Guerra per procura

5 Giugno 2024

Essere in guerra è una condizione che ci riguarda da vicino: essa si svolge in forma militare al confine Est dell’Europa, e si svolge in altre forme – di opposizione alla guerra scatenata da Putin – all’interno della Russia. Questa guerra richiede di sostenere l’Ucraina aggredita con ogni tipo di aiuto (economico, militare, ai migranti), di sostenere gli oppositori interni al regime putiniano dando loro voce e solidarietà. Di non restare neutrali. Di isolare chi la guerra la provoca e la sostiene, Russia e Cina, senza cercare un’impossibile equidistanza. Di cercare la pace con i fatti, sostenendo i più deboli. Di prepararci ad accogliere l’Ucraina (dice la ragazza ucraina incontrata da Isabella Mattazzi a Leopoli nel suo resoconto su Doppiozero “Cosa pensa l’Occidente di noi, come ci guarda? Mi chiedono i suoi occhi. Lo sapete che stiamo arrivando? Lo sapete?”).

Il generale David Petraeus, coautore insieme allo storico militare Andrew Roberts di L’arte della guerra contemporanea (UTET 2024), è un protagonista ben noto: ha diretto l’esercito americano e la CIA, in Iraq e Afghanistan. Le guerre le fa, non solo le analizza. Doppiamente utile la lettura del monumentale volume (650 pagine) che parte dal 1945 e arriva al 2022. Proprio la guerra in Ucraina è il nostro punto di attacco al libro. Importante è quello che il libro dice, e altrettanto quello che il libro non dice.

La guerra in Ucraina è scatenata (è quanto il libro dice fin dal titolo del relativo capitolo) per la sopravvivenza di Vladimir Putin. Deriva dalla necessità di questo tiranno contemporaneo di salvare la sua persona (“come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona”: Franz Kafka) quindi di attaccare all’esterno per controllare all’interno. La tesi è importante, e molto condivisibile. L’ha sostenuta molti anni fa, al tempo dei totalitarismi e delle due guerre mondiali, Simone Weil: “Le due lotte che ogni uomo potente deve condurre, l’una contro coloro sui quali regna e l’altra contro i suoi rivali, si mescolano inestricabilmente e di continuo l’una rinfocola l’altra. Un potere, qualunque esso sia, deve sempre tendere ad affermarsi all’interno per mezzo di successi ottenuti all’esterno, perché questi successi gli offrono mezzi di costrizione più potenti; inoltre, la guerra contro i suoi rivali raccoglie al suo seguito i suoi schiavi, che hanno l’illusione di essere interessati all’esito del combattimento. Per ottenere da parte degli schiavi l’obbedienza e i sacrifici indispensabili a una battaglia vittoriosa, il potere deve tuttavia farsi più oppressivo: per essere in grado di esercitare questa oppressione, esso è ancora più imperiosamente costretto a volgersi all’esterno; e così di seguito…”. Tutto ciò che sta accadendo in Russia, dallo scatenamento delle guerre di annessione alla soppressione violenta degli oppositori interni, è lì a confermarlo.

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Naturalmente non sono questi gli argomenti del generale Petraeus. Sono invece geopolitici: il ruolo della Russia per annettersi l’Ucraina deriva dal suo ruolo di potenza regionale. Essa ha saputo invadere e annettere la Crimea nel 2014, senza resistenza da parte dell’Ucraina né da parte dell’Occidente, e vuole ripetere quel successo a una scala ancora maggiore nel 2022.

Il libro documenta bene la strategia del Cremlino nei primi due anni: una guerra lampo fallita. Una guerra retrograda, voluta nello stile della II° guerra mondiale e in alcuni casi, nelle trincee del Donbass, perfino della I° guerra mondiale, mentre negli ultimi due decenni la guerra è evoluta in modo vertiginoso e tecnologico. Putin non aveva previsto né la resistenza eroica degli ucraini, né la capacità di leadership di Zelenskyj, né il sostegno occidentale pur condotto senza mai entrare direttamente sul terreno. 

Il libro documenta gli errori militari russi, i crimini di guerra commessi a Mariupol’ e Buča (come a Guernica e a Srebenica in altre guerre…), il deliberato massacro di civili. 

Peraltro, il libro non dice come Putin abbia potuto ordire una simile tragedia. Il mancato intervento americano in Siria dopo l’uso di armi chimiche da parte di Assad, e l’abbandono dell’Afghanistan ai talebani, ne sono i veri precedenti. Un impero in ritirata, quello americano, ha lasciato spazio a una potenza regionale come la Russia che è potenza nucleare, in grado di orchestrare il suo potere militare in Siria, Libia, Sahel, la sua alleanza con l’Iran. Insomma, la nota legge della fisica, per cui un vuoto viene subito riempito, vale per la politica come per la guerra. La Russia ha aggirato le sanzioni, importando armi o componenti da Serbia, Armenia, Kazakistan, Turchia, India, Pakistan e Cina.

Di qui il più importante dei temi proposti dal libro. Sono “guerre per procura” quelle combattute in Ucraina. L’Occidente e la NATO fanno la guerra indirettamente, attraverso l’Ucraina, “senza mettere piede nel suo territorio”. L’intero campo della guerra per procura, già presente nelle guerre precedenti, è stato qui portato a un nuovo livello.

Anche dal lato russo si tratta di guerra per procura? La Cina ha fornito alla Russia nel 2023 la metà dei componenti militari critici da quest’ultima impiegati, secondo dati fornita dall’ISPI. Quello cinese è un impero, l’altro impero, di cui la Russia di Putin potrà essere solo un satellite.

Naturalmente il quadro interpretativo è allora, non di una guerra regionale, bensì quello del confronto tra i due imperi, americano e cinese. 

E l’Europa? Essa non compare quasi nelle 80 pagine del libro di Petraeus dedicate alla guerra in Ucraina, e neppure nelle 650 pagine del libro: è citata solo due volte. Ci sono gli Stati Uniti “nazione indispensabile”, c’è la Gran Bretagna suo principale alleato, c’è la NATO. Non l’Unione Europea. Il suo ruolo marginale non potrebbe essere più spietatamente sottinteso.

Ma quanto potrà durare la guerra “per procura”? La ripresa dell’offensiva russa, non prevista dal libro di Petraeus e Roberts e in corso con rischi di sfondamento del fronte ucraino, porterà all’uso di armi USA che colpiscono direttamente il suolo russo, ciò che è stato fin qui accuratamente evitato, e perfino all’invio di truppe occidentali, come proposto da Emmanuel Macron. Con esiti imprevedibili.

Iraq e Afghanistan sono le due guerre precedenti di cui il generale Petraeus è stato direttamente un protagonista. Ancora più in là nel tempo, la guerra del Vietnam. A ben vedere si tratta di guerre tutte perdute dagli Stati Uniti. Il Vietnam per tantissimi motivi, soprattutto per l’incapacità – sostengono gli autori – di sviluppare una guerra antinsurrezionale, cioè capace di rispondere a una “guerra del popolo o insurrezionale”, come la definirono gli stessi generali sudvietnamiti. Anche se la parola finale che gli autori adottano è quella di Kissinger, che la guerra del Vietnam ha permesso comunque all’America di frenare l’espansione comunista in Asia, il loro commento è che la lezione non è stata imparata. Il problema si è riproposto infatti in Iraq e Afghanistan: operazioni militari che hanno ignorato il contesto di popolo, la natura “insurrezionale” del nemico. Cui rispondere promuovendo le strutture civili e militari locali, cosa che non è avvenuta né in Vietnam, né in Iraq e Afghanistan.

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Ph: Christophe Licoppe, © European Union, 2023.

Primo fallimento: Afghanistan 2001-2021. Dall’attacco terroristico dell’11 settembre al ritiro americano da Kabul, è stata la guerra più lunga della storia americana. Dopo l’invasione del Paese per distruggere Al-Qaeda e le operazioni militari che tolsero il potere ai talebani e indebolirono Al-Qaeda, gli americani e la coalizione non seppero fornire un governo politico al Paese invaso. Fu concessa un’amnistia ai capi tribali, che finirono per riprendere il potere, più violenti dei talebani loro predecessori: facendo così cadere ogni aspettativa di rinnovamento da parte della popolazione afgana. Il fallimento americano nel creare ed equipaggiare forze di sicurezza afgane, e il loro sostegno a un governo corrotto (Karzai) rese possibile il ritorno dei talebani. Petraeus racconta dal di dentro, avendo partecipato all’incontro, la decisione di Obama (2009) di annunciare l’incremento delle forze militari americane e il loro ritiro entro 18 mesi. Una decisione sbagliata che annunciava ai talebani che avrebbero dovuto resistere ancora per poco. Questo ha favorito la loro resistenza e progressiva riconquista del Paese. Nel 2020 gli Stati Uniti con Trump negoziano con i talebani il ritiro delle truppe americane entro il 1° maggio 2021 e il rilascio di 5.000 talebani prigionieri, che naturalmente torneranno a combattere. Biden conferma questa decisione, solo rinviando il ritiro all’11 settembre 2021, data inutilmente simbolica! Sotto l’offensiva talebana le forze armate e il governo afgano si danno alla fuga, e Kabul cade il 15 agosto 2021.

Secondo fallimento: Iraq 2003-2011. L’invasione dell’Iraq decisa da Bush ripropone il copione già sperimentato: una iniziale passerella per forze armate supertecnologiche seguita da un’estenuante campagna antinsurrezionale per la quale gli Stati Uniti non erano pronti né intellettualmente, né organizzativamente. Anche qui l’errore di fondo: aver pensato che gli iracheni avrebbero accolto come liberatori i militari americani. Anche qui, l’idea di portare la democrazia liberale e l’economia di mercato si rivela una mera ideologia, in un Paese pieno di tensioni tribali, etniche e religiose (a partire dalla divisione sunniti/sciiti) che la guerra riapre. Inoltre, gli americani non sono preparati a una guerriglia fedayn a bassa tecnologia, che le tecnologie di sorveglianza e ricognizione nemmeno sono in grado di “vedere”. Quando gli americani prendono le città, ammette Petraeus, non sanno letteralmente che farsene, come governarle e con quali forze. Nel frattempo, i soldati iracheni abbandonano le uniformi e rientrano nelle loro case portando con sé le armi. Con la caduta del regime di Saddam Hussein esplode il disordine e l’insicurezza (succederà anche in Libia con la caduta di Gheddafi), mentre gli americani si aspettavano la collaborazione popolare! Così gli americani “vincono la guerra” ma “perdono la pace”. Per “debaathificare” il Paese (Baath è il partito di governo) gli americani licenziano 85.000-100.000 iracheni di cui molti non legati al regime ma solo funzionari di carriera, che semplicemente entrano in clandestinità. Inoltre, smantellano l’esercito iracheno, così distruggendo lo Stato iracheno e preparando le basi della ribellione. Bombe in strada, terrorismo, foreign fighters ne sono gli inevitabili sviluppi. Petraeus, prima di lasciare Mosul (2004) vede respinte dai nuovi capi iracheni le sue proposte di riconciliazione nazionale. Invece a Felluja, città sunnita, soldati americani sono trucidati dalla folla, la reazione americana non porta a eliminare i ribelli sunniti, alla fine si instaura al-Zarqawi capo di Al-Qaeda. Seguirà la guerra civile e l’instaurazione dell’ISI, lo Stato Islamico dell’Iraq. Solo nel 2010 esso fu respinto, per spostarsi in Siria e divenire l’ISIS, lo Stato islamico di Iraq e Siria, sconfitto solo nel 2019. Ma nel frattempo, già nel 2011 le forze armate americane avevano ormai lasciato il Paese.

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Nonostante i fallimenti, l’Impero americano ha resistito politicamente ed economicamente: soprattutto grazie alla sua leadership tecnologica che ha, dalla California, guidato il mondo intero. Ma certo quei fallimenti hanno indebolito l’America e dato spazio ai nuovi Imperi (Cina) e ai loro satelliti (Russia).  Il libro è ricco di analisi militare e tecnologica (nuovo ruolo della robotica, Intelligenza Artificiale, droni, cibernetica, informazione etc.), ma avaro di analisi delle mutate condizioni del disordine mondiale. E questo, perché manca di visione politica. Del resto, gli autori scrivono fin nell’introduzione che il loro “non è nemmeno un libro sulla politica e le cause per cui scoppiano le guerre; parla invece di quello che accade sui campi di battaglia quando sono in corso” (p. 12). Le nuove guerre del XXI secolo non si spiegano senza una interpretazione del “potere che si sposta”, da Occidente a Oriente. Il ruolo della Cina e della stessa Russia non sono comprensibili senza capire gli effetti (inevitabili?) della globalizzazione, che ha spostato manifattura e risorse tecnologiche verso l’Asia e reso gli europei dipendenti dal gas russo, sguarnendo l’Occidente. Né si può trascurare il ruolo dell’Islam, dalla rivoluzione iraniana in poi (1979) nuovo attore internazionale completamente sottratto all’influenza americana anzi di essa nemico giurato. Né al nuovo ruolo del terrorismo internazionale, una presenza esplosiva in Occidente dopo l’11 settembre 2001. Anziché interrogarsi sulla tesi di Samuel Huntington sul Clash of Civilizations (Trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000), si è preferito dar credito alla tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia e il trionfo della liberaldemocrazia. Errori aggravati da altri fattori: la mancanza di visione politica dei “dopoguerra” (in Iraq, in Afghanistan) da parte dei presidenti come i Bush, la debolezza dei presidenti come Clinton e Obama, e la totale inconsistenza politica dell’Europa dopo il 1989 e l’allargamento a Est. Esso ha aperto una fase del tutto nuova, che richiedeva respiro strategico e capacità di alleanze. E soprattutto un’azione comune europea, politica e militare. Invece si è scelto di mantenere i veti nazionali e le pure logiche di mercato.

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Manca nel libro una visione degli effetti a medio (3-5 anni) e lungo termine (20-30 anni) che la guerra potrà provocare. Spesso si tratta di effetti non previsti e/o non voluti. Per ora l’aggressione russa all’Ucraina ha portato all’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO. A medio termine la guerra territoriale aggiungerà l’Ucraina all’Europa sotto ogni forma possibile, anche attraverso l’ingresso nell’Unione Europea. Lo aveva previsto Bruno Latour in uno scritto del 2022 (ora in Grand Continent, Fratture della guerra estesa, LUISS 2023). Sullo sfondo, si erge il problema della Russia. Dovrà essere una Nuova Europa a integrare progressivamente questa realtà, che è europea da sempre, una volta caduto il tiranno. Chi scrive queste note ha immaginato a più lungo termine un futuro in cui Russia e Turchia faranno parte dell’Unione Europea di qui al 2050 (Nel 2050, Passaggio al nuovo mondo, Il Mulino 2021).

Per intanto, occorre cercare le migliori condizioni per la pace. Nel 1919 John M. Keynes in polemica con le potenze vincitrici scriveva Le conseguenze economiche della pace, criticando la Conferenza di Versailles e l’umiliazione della Germania imperiale: se fossero state seguite, le sue lezioni avrebbero forse evitato il nazismo e la II° guerra mondiale. Chi scriverà oggi Le conseguenze politiche della pace?

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Alfredo Gigliobianco, "Le Conseguenze economiche della pace" di John Maynard Keynes 

In copertina, Kyiv, 24/02/2024 © Presidenza del consiglio dei ministri. 

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