomenali di pittura è stato il motivo per cui è valsa la pena, per me, visitare la mostra di Palazzo Barberini e, in particolare, passare una buona mezz’ora a contemplare Amor sacro e Amor profano di Tiziano (quasi) da solo e in assoluto silenzio. È stato impagabile.

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Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1488-90 - Venezia 1576), Amor Sacro e Amor Profano, 1514 circa, olio su tela, cm 118 x 278, Galleria Borghese, Roma © Galleria Borghese.

Il mio approccio alle opere d’arte è da sempre lo stesso. Prima mi fermo a distanza, per avere una visione d’insieme. Il colpo d’occhio è una delle modalità di visione che preferisco per qualsiasi cosa, anche per le più futili, come quando scelgo i vestiti in un pomeriggio di shopping. Mi fido del mio colpo d’occhio. Cerco di bloccare nella mente un’istantanea in maniera che si visualizzino nel mio cervello le grandi masse cromatiche e i giochi di equilibri tra le forme. Da questa “massa” inizio poi a focalizzare delle porzioni dell’opera che mi attraggono, vuoi perché sono un bel pezzo di pittura, vuoi per il soggetto, vuoi – soprattutto – per le trovate ardite di “messa in scena” che alcuni geniali artisti sperimentano. Infine, mi avvicino, spesso incontrando il disappunto degli altri spettatori e, non di rado, ripreso dal trillo di qualche dissuasore sonoro. Il mio modo di osservare – come quello di ogni storico dell’arte, suppongo – esige uno spazio ravvicinato e un tempo lungo al fine di permettere di penetrare nel quadro, di indugiare sulla superficie pittorica, di perdersi dietro all’andamento di una pennellata spessa e materica, o in altri casi (per esempio nei di Ingres o nei quadri Ingres o nei quadri fiamminghi) di andare a ricercare fin dove l’illusione dell’immagine riesce a ingannare l’occhio, fino a quando, dunque, è possibile stanare il punto in cui, in maniera quasi impercettibile si riconosce, il tratto di pennello e l’artificio della pittura.

Come osserva Daniel Arasse in Le Détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture del 1997 (in traduzione italiana: Il Dettaglio. La pittura vista da vicino, Il Saggiatore, Milano 2007, recentemente ripubblicato e recensito qui su Doppiozero da Luigi Grazioli), riprendendo Klee, lo sguardo da vicino «fa sfiorare un sentimento d’intimità, quella del quadro, del pittore o dell’atto stesso della pittura» (ivi, p. 12). 

Quando mi capita di andare a Galleria Borghese, non ho quasi mai il tempo di soffermarmi sull’Amor sacro e Amor profano di Tiziano: è quasi alla fine del percorso, vado spesso di corsa ed è sempre pieno di gente. Forse per questo ho avuto una sorta di epifania quando, entrato nella prima sala della mostra di Palazzo Barberini, mi sono trovato, per la prima volta nella mia vita, totalmente solo davanti al celebre dipinto. In quel momento di esaltazione, pronto a buttarmi in una scorpacciata di sublime pittura veneziana, il mio occhio è stato però attratto (o meglio distratto) da un particolare inaspettato; un dettaglio a cui fino a quel momento non avevo mai prestato importanza. Si tratta della punta della scarpetta rossa ricamata che si intravede, in basso, appartenente alla fanciulla abbigliata, solitamente identificata come personificazione dell’Amor sacro. Il punto della mia distrazione non è stato tanto il riconoscere il “dettaglio iconico” della calzatura in quanto tale, ma proprio la macchia rossa con sovrapposizione di piccoli tocchi di bianco. Ho riconosciuto in quella piccola porzione di tela una sorta di sintesi che, in quel pomeriggio agostano e afoso, ho voluto leggere come una esaltazione del doppio e della complementarità. Il rosso e il bianco sono i colori principali dell’opera che proprio nel loro rapporto, sia di armonia che di contrasto, sprigiona parte della sua complessità. 

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Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1488-90 - Venezia 1576), Amor Sacro e Amor Profano, 1514 circa, olio su tela, cm 118 x 278, Galleria Borghese, Roma © Galleria Borghese - Particolare.

Come noto, l’opera rappresenta due figure femminili – molto somiglianti se non gemelle, una riccamente abbigliata e una parzialmente spogliata, coperta da un drappo rosso – che siedono ai lati di una fontana ricavata da un antico sarcofago; un putto, al centro della composizione, smuove le acque della fontana. La scena è ambientata in un paesaggio arioso, di tipo veneziano, dove si aprono, a destra e a sinistra, quasi come due finestre tra le verzure, vedute di castelli, corsi d’acqua, villaggi. Qui e là si scorgono, sul fondo, personaggi, cavalieri, pastori e, sulla destra, una coppia di conigli. Un’immagine incredibilmente densa, in cui tutto si dà per contrasto e il cui tema di base è chiaramente l’idea di doppio o, meglio, di “coesistenza di contrari”, sulla quale sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro da quasi tutti i principali storici dell’arte del Novecento (rimando, per una sintesi, al catalogo della mostra Tiziano. Amor sacro e Amor profano, a cura di Maria Grazia Bernardini, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1995, Electa, Milano 1995)

Lo scopo di questo scritto – che non è un saggio scientifico o specialistico, tenuto anche conto che non sono uno specialista di arte rinascimentale – è raccontare le impressioni personali provate in solitaria a cospetto di un capolavoro, il resoconto del mio viaggio come spettatore dentro uno dei più celebri quadri della storia che ha girato attorno a un piccolissimo e apparentemente insignificante dettaglio (e qui di nuovo il mio pensiero va ad Arasse).

Come dicevo, infatti, è stata una macchia rossa nella parte bassa del dipinto che ha attratto la mia attenzione, primariamente a livello “pre-iconico”, esattamente in qualità di elemento cromatico in contrasto con il bianco della veste e il bruno del terreno, poi a livello “iconico” nel momento in cui alla mia ragione si è rivelata essere una calzatura. Avvicinandomi ulteriormente al dipinto, a pochi centimetri da esso, ho potuto apprezzare, non solo il trattamento pittorico, la giustapposizione di macchie di colore su diversi toni di rosso, il ghirigoro bianco che simula un ricamo, ma anche la grande capacità di Tiziano nel rendere la tangibilità dei materiali. Ho pensato come, anche nel microcosmo della calzatura, la contrapposizione tra il bianco e il rosso, che ricorre a più riprese negli attributi delle effigiate, pone l’accento sull’idea di dualità che informa l’intero dipinto. E infatti, è bastato di nuovo fare un passo indietro per scorgere, a media distanza, nella parte centrale del quadro, tutta una serie di contrappunti per contrasto che rimarcano la presenza costante dell’antinomia. Alla mano sinistra guantata della fanciulla vestita, appoggiata alla sua gamba si contrappone, alla stessa altezza, sulla destra, la mano nuda della fanciulla svestita; la mano destra della prima si interfaccia con un oggetto che è stato interpretato come una scatola da cucito in argento sbalzato, un oggetto di uso domestico; l’altra fanciulla alza al cielo un braciere d’incenso, oggetto legato al mondo del sacro. Guardando in basso, infine, e tornando al centro del mio percorso visivo, al piede nudo della fanciulla ignuda, corrisponde, a sinistra, il piede calzato dalla scarpina in velluto rosso ricamato. Oggettivamente, a tutta prima, non sembrerebbe stato necessario aggiungere questo dettaglio, tenuto conto anche del lungo abito indossato dalla fanciulla. Perché mostrare la calzatura, se non per una mera questione di contrappunto cromatico, dunque? Davvero Tiziano ha scelto di rappresentare una scarpa in quel punto solo per creare un ulteriore contrasto con il piede nudo dell’altra giovane? 

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Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1488-90 - Venezia 1576), Amor Sacro e Amor Profano, 1514 circa, olio su tela, cm 118 x 278, Galleria Borghese, Roma © Galleria Borghese - Particolare.

La pianella di velluto

Senza entrare nello specifico della (lunga) storia esegetica del dipinto, vado direttamente al sodo per parlare dell’interpretazione corrente, dal mio punto di vista (come credo ormai pacifico per tutti) l’unica plausibile, che vede nel dipinto un quadro “matrimoniale”. Come ormai è stato ampiamente dimostrato con prove iconografiche e documentarie, il dipinto è stato eseguito per il matrimonio fra Niccolò Aurelio, segretario del Consiglio dei Dieci di Venezia, e Laura Bagarotto, gentildonna padovana, celebrato il 17 maggio 1514 a Venezia. Questa unione di famiglie è “dichiarata” visivamente dal pittore attraverso la rappresentazione degli stemmi delle famiglie degli sposi che vanno, a dire il vero, un po’ cercati con il lanternino. Quello di lei è visibile all’interno del bacile d’argento posto sul bordo della fontana, e quello di lui inserito nel sarcofago, poco sotto. C’è una cosa interessante da notare concentrandosi su questa porzione di tela (di nuovo, un dettaglio!): il bacile d’argento è posto perfettamente in asse con la cannella da cui fuoriesce l’acqua della fontana, cannella sulla quale si appoggia lo stemma di Aurelio. L’acqua che sgorga dalla cannella innaffia la porzione di suolo prospicente, da cui cresce rigogliosa una pianta. Sempre in asse con la cannella e il bacile, il putto (Eros/Cupido) rimesta l’acqua della fontana. Senza voler peccare troppo di sovrainterpretazione, mi sembra che in questo dialogo “iconografico” si possa rintracciare il punto concettuale più strettamente connesso al matrimonio del dipinto. Il bacile come elemento femminile e la cannella come elemento maschile che, uniti sotto l’auspicio di Amore, si uniscono in un matrimonio fecondo (a cui rimanda anche la coppia di conigli che si intravede a destra). Del resto, il bacile posizionato lì, molto prossimo alla cannella dell’acqua, e destinato a contenerla, quell’acqua, ha un retrogusto senza dubbio erotico. È una suggestione, nulla di più.

Però non è questo aspetto che, come detto, ha solleticato la mia attenzione in questo tour all’interno del dipinto. Torniamo dunque al matrimonio tra Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto. Si diceva come Aurelio fosse segretario del Consiglio dei Dieci, organo di governo della Repubblica di Venezia la cui funzione era di reprimere qualunque tipo di minaccia alla sicurezza dello Stato. In questa veste, accusandolo di ingiustamente di alto tradimento dopo la caduta di Padova durante la guerra con la Lega di Cambrai, il Consiglio aveva condannato a morte, nel 1511, il giurista Bertuccio Bagarotto, padre di Laura. Immaginate l’imbarazzo (e l’indignazione) della giovane quando si vide chiedere in moglie da uno degli assassini di suo padre. Non è affatto escluso, secondo la letteratura, che il matrimonio fosse un modo, tra altri, di riabilitare la figura di Bertuccio, un modo per scusarsi dell’errore compiuto e, allo stesso tempo, di ricucire i rapporti con Padova. Per celebrare il matrimonio, inoltre, la Repubblica di Venezia restituì alla sposa la sua dote (sequestrata dopo le vicende del padre); e, con la dote, molto probabilmente, venne rispolverato o acquistato il corredo nuziale. Ed è qui entra in gioco il nostro dettaglio. Leggendo qui e là alcuni inventari di corredi nuziali rinascimentali, noti e meno noti, si può facilmente rintracciare, tra i tanti oggetti, la presenza di calzature e, in particolare, di pianelle di velluto ricamate, non lontane da quelle indossate dalla fanciulla nel dipinto. Si tratta di una calzatura usata per lo più in casa, un oggetto d’abbigliamento che sottolinea il ruolo prettamente domestico della sposa, soprattutto di ceto elevato. Si tratta, nell’economia del dipinto, di un altro piccolo elemento che si lega a tutti gli altri attributi della sposa d’alto rango presenti nell’abbigliamento della donna di destra, a cominciare dai guanti (che fanno da contrappunto alla pianella di velluto), le rose e i fiori che schiaccia con la mano guantata, la coroncina di mirto, la scatola da cucito e il bacile.

Detto questo appare del tutto pacifico che il dipinto sia stato commissionato come dono alla sposa quale invito vivere l’amore come giusto equilibrio tra il ruolo pubblico e quello privato della sposa, l’essere impeccabile e irreprensibile agli occhi di tutti e allo stesso tempo devota sensualmente nel privato della stanza da letto. Un messaggio forte ed esplicito per una donna del primo Cinquecento a cui erano sicuramente familiari dottrine neoplatoniche ed ermetiche in voga nella Venezia del tempo e di cui Tiziano stesso, come noto, era infarcito anche per mezzo della sua amicizia con Pietro Bembo e ai cui ambienti era vicino anche Niccolò Aurelio.

In un siffatto invito a Laura Bagarotto a vivere in armonia e fecondità il matrimonio, si potrebbe riconnettere anche l’augurio di superare, in nome dell’amore, il drammatico torto subito per l’uccisione del padre; in questo senso, il sarcofago al centro della scena riadattato a fontana può assumere un significato ulteriore, rispetto al contenitore di Amore simboleggiato dall’acqua che Eros/Cupido rimesta. Ma qui mi sembra effettivamente di andare un poco oltre: il sarcofago rimane per me un riferimento alla cultura erudita classica che arricchiva Venezia al principio del Cinquecento.

Ecco allora che, in questo contesto esegetico che vede nel grande capolavoro rinascimentale un dipinto matrimoniale, anche la scarpetta rossa potrebbe entrare di diritto tra i dettagli significanti e non meramente descrittivi.

Abbandono Palazzo Barberini riflettendo su come il dipinto di Tiziano abbia uno scopo pratico, oltre che intellettuale, e certamente politico. Infatti, celebra, simbolicamente, anche il matrimonio tra Venezia e Padova, riconquistata dopo l’assedio seguito alla sconfitta della Battaglia di Agnadello (1509). Al di là di tutto, però, resta semplicemente un dipinto nuziale, un dono di uno sposo alla sua sposa, esattamente come i cassoni nuziali fiorentini che assolvevano allo stesso scopo di celebrare le nozze, a sancire alleanze familiari e indicare alle spose virtù morali e doveri coniugali. A differenza di questi ultimi, però, esso si eleva a livelli superiori non cercando di illustrare esempi di virtù provenienti dalle gesta del passato o della letteratura, ma lasciando al grande artista la libertà di esprimersi esclusivamente con la lingua che gli è propria, quello della pittura, invitando a superare contrasti e polarità in nome dell’unione coniugale, semplicemente bilanciando personaggi, ambienti e colori in un dispositivo concettuale in cui tutto si tiene. 

Dedico questo articolo a mia moglie Ughetta, come piccolo omaggio per i tre mesi del nostro matrimonio

Tiziano, Bellini, Bronzino. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini
Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini
Roma, via delle Quattro Fontane 13
29 Marzo 2024 - 27 Ottobre 2024

In copertina, Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1488-90 - Venezia 1576), Amor Sacro e Amor Profano, 1514 circa, olio su tela, cm 118 x 278, Galleria Borghese, Roma © Galleria Borghese - Particolare.

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