Gaza: le radici

14 Novembre 2023

Il massacro da parte di Hamas di 1.400 civili israeliani del 7 ottobre 2023 e la “guerra di Gaza” che ne è seguita vanno innanzitutto inquadrati storicamente.

“Da molte settimane e con violenza crescente gli arabi conducono una vera e propria guerra partigiana che sta mostrando una forza inaspettata, con ogni sorta di atti di terrore e barbarie…Poiché gli ebrei, anziché rispondere con rappresaglie terroristiche, come pure sarebbe facile, hanno conservato sinora, contro ogni aspettativa, un atteggiamento disciplinato – il che rappresenta un’impresa dal punto di vista morale –, hanno mantenuto anche, per ora, una posizione di forza nella sfera politica. Se gli ebrei o certi gruppi ebraici non perdono la calma, il che è evidentemente lo scopo degli esasperanti atti di terrore e di sabotaggio, non si vede come gli arabi possano ottenere alcunché prima di mettere fine al terrorismo”. Sembra riferito all’oggi, invece chi scrive è Gershom Scholem in una lettera all’amico Walter Benjamin, il 6 giugno 1936 da Gerusalemme.

La Palestina era allora sotto mandato britannico e l’immigrazione ebraica aveva raggiunto le 400.000 unità e stava crescendo, perché come osservava Scholem in Europa nessuno voleva gli ebrei. La reazione araba era volta a imporre il blocco dell’immigrazione ebraica. Gli inglesi stavano in mezzo tra i due popoli, incerti sul da farsi.

Un secolo di guerra tra i due popoli è quanto emerge da queste e altre testimonianze. L’auspicio di Scholem che gli ebrei sappiano resistere alla tentazione di vendicarsi per affermarsi politicamente, non è stata seguita. Molto più spesso ha prevalso la logica della forza.

Il più grande fotografo del Novecento, Robert Capa nel 1948 arriva a Tel Aviv, a documentare la nascita dello Stato di Israele: era presente quando Ben Gurion ne dichiarò l’indipendenza. Capa era embedded con i soldati israeliani nella prima linea contro gli Stati arabi in guerra. Tra la prima e la seconda visita in Israele e Palestina, Capa tornò in Europa e visitò Auschwitz, dove erano morti i suoi parenti. Capa nel suo secondo viaggio in Israele nel 1949 fotografa in modo commovente il campo di immigrati ebrei vicino a Haifa. Ma omette nelle sue fotografie il dramma dei Palestinesi, che da quei territori erano stati espulsi, circa 750.000 rifugiati. Nelle 303 fotografie di Capa i Palestinesi sono assenti. Egli mostra l’eroismo dei coloni ebrei capaci di “far fiorire il deserto” ma ignora il dramma di un altro popolo, quello palestinese cui quello stesso deserto appartiene. Un’assenza destinata a durare fino a noi con esiti funesti.

In realtà, occorre andare ancora più indietro per capire le radici del dramma attuale. Con lo storico Rashid Khalidi della Columbia University nel suo The Hundred Years’ War on Palestine (2020) possiamo mettere in fila sette guerre tra Israeliani e Palestinesi: non tra due popoli che si contendono la stessa terra, ma tra una forza coloniale e una popolazione indigena. 

La prima dichiarazione di guerra inizia nel 1917 con la Dichiarazione di Balfour, in cui l’allora Impero Britannico sostiene l’insediamento in Palestina del popolo ebraico, e il successivo Mandato delle Nazioni del 1922, dopo la caduta dell’Impero Ottomano: in entrambi non vi è menzione degli Arabi o dei Palestinesi e dei loro diritti di autodeterminazione. La seconda è del 1947, quando gli Stati Uniti sponsorizzano la risoluzione delle Nazioni Unite di partizione del territorio palestinese, assegnandone il 56% al nascente Stato ebraico. È la Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi dai loro territori. Non è una pacifica migrazione, ma è ampiamente sostenuta dalla forza armata israeliana, qualcuno ha parlato di pulizia etnica. La terza è la guerra del 1967 contro Egitto, Giordania e Siria, che porta alla conquista di Gerusalemme Est, la West Bank, la Striscia di Gaza, il Sinai e il Golan. La quarta è del 1982 con l’invasione israeliana del Libano per espellere l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) da Beirut (qui si colloca il massacro di Sabra e Shatila ad opera di milizie cristiane). La quinta è del 1987-1995 con l’espansione delle colonie israeliane nella West Bank e a Gaza in risposta alla prima Intifada (atto di nascita di Hamas), fino agli “accordi di Oslo” che hanno rappresentato l’occasione mancata di una pace duratura: il successivo Trattato lo firmano a Washington il 13 settembre 1993 Shimon Peres per il governo di Israele, Mahmoud Abbas per l’OPL (in quanto rappresentante del popolo palestinese), e come testimoni Stati Uniti e Russia. Vi si prevede il ritiro delle truppe israeliane da Gaza e Gerico e dalla West Bank, e l’autogoverno su quei territori per i palestinesi. Un successivo negoziato chiamato “Oslo 2” o “Interim Agreement” prefigura un secondo stadio di autonomia per i palestinesi su alcune città (Ramallah, Betlemme, Nablus, Jenin e Hebron) e assicura il diritto degli israeliani a governare parte degli insediamenti ebraici. Vi sono accordi di cooperazione economica regionale, un vero piano congiunto di sviluppo dell’area. L’uccisione di Rabin il 4 novembre 1995 a Tel Aviv da parte di un colono ebreo estremista di destra pone fine all’esperimento: alle successive elezioni del 1996 Netanyahu prevale con il 50,5% dei voti su Shimon Peres. Quindi come in un ciclo, raggiunto un vertice pacifico inizia una nuova fase di guerra. La sesta inizia con la seconda Intifada del 2000 e continua con gli attacchi dell’esercito israeliano a Gaza nel 2008 (23 giorni), 2012 (8 giorni), 2014 (50 giorni), 2021 (11 giorni), 2022 (3 giorni), maggio 2023 (5 giorni) (fonte: UN, Al Jazeera Labs, Reliefweb).

Nel 2005 Israele si ritira dalla striscia di Gaza con un piano unilaterale, che prevede la chiusura di 21 insediamenti israeliani e il ritiro di 9.000 coloni. Secondo le organizzazioni come la Croce Rossa Internazionale e Human Rights questo ritiro non esclude la responsabilità giuridica di Israele come potenza occupante a Gaza. Nel 2006 le elezioni palestinesi vedono la vittoria di Hamas, 44% dei voti contro il 41% di Fatah: elezioni ‘fatali’, come quelle di Israele dieci anni prima. Hamas prevale soprattutto a Gaza, Fatah nella Cisgiordania. Il conflitto tra le due entità esplode violentemente nel giugno 2007 e si conclude con lo scioglimento del governo di unità nazionale palestinese e due governi de facto, Hamas a Gaza e OLP in Cisgiordania. Il primo dichiarato dalla comunità internazionale terroristico, il secondo riconosciuto e titolare degli aiuti e delle entrate fiscali spettanti ai palestinesi.

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Da allora non si contano i casi di violenza legati alla espansione in nuovi insediamenti che il governo di Israele con Netanyahu tollera o favorisce (ampia documentazione in Peace Now, Violent Settlement. The Connection between Illegal Outposts and Settler Violence, November 2021). Essi violano le convenzioni internazionali che chiedono alle potenze occupanti (Israele) di garantire la sicurezza delle popolazioni occupate (Palestinesi). Questi attacchi sono molto aumentati negli ultimi anni.

Di contro, nel campo palestinese si assiste al declino dell’ANP e all’insorgere di gruppi violenti, Hamas in testa, la cui strategia è colpire Israele con razzi e azioni armate.

A ben vedere, quella iniziata il 7 ottobre 2023 rappresenta quindi la settima guerra, stavolta provocata da Hamas. Essa è preceduta in Israele da proteste di massa contro il governo Netanyahu, che colpisce l’autonomia della Corte Suprema: quindi un governo debole e in crisi, incapace di fronteggiare gli eventi. Come si spiega infatti che – secondo le ultime ricostruzioni, fonte: le Monde – 2.000 uomini di Hamas siano penetrati a colpo sicuro attraverso 29 varchi praticati nella barriera che cinge Gaza, e senza intervento immediato dell’esercito israeliano, nelle città di Sderot, Zikim, al checkpoint Erez, a Netiv Haasara, comunità agricola a 400 metri dalla striscia di Gaza, nei kibbutz di Kfar Aza, a 5 km dalla striscia di Gaza nel deserto del Negev, Nahal Oz, Be’eri, Re’im, Maggen, e altri? Il governo e i servizi non hanno saputo difendere i cittadini israeliani.

La seconda domanda è: come si pensa di prendere Gaza, in quanto tempo e con quante vittime? Non ci sono paragoni con altri casi simili: prendere una città di oltre 2 milioni di abitanti in mano ad Hamas da 20 anni, con quanto ne consegue in termini di strutture, militari e civili, nel frattempo realizzate. Un pallido confronto è con l’assedio di Mosul (conquistata dagli jihadisti nel 2014 e liberato nel 2017) durante la guerra all’ISIS da parte delle forze armate irachene e della coalizione internazionale di sostegno (con l’accordo di Iran, Russia, Turchia che oggi manca) nel 2016-17: un assedio durato 9 mesi che secondo stime provocò 40.000 vittime civili. Nei giorni scorsi la coordinatrice degli affari umanitari dell’ONU per i territori palestinesi ha dichiarato che «nessun luogo è sicuro a Gaza» a causa dei bombardamenti israeliani, e che «gli avvertimenti anticipati» lanciati dall’esercito israeliano alle popolazioni per evacuare le zone che intende mirare «non fanno alcuna differenza” non essendoci alcuna via di scampo. Al momento in cui scrivo (6 novembre) le vittime sarebbero 9.000 secondo Hamas (sulla attendibilità di questi dati ovviamente si discute ma molti studiosi li ritengono credibili: fonte Wired).

La terza domanda è: quale soluzione dare alla crisi in corso? La posizione israeliana sembra essere: lo si vedrà dopo, quando Hamas sarà stato eliminato. Ma in che modo: eliminazione dei capi e dei militanti (stimati in 30.000)? come distinti dalla popolazione civile in una guerriglia urbana? quanto durerà: mesi? anni?

Una inchiesta condotta da Arab Barometer, un network cui partecipa la rivista Foreign Affairs, tra la popolazione di Gaza e della West Bank pochi giorni prima dell’attacco di Hamas, affermava che la maggioranza dei palestinesi intervistati è critica con Hamas per la sua gestione dei territori e non condivide la linea di voler distruggere lo Stato di Israele, è invece favorevole alla soluzione dei due Stati. Sarà questa popolazione risospinta a sostenere Hamas in seguito all’azione militare israeliana a Gaza?

Serve invece una proposta, che riconosca infine ai due popoli pari diritti di esistenza statuale e ai palestinesi il diritto di autodeterminazione. Ma con quale legittimità, se dopo il 2006 nessuna elezione si è più tenuta, e quella del 2021 è stata annullata? e su quale territorio? con quali rapporti con Israele? con quali risorse? La risposta deve essere data ancora una volta non da un singolo attore, ma dalla comunità internazionale. Ma essa è divisa, impotente. Come scriveva anni fa Gilles Kepel (Uscire dal caos, 2019) la colpa del caos è equamente distribuita.

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