Kabul, la porta del disordine mondiale
In Hollywoodgate, uno straordinario documentario appena presentato a Venezia, il regista egiziano Ibrahim Nash’at mostra un anno di attività di un capo talebano nell’Afghanistan abbandonato dall’esercito americano nell’agosto 2022. I talebani prendono possesso delle armi, velivoli, tecnologie militari sofisticate abbandonati dagli americani, per un valore di 7 miliardi di dollari, nella base militare di Hollywoodgate creata a Kabul dall’esercito USA. Nome ironico, perché quella porta hollywoodiana si trasforma ora nel suo opposto, una base militare talebana tecnologicamente avanzata. Ma anche nome azzeccato, perché l’Afghanistan è da sempre la “porta” d’Oriente, che collega l’altopiano iranico, la regione centroasiatica, il subcontinente indiano. Di lì sono passati Ciro il Grande, Alessandro Magno, Gengis Khan. E in età moderna, lì sono arrivati per occuparlo prima gli Inglesi (nel 1839, e nel 1878), poi i Russi (1979-1989), infine gli Americani a due riprese (2001, 2012). Tutti sono stati costretti a ritirarsi. Perché?
Il libro di Thomas Barfield, Afghanistan (Einaudi 2023) è il più importante lavoro storico dedicato al remoto paese asiatico così importante per tutti noi. Qui, infatti, si è giocata una partita decisiva tra Occidente e Oriente, tra modernità e oscurantismo, con l’esito per ora paradossale del rafforzamento del regime talebano a seguito dell’umiliante uscita di scena del più forte esercito del mondo.
Ci sono in epoca moderna – dalla metà del 1700 – due Afghanistan che convivono tra loro. Uno è dinastico e centralizzato, creato per dirigere dal centro. L’altro è marginale e tribale, vive nelle valli ed è egualitario. Corrispondono alla perfezione all’antico modello tracciato nel XIV secolo da Ibn Khaldun, il grande storico arabo, per le società asiatiche: la “civiltà del deserto”, pastorizia e marginale, e la “civiltà sedentaria”, agricola e a sostegno delle città. I due mondi continuano a esistere in Afghanistan. Quelli che hanno voluto modernizzare il paese, prima i regnanti afghani poi gli occupanti stranieri, hanno puntato sul centro e sulle città, Kabul ed Herat, tra Nord e Ovest del paese. Invece i talebani, islamisti reazionari, hanno saputo insediarsi nel Sud del paese, etnicamente a maggioranza pashtun, e legato al Pakistan con cui confina. Da questa area basata sull’oppio, più arretrata e stagnante, i talebani hanno tratto forza e alimentato il terrorismo. L’intervento americano del 2001, a seguito dell’11 settembre per colpire una base del terrorismo islamista, ha in un primo momento sconfitto i talebani tanto da considerarli in via di estinzione. Errore che si rivelerà strategico. I talebani sconfitti si riorganizzano proprio nel Sud Est ai confini con il Pakistan, sfruttano il risentimento verso gli occupanti americani e il debole governo di Kabul. Si ripresentano cambiando abilmente volto: da islamisti radicali a sostenitori dell’autonomia del paese contro gli americani, come ieri era lo erano stati contro i sovietici. Paradosso: i mujaheddin erano stati abbondantemente finanziati dagli Stati Uniti negli anni ‘80 proprio per combattere i russi! Ora i talebani riescono a mobilitare di nuovo quei signori della guerra locali, ma stavolta contro gli americani. Così i vecchi legami tribali pashtun e il sostegno del Pakistan spiegano la resurrezione dei talebani. La vecchia struttura delle reti tribali si salda con la nuova realtà dell’Isi (il servizio di intelligence) pakistano e di Al-Qaeda, protagonista del terrorismo islamista. L’insurrezione del Sud è frutto di questa saldatura. A far apparire i telebani un’alternativa attraente per queste popolazioni non furono motivi ideologici, ma la incapacità del governo di Kabul di offrire sicurezza, benefici economici, giustizia. Ritorna così a galla l’altro elemento di lungo periodo della storia afghana: la debolezza del governo centrale nei confronti delle periferie. Gli americani non hanno fatto altro che seguire il modello centralizzato, sostenendo i suoi governi deboli, senza capire che il pericolo veniva dalle periferie. Anche quando con Obama nuove forze militari arrivano a Kabul nel 2009, portando gli effettivi americani a 100.000 soldati nel 2010, si tratta di una campagna di breve durata che già nel 2011, con l’uccisione di Osama bin Laden in Pakistan, viene ridimensionata. Questa nuovo errore strategico dà modo ai talebani di attendere il ritiro delle truppe straniere aggiuntive per riprendere la loro espansione. Ritiro americano che viene prima annunciato, e poi ritardato a causa dell’insorgere dello Stato islamico in Iraq e Siria (2014) con il rischio di estendersi all’Afghanistan. Tuttavia, la prolungata permanenza degli americani nel paese non coincide con un rafforzamento delle capacità autonome del governo afghano, bensì con un aumento della dipendenza e della corruzione: “coloro che utilizzavano la corruzione per distruggere lo stato detenevano il controllo del governo centrale e, per tornaconto personale, si dimostravano più interessati a demolire le istituzioni che a crearle. Attaccavano i loro rivali a livello regionale definendoli signori della guerra che andavano rimossi e sostituiti da loro stessi” (p. 410). Il durissimo giudizio di Barfield si sposa con quello di Sarah Chayes, la studiosa americana vissuta in Afghanistan dal 2002 al 2009 per sostenere la riconversione dalla produzione di oppio verso altri prodotti agricoli, che definisce nel 2015 il governo afghano di Karzai “un’organizzazione criminale verticalmente integrata”. Così si è creata un’economia della corruzione grazie ai finanziamenti internazionali, a partire dai 145 miliardi di dollari spesi dagli americani in vent’anni per cercare di ricostruire il paese. Nel 2021 un audit del Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) scopre che il 91% dei fondi era stato destinato a strutture inutilizzate o abbandonate, o non utilizzate nel modo previsto, deteriorate, distrutte. Con l’uscita di scena dopo dodici anni di Karzai (2014), il nuovo governo Ghani nasce viziato da accuse di brogli, che l’Election assessment team dell’Unione Europea chiamato a vigilare conferma. Ne segue un compromesso di governo di unità nazionale voluto dagli americani, che in realtà perpetua la divisione tra gruppi di potere, e contro cui si schierano i talebani. Essi mantengono il radicamento nelle aree rurali del paese e si espandono grazie alla formazione di milizie locali autonome, togliendo al controllo centrale un numero crescente di aree marginali. Si arriva così al crollo di Kabul, dopo un lungo negoziato tra amministrazione Trump e talebani che non condusse a nulla, e la decisione dell’amministrazione Biden di ritirare le truppe americane senza condizioni. Kabul viene circondata dai talebani e Ghani, senza organizzare alcuna difesa della capitale, fugge in elicottero in Uzbekistan. Il resto è storia che abbiamo tutti negli occhi: l’abbandono disordinato di 100.000 persone, il peggior finale possibile di vent’anni di guerra americana in Afghanistan.
L’emirato islamico talebano nasce senza rivali interni, e senza più eserciti stranieri pronti a invaderlo. Ma non significa senza contraddizioni. Una società afghana urbanizzata (Kabul conta 4,5 milioni di abitanti), tecnologicamente più avanzata, che ha conosciuto la crescita dell’istruzione e un ruolo sociale delle donne, potrà accettare il regime talebano? E le antiche divisioni etniche, religiose, regionali non finiranno per ripresentarsi? Il regime dei talebani, che non ha finora ricevuto il riconoscimento di nessun paese incluso il Pakistan, potrà continuare a operare senza aiuti esterni con un tasso di povertà del 97% secondo le stime delle Nazioni Unite? Per ora una cosa è certa: la sconfitta dell’Occidente a Kabul fa parte del grande disordine mondiale in cui il cumulo di rovine cresce come nella visione della storia di Walter Benjamin.