Pace
Per Erasmo è madre, origine e nutrice di ogni bene. È la Pace con la maiuscola, che conserva intatta la sua dignità benché oltraggiata dall’iniquità e scelleratezza degli uomini: cercando invano rifugio presso le corti dei principi e tra i dotti e i religiosi, tutti in preda alla discordia, li redarguisce aspramente, come bambini irresponsabili (Querela pacis, 1516). A lungo la Pace resta una donna nobile e matura: così la immagina Cesare Ripa nella sua Iconologia (1603), dove essa brandisce da un lato il classico ulivo, dall’altro il fuoco dell’amore reciproco; e così la rappresenta anche, alata e che schiaccia senza sforzo il serpente della guerra, Antonio Canova, che realizza nel 1815 su commissione di un diplomatico russo la statua della Pace detta di Kiev, perché dopo essere stata conservata prima a San Pietroburgo poi a Mosca, fu donata nel 1953 da Krusciov al Museo nazionale Kahnenko della capitale ucraina, dove oggi si nasconde per provare a sopravvivere alle bombe.
Ma con l’andare del tempo si è rinunciato a rappresentare la Pace con l’imponenza e l’autorevolezza di una dea. Essa è divenuta un gruppo di donne circondate da frutti e bambini (così Picasso nella cappella di Vallauris), un puttino che gioca con l’agnello (secondo l’immagine evangelica che figura in un manifesto del Front populaire comunista nel 1936), e persino una bolla di sapone (quella che Victor Hugo si diverte a soffiare al congresso internazionale della pace del 1853, e che i bambini tra il pubblico tentano di scoppiare, in una caricatura dell’epoca).
Pensare la pace come piccola e plurale, anziché grande e singolare, presenta ad ogni modo alcune importanti ricadute filosofico-politiche. Arianna Arisi Rota in Pace (ultimo, tempestivo, titolo della sottile ma preziosa collana “Parole controtempo” del Mulino), considera la pace non solo come il contrario della guerra, secondo l’accezione prima e diffusa, ma come un continuum, uno spettro articolato di differenziate quantità e qualità di pace. Uscire dall’opposizione di bianco vs nero, dalla definizione in negativo della pace come non-guerra, significa valorizzare i legami che il concetto di pace intrattiene con quello di relazione, e capire che per arrivare alla pace bisogna “visitare la terra del compromesso”, dove nessuna delle parti vince o stravince, ma tutte per così dire fuoriescono da sé e condividono. Significa anche sottolineare che la pace è affare di tutti i giorni: una small peace, tante paci diffuse, che si impegnano a conservare la relazione e la convivenza contro tutto ciò che tende a deteriorarle. Questo ideale di paci, al plurale, è suggerito tra gli altri da Kant, quando raccomanda una pace senza riserve mentali; da J. F. Kennedy, per cui la pace è un processo più che un risultato; da Mandela, secondo cui sedersi a parlare col nemico è l’inizio di tutto; e anche dal cardinale Matteo Zuppi, che ricorda come la pace richiede sempre un processo adattivo.
In questa prospettiva, conviene meditare attentamente la tensione tra pace e sicurezza. Arianna Arisi Rota ci ricorda come, una cinquantina di anni dopo che i romani, con l’avvento dell’impero, avevano barattato la loro libertas con la Pax Augustea celebrata dall’Ara Pacis, Nerone coniò delle monete che recavano la scritta “securitas”. Il potere del Leviatano sorge in effetti, nella visione di Hobbes, per proteggere gli uomini dalla violenza dello stato di natura; ma fino a che punto la preoccupazione per la sicurezza non si trasforma a sua volta in minaccia per la pace? Questi interrogativi attraversano la riflessione di Justine Lacroix, una studiosa di teoria politica dell’Université Libre di Bruxelles (Les valeurs de l’Europe, un enjeu démocratique, Collège de France, 2024), che distingue tra la “sécurité”, la protezione dal pericolo, e la “sûreté”, l’essere al riparo dall’arbitrio: un nodo oggi cruciale per i dibattiti di politica interna così come internazionale.
La small peace sottende poi un altro presupposto che mi pare cruciale per pensare la pace oggi: ovvero che esista uno scarto tra l’idea di pace e quella di perfezione. Arisi Rota nel breve ma cruciale paragrafo “In cerca di misura” ricorda che la pace implica proporzione e limitazione, ovvero rinuncia all’assolutezza.
Si lascia qui il terreno della scienza politica per entrare in quello della filosofia della pace – un campo di studi relativamente smilzo rispetto a quello, nutritissimo, della filosofia della guerra. È una migrazione necessaria perché, se proviamo a descrivere in una prospettiva di storia della pace la fase che attraversiamo in questo inizio di XXI secolo, dobbiamo riconoscere che le due principali tipologie di pacifismo “strumentale” descritte da Bobbio in Il problema della guerra e le vie della pace, ovvero il disarmo, che mira a distruggere i mezzi della guerra, e il pacifismo giuridico, che mira a regolamentare la forza col diritto creando le istituzioni sovranazionali e tendendo verso lo Stato mondiale, hanno finito col rivelarsi assai più inefficaci del previsto. Non resta che impegnarsi nell’ultima tipologia di pacifismo contemplata da Bobbio (in una scala in cui l’attuabilità è inversamente proporzionale all’efficacia, questa risulta la meno attuabile e tuttavia anche la più efficace): quella che agisce non più sui mezzi e sulle istituzioni, ma direttamente sugli uomini. Sempre Bobbio osservava del resto che, una volta tramontati tanto l’ideale della pax economica, quanto il sogno delle filosofie della storia illuministiche e positivistiche che ritenevano la pace l’esito naturale e necessario dell’evoluzione dei sistemi politici e sociali, e dissolte anche, in assenza di criteri validi in assoluto, le teorie della “guerra giusta”, è tornato chiaro che la guerra è l’antitesi del diritto (come già per Hobbes), e che la pace è un ideale morale da costruire (come anche già per Erasmo).
Ma come difendere la pace come ideale morale senza ricadere in buoni propositi troppo lontani dall’agenda politica? Un valido punto di partenza è in effetti scindere pace e perfezione. Il grande rimprovero rivolto al pacifismo ideologico degli anni 1920, da parte di “pacifici” che desideravano la pace ma non si sentivano “pacifisti” (così ad esempio Thomas Mann criticando Romain Rolland) era di aspirare a una perfezione utopica e irrealizzabile, ingenua: a soluzioni ideali completamente soddisfacenti ma astratte, meglio sostituire un più viabile, ma non meno coraggioso, percorso di umiltà e moderazione. Così lo storico olandese Johan Huizinga suggerisce che la differenza tra nazionalisti e internazionalisti, ovvero rispettivamente coloro che si dedicano alla cura del proprio interesse e coloro che si impegnano a oltrepassare anche solo di un millimetro la linea di ciò che quest’interesse prescrive, si gioca in uno spazio appunto minimo e senz’altro insufficiente, ma essenziale, poiché “quel millimetro è il territorio dove troviamo l'onore e la fiducia; un territorio infinitamente più ampio di alcune migliaia di miglia di volontà di potenza e di prepotenza" (Nelle ombre del domani, 1935).