Le scatole sonore di Vincenzo Cerami

17 Luglio 2023

Una delle ultime grandi esperienze intermediali della letteratura italiana contemporanea è senza dubbio quella di Vincenzo Cerami, la cui plastica penna è stata al servizio del romanzo, del cinema, del teatro, del giornalismo con un successo e un’incisività tali da farlo divenire all’alba del Duemila lo “scrittore di più linguaggi” per eccellenza in Italia, come ebbe a dirne Consolo. 

A dieci anni dalla scomparsa, questo campo plurale è in via di celebrazione e di riscoperta: ne danno prova un recente incontro al Salone del Libro, la digitalizzazione di uno storico speciale su Rai3 e la due giorni di studi ideata da Ugo Fracassa dal titolo Mediamente Cerami tra l’Università di Roma Tre e la BNC, culminante in uno spettacolo al Teatro Palladium.  

La vocazione poligrafa, è noto, Cerami l’aveva coltivata fin da discente “a bottega” da Pier Paolo Pasolini, suo maestro non solo d’arte ma anche di scuola sui banchi delle medie alla Petrarca di Ciampino, che accanto ai classici faceva leggere gli allora contemporaneissimi Alfonso Gatto, Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni, e che – doctus qual era anche in musica – faceva sovente riferimento a Bach, Strauss e al canto popolare. 

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Forse anche per questo anni dopo, nella trasfigurazione letteraria di Fantasmi (2001), Pasolini avrebbe costituito il modello proprio per il personaggio di un maestro di musica, Rodolfo Maria Costanzi, che svela il senso profondo dell’arte: “Lascia libere le orecchie di memorizzare ogni vibrazione che c’è nell’aria e ogni tanto, quando stai sul tuo trenino che passa accanto all’acquedotto romano e alle baracche degli zingari, prova a far suonare dentro di te una possibile colonna sonora di quel paesaggio” (echeggiano i versi del poemetto Poeta delle ceneri). 

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Il rapporto di Cerami con la musica, che dal magistero pasoliniano desume soprattutto l’eclettismo e l’attenzione verso quei sovrumani silenzi che lasciano afferrare la musicalità incantatrice della realtà circostante, segue tuttavia un corso personale fatto almeno di tre “scatole” l’una dentro l’altra. Da qui l’omaggio racchiuso nel titolo a Savinio e all’incipit del suo manifesto sull’argomento, Scatola sonora, rispetto al valore uno e in qualche modo trino della musica: “Non può esservi civiltà senza musica. La musica insegna a stare: a stare in compagnia e a stare soli”.

La prima dimensione, civile e pubblica, divenuta patrimonio dell’immaginario collettivo, è quella legata al sodalizio tra Cerami e Nicola Piovani, che sotto il marchio della Compagnia della Luna ha prodotto una messe di frutti tra cui spiccano La cantata del fiore, Il signor Novecento, Borderò, La pietà e soprattutto la svolta dei Canti di scena (1993), con l’autore direttamente sul palco, replicato per sette anni. Cerami stesso ha definito l’opera una “drammaturgia orizzontale […] per provare ad andare ‘più lontano’ insieme con il pubblico”, un esperimento in cui “le sonorità, il lessico, le fughe nella memoria, il senso del tempo, i ritmi, interagiscono per proporsi come sentimento della nostra epoca, dove l’alto e il basso convivono”. 

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È questo il lato maggiormente conosciuto del Cerami musico e l’unico a oggi studiato, grazie a due articoli di Giordano Montecchi e Felice Liperi nel volume collettaneo Cerami. Le récit et la scène; a tal proposito Liperi ha osservato che “il presente, il rapporto tra storia e memoria, il passaggio tra la civiltà rurale e la società di massa” sono i punti essenziali dell’incontro tra i due”.

Nel 2002 debutta invece al Festivaletteratura di Mantova Lettere al metronomo, impreziosito dalle elettroniche di Aidan Zammit e dal canto di Aisha Cerami. L’autore affida all’interazione tra azione scenica, versi e musica una serie di missive composte mentre, racconta il figlio Matteo, “passavamo serate intere ad ascoltare massivamente Radiohead, Rem, Lou Reed, Tom Waits e Peter Gabriel”. Si tratta di una delle sue opere più autobiografiche, descritta come un epistolario in versi che restituisce l’acustica della metropoli dove “le parole hanno un suono, che ha significati reconditi e imprevisti, e che dilata in canto. La musica riempie i vuoti creati dall’emozione di chi sta parlando del proprio vivere”.

A concludere questa prima rassegna la collaborazione col seminale compositore statunitense Philip Glass, caposcuola del minimalismo americano, per Le streghe di Venezia che debutta nel 2011 con un allestimento in chroma key realizzato da Giorgio Barberio Corsetti. Cerami rielabora il libretto di Beni Montresor e regala una riflessione sull’infanzia e sui suoi canti d’innocenza come essenza della libertà del mondo, perché nonostante le difficoltà “vale sempre la pena di cercare la bellezza in ogni cosa”.     

La seconda scatola, quella che – sempre seguendo il precetto di Savinio – contiene lo stare in compagnia, l’istanza di condivisione della pura e gratuita passione al fine di dialogare con le kindred souls che “ascoltano” allo stesso modo, parrebbe nell’opera di Cerami corrispondere all’intensa attività giornalistica in cui ha trovato spazio anche la critica musicale, con numerosi articoli apparsi su quotidiani e riviste di settore (soprattutto su Musica! di «Repubblica»), in parte raccolti nello zibaldone di Pensieri così (2002).

Con un’attenzione alla fenomenologia della relazione tra canzone, questioni pubbliche e questioni private l’autore esplora il medium sonoro per ricostruire lo zeitgeist, mai mera astrazione e sempre orchestrato dalle microstorie di ciascuno. Per comprendere meglio questa declinazione, un paio di esempi su tutti potrebbero essere Tom Waits. Ascoltatelo, è lui la voce degli esclusi, che grazie all’accento sulle funzioni conative ed emotive instaura fin dal titolo una fratellanza col lettore, e Musica a letto, in cui si inoltra nei significati profondi celati dietro a una semplice e automatica azione – “automatic for the people”, recita un grande gruppo a lui caro – che ogni ascoltatore compie:

 

Quante volte ci buttiamo sul letto ad ascoltare musica, le mani dietro la nuca, lo sguardo al soffitto. In genere è musica che ci ricorda qualcosa, che richiama alla mente istanti che sembrano lontani ma magari sono di qualche giorno prima. Un velo di malinconia è fatale, e anche il petto che si stringe è fatale. E mentre siamo lì che pensiamo alle ombre, puntualmente confrontiamo il presente con i vecchi momenti, per accorgerci subito che la loro bellezza stava proprio in quel senso di vuoto che oggi ci rattrista. Ci era piaciuto semplicemente illuderci, credere di bere fino in fondo l’intensità di un sentimento pieno.

 

Ecco anche qui manifestarsi, mutatis mutandis, quel neocrepuscolarismo “bellissimo e atroce” di cui aveva anzitempo parlato Pasolini a proposito dell’esordio letterario ceramiano. Esso ritorna prepotente anche in scritti come San Valentino, E dalla guerra nacque la musica sui “primi neri che raccolsero gli strumenti militari e improvvisando dettero avvio alla nuova epoca”, Sapore di mare e Soltanto tu mi davi un brivido blu a proposito dei giovani degli anni Sessanta.

Si presenta a un tratto l’occasione ufficiale per ampliare il raggio d’azione del dibattito e una serie di conversazioni con Francesco Guccini dà vita a un libriccino gustoso, Storia di altre storie. Il gioco della memoria (2001), che ripercorrendo le avventure dei due interlocutori ripercorre in breve la storia del Novecento. Un archivio parallelo e convergente dell’identità paradigmatica di un immaginario culturale collettivo al di sopra dell’avvenuta mutazione antropologica, “cioè un’omologazione in cui sono state cancellate le differenze; le uniche rimaste sono infatti di carattere economico, non quelle culturali”.

I colloqui, davvero gozzaniani fuor di metafora, evocano oggetti, odori, luoghi, fumetti, rispettabili avvocati posseduti dal demone del jazz, montanari analfabeti che sanno Dante a memoria. Il rapporto tra passato e presente non si configura soltanto come amarcord ma diviene spazio sincronico per interrogare e comprendere l’oggi, mettendo in guardia rispetto al futuro con parole che a distanza di vent’anni paiono lungimiranti:

 

G. Adesso uno ha la fortuna di vincere un festival, fa immediatamente un disco, se vende va subito avanti. Molti della mia generazione invece venivano da un apprendistato, una gavetta, come si chiamava, utilissima.

 

C. L’apprendistato fa parte di quel sistema di valori cui accennavo prima, di quella pedagogia che faceva che le conoscenze si trasferissero da una persona all’altra. Ma succede sempre meno, in quest’epoca così veloce, così di corsa… Ci sono tanti libri, tanti giornali, c’è la televisione, ma la sensazione è che tutto passi e vada via.

 

Lo scrittore romano, a dimostrazione di quanto evidentemente gli stesse a cuore, sarebbe tornato sul tema con un articolo di impatto, Se la canzone cancella la memoria, cui consegna una desolata morale che oggi rappresenta lo statuto dell’opera musicale nell'epoca della sua riproducibilità digitalizzata: “Il mercato crea sempre più oggetti di durata breve, la merce che dura è improduttiva. La quantità di musica prodotta e diffusa, paradossalmente, non lascerà memorie durature”. La storia, purtroppo, è andata esattamente così.

Aprendo la terza e conclusiva scatola allora, dove la musica ci insegna a stare soli, si accede a un campo intimo, privato, idiosincratico, in grado di fondare tuttavia uno spazio di resistenza anche contro l’assoluto asservimento della musica alle leggi del mercato globalizzato: è lo spazio poetico. Lo è certo lato sensu, nell’accezione olistica pasoliniana del termine, ma si ricollega altresì strutturalmente a quell’assunto di Beverley secondo cui “il capitale può sfruttare e controllare la musica […] ma non può mai impadronirsi e monopolizzare i suoi mezzi di produzione e la sua ispirazione originaria” (Against Literature, trad. mia).

   A questo livello le parole e le note possono circolare in piena libertà influenzandosi reciprocamente, al punto da mettere in moto il meccanismo narrativo o lirico. Si è già fatto cenno a Fantasmi, strutturato addirittura in movimenti; non si è detto invece di Colonna sonora, uno dei più bei racconti “musicali” del Novecento italiano, in cui una segreta melodia respira fra le righe e fra le due vite che si intrecciano. La scelta del nome del protagonista crea inoltre un effetto doppelgänger in omaggio all’amico compositore che potenzia fin dall’incipit i significati della novella:   

 

Nicola suonava il flauto davanti alla finestra. Si metteva dritto in piedi e lasciava che il fiato, ora fievolissimo, ora vigoroso, dopo aver corso lungo le corde del cuore, entrasse nello strumento e ne uscisse in forma di suoni delicati e dolorosi. […] Nicola era incantato da quanto di immobile e di eterno rimane nella vita confusa e concitata di oggi. Solo in questo modo egli riusciva a creare una musica dai caratteri surreali. Aveva spogliato la sua casa di ogni mobile, voleva sentirsi circondato dal nulla, tra pareti senza segni, senza forme e senza immagini. Nicola suonava davanti alla finestra e non trascriveva o registrava una sola nota. 

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Tracce della sua musica del cuore sono individuabili anche nelle raccolte poetiche. Addio Lenin (1981) vede comparire l’amato menestrello di Duluth, futuro Premio Nobel: “Dorme tra i dischi di Bob Dylan / sotto manifesti e posters…”; in un componimento di Alla luce del sole (2013), il nome dei Radiohead viene invece metonimicamente traslato in un aggettivo che conferisce un suono preciso alla pioggia che cade, congiungendo Catullo, d’Annunzio, Pascoli, Montale e la band oxoniense nel giro di pochi versi: “piove sulla visiera del portiere d’albergo / mentre ti bacio / guardando con un occhio il cielo, / e i lampi e i tuoni / e ascoltando indistinti suoni Radiohead / che hanno accompagnato / altri baci, altri amori, / di etilismo arcano…” (Città bagnata). 

Poco avanti nella stessa opera c’è uno stravagante plazer dal sapore alcolico intitolato Lagavulin. È un tributo a Paolo Conte, già celebrato a più riprese e qui citato letteralmente mediante i versi di una sua canzone, Fuga all’inglese, per approntare un gioco di parole beckettiano tra Godot e Gondrand – marchio di una nota ditta di trasporti – entro un quadro dai contorni allucinati che richiama la conclusione della Coscienza di Zeno:

 

Mi piace! Oh, il mio Paolo Conte,
un gigante nella tundra.
«È tutto un grande addio.
Un giorno Gondrand passerà,
te lo dico io,
col camion giallo porterà
via tutto quanto 
e poi più niente resterà del nostro mondo.»

 

A proposito di fughe e finali, quest’ultimo spazio poetico è anche deputato a contenere i versi scritti appositamente nel 2007 come paroles e musicati da Carmen Consoli per uno dei suoi beniamini, Adriano Celentano, sul quale aveva già avuto modo di soffermarsi in un omonimo scritto qualche anno prima: “Le sue canzoni divertite riescono a commuovere più di altre perché sembrano bugie recitate apposta per dissimulare la verità che è nel fondo di un’anima timida e pudica […]. Il referente delle canzoni del molleggiato resta il popolo dei giovani senza storia”. A impiegare questa formula, “senza storia”, nel contesto della civiltà dei consumi era stato proprio il Pasolini corsaro nel 1975. 

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Nelle vesti di paroliere compone, oltre alla celeberrima Quanto t’ho amato con Benigni e sotto il nume tutelare del suo maestro, un brano certamente neo-crepuscolare dal titolo Anna Magnani. L’intelaiatura testuale, cesellata e preziosa, in realtà è tanto pasoliniana – le Ceneri e La religione del mio tempo in testa – quanto pascoliana, con rimandi sia alla Canzone dell’ulivo sia a X agosto, oltre a qualche eco che sembra richiamare Caproni e il Sinisgalli di Pasqua lontana

L’attrice simbolo del neorealismo assurge a baluardo contro lo sfacelo di un’Italia che all’alba del nuovo millennio sta irreparabilmente perdendo la memoria. Un’epoca era definitivamente al tramonto, insomma, e il primo a cantarlo in Italia, quarant’anni prima, era stato proprio Celentano in uno dei brani che avevano fatto la storia culturale del paese, Il ragazzo della via Gluck. Laddove il Molleggiato gridava “Là dove c'era l'erba ora c'è una città”, Cerami grida: “Là dove prima vibrava un pianoforte / soltanto polvere e terra / E mi sembra di udire / la voce arsa di Anna Magnani / che infonde speranza”.

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