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Democrazia illiberale

18 Marzo 2025

Francis Fukuyama scrive oggi che il “tradimento” di Trump, alleato di Putin per trattare la fine alla guerra in Ucraina, e forse domani di Xi qualora la Cina invadesse Taiwan, rappresenta la fine della democrazia liberale americana. Fukuyama, l’autore della “fine della storia”, è citato fin dalle prime pagine del denso e insieme agile libro di Alessandro Mulieri, Contro la democrazia illiberale (Donzelli 2024, 158 pp.). Il pensatore americano riteneva infatti (nel suo libro del 1992) che la democrazia liberale fosse ormai destinata a conquistare il mondo, dopo la caduta dell’Unione Sovietica avvenuta l’anno prima. Sappiamo che le cose sono andate in senso opposto. Un altro analista americano, Fareed Zakaria, lo avevo colto per tempo in un articolo del 1997 su “Foreign Affairs”: The Rise of Illiberal Democracy. Russia, Cina, Venezuela, Bielorussia: tutti regimi illiberali che in nome del popolo eliminavano le libertà fondamentali. Possono chiamarsi democratici? Libertà e democrazia vanno insieme? Solo in certe fasi, mentre in altre prevale l’illibertà che si veste di democrazia (lì, infatti, il diritto di voto è inesistente, e la libertà di espressione, di stampa e di manifestazione, è vietata).

Ma come Mulieri spiega, le origini della democrazia illiberale sono antiche. Risalgono alla polis greca. Lì il regime democratico sostiene la parte più povera della popolazione, il plethos, mette tutto il potere nelle loro mani a scapito degli altri strati sociali. Mentre oggi la democrazia illiberale è fatta da élites ricche (gli oligarchi russi, i capi del partito e gli imprenditori cinesi) a scapito della maggioranza del popolo ridotta a sudditi (obbedienti senza cittadinanza, già diceva Nietzsche a proposito del ‘tipo cinese’).

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Democrazia e liberalismo sono necessariamente legati? Sì per la filosofa Nadia Urbinati, che ne sostiene la co-dipendenza; no per il sociologo Colin Crouch, che ne mostra la diversità. Egli spiega che democrazia ha a che fare con eguaglianza, liberalismo con opportunità libere e diversificate.

Comunque sia, cosa c’entra il populismo di destra (da Salvini a Orban a Trump) con la democrazia? Forse è nel giusto chi consiglia di non definirlo come democrazia illiberale, perché non di democrazia si tratta ma di autocrazia (come lo sono i regimi russo e cinese). In passato democrazie illiberali sono state il Secondo Impero di Napoleone III (lo spiega lo storico Pierre Rosanvallon), in cui si votava sì, ma tutte le libertà fondamentali erano ridimensionate. Di democrazia autoritaria è piena in realtà la storia, ovunque la libertà individuale sia messa in secondo piano. Persino la dittatura della maggioranza, di cui parlava Tocqueville già nel 1831, segnala una distorsione della “democrazia in America” da lui studiata per primo. Qui una maggioranza, forte del voto popolare, può sopprimere i diritti delle minoranze. Ne sa qualcosa l’America di Trump.

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I critici della democrazia sono più coerenti. Carl Schmitt, il grande giurista tedesco che fu nazista, sostiene che la democrazia sia fondamentalmente “antiliberale per vocazione” perché respinge la divisione dei poteri e la neutralità normativa, riassume Mulieri. In realtà Schmitt aveva un’idea del potere tutta basata sul Leviatano di Hobbes: “Perché gli uomini tributano il loro consenso al potere? In certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione. Ma hanno comunque bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere. Dal punto di vista umano il legame tra protezione e obbedienza rimane l’unica spiegazione del potere” (Carl Schmitt, Dialogo sul potere, 1954). I rozzi populisti di destra, anche se non hanno letto Schmitt, lo sanno bene (e certo lo ha letto D.J. Vance, il vicepresidente Usa).

Convince meno Mulieri, quando assegna ai “democratici illiberali” una visione critica delle passioni e dei desideri, che sono stati ‘sdoganati’ dall’odiato liberalismo. Essi sono invece chiaramente alla base della modernità e del capitalismo in ogni sua versione, e non solo di quella liberale. Il richiamo alle passioni e ai desideri è anzi tipico della destra populista trumpiana: come nel discorso di Vance a Parigi, quando critica la normativa europea affermando che gli Stati Uniti “non limiteranno mai il diritto dei cittadini americani alla libertà di parola”. Insomma, è semmai la democrazia liberale a “moderare” le passioni e gli istinti: mentre quella illiberale “pesca” volentieri nel torbido di queste stesse pulsioni.

Essere anti-liberali, come sono la destra populista e i regimi criminali alla Putin, significa invece utilizzare tutto un vecchio armamentario ideologico: la famiglia naturale, la nazione, il cristianesimo tradizionalista, il razzismo. Qui le radici sono nella vecchia destra reazionaria dell’800-900 e non c’è molto da aggiungere a quanto spiega Mulieri. Semmai va capito perché questa feccia ideologica sia ripresentata, e apparentemente assimilata da un vasto elettorato di destra. Su questo punto rimando al libro di Carlo Galli, La destra al potere, già da me recensito qui su Doppiozero.

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Certo essere anti-democratici è un’altra cosa, ed è la più importante e nociva. La destra populista e i regimi tirannici alla Putin negano alla radice ogni idea democratica. Giustamente Mulieri critica Zakaria, che ha torto nel sostenere che regimi come la Russia possano essere definiti democrazie illiberali. Cosa sia democrazia, nonostante le venti definizioni che ne dà David Held, emerge bene nel libro di Mulieri, basato sulla distinzione tra democrazia antica e moderna. La prima è quel regime che dà il potere ai “poveri” e quindi introduce instabilità e anarchia nella polis (i richiami ai classici sono tutti pertinenti, solo va aggiunto che la democrazia di Pericle è piuttosto aristocratica che democratica). La democrazia dei moderni è quella che per primo Tocqueville definisce positivamente. In questo autore, troppo velocemente trattato da Mulieri (p. 91-93) vi è già tutta la complessità della democrazia moderna: essa assegna agli individui e al loro interesse il ruolo di motore del sistema sociale democratico, riduce al minimo il controllo dello stato federale, dà ogni potere possibile alla town e alla county, cioè alle unità minori decentrate, mette in tensione libertà ed eguaglianza. Questo è il punto centrale, anche oggi: la libertà garantita a ciascuno si scontra con l’eguaglianza promessa a tutti. Eppure, i vantaggi della democrazia che Tocqueville analizza in America nel 1831 sono chiari: “La libertà democratica – egli scrive –non esegue le sue imprese con la stessa perfezione del dispotismo intelligente; spesso essa le abbandona prima di averne tratto frutto, oppure tenta imprese pericolose; ma a lungo andare produce frutti maggiori; fa meno bene ciascuna cosa, ma fa più cose. Sotto il suo regime, non tanto è grande ciò che viene operato dall’amministrazione pubblica, ma ciò che si opera senza e al di fuori di essa. La democrazia non dà al popolo il potere più abile, ma fa ciò che il governo più abile è spesso impotente a creare: diffonde nel corpo sociale un’attività insonne, una forza esuberante, una energia che non può esistere senza di essa e che, per poco che le circostanze siano favorevoli, può fare prodigi” (A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, p. 250).

Ci sono poi alcuni rovesciamenti di senso, nella recente crisi della democrazia, che andrebbero colti meglio. Ad esempio, l’anarchia, quella mancanza di governo attribuita nell’antichità al “governo dei poveri”, è divenuta oggi nel tardo capitalismo l’esito del “governo dei ricchi”, gli oligarchi del digitale alla Elon Musk. Essa fa esplodere le già forti diseguaglianze sociali. Mulieri, invece, conclude proponendo un’idea di giustizia, alla Amartya Sen, che dovrebbe conciliare democrazia liberale e “governo dei poveri”. Una strada stretta ma più che mai necessaria.

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