Storia performativa della Resistenza

22 Aprile 2023

Perché, questo ponte del 25 Aprile più che mai, è necessario riportare la Resistenza nei teatri, nelle fabbriche, nelle strade? 

Il 10 ottobre 1951 Franco Fortini pubblica sulle colonne dell’«Avanti!» la traduzione dei versi di un poeta francese piuttosto atipico, si chiama Jacques Prévert e il componimento si intitola Marcia o crepa, accompagnato dal sottotitolo «Parole della Canzone del gruppo “Octobre” (1932-1936)». È ancora poco noto al grande pubblico italiano – la piena consacrazione arriverà all’alba degli anni Sessanta con la raccolta Guanda, nella Fenice diretta da Attilio Bertolucci – ma rientra senza dubbio tra i casi letterari più discussi dall’intellighenzia nostrana in quell’autunno. 

Il mese prima infatti Eugenio Montale dà alle stampe sul «Corriere» un elzeviro che fa discutere, Poesia parlata di Prévert, affermando con la consueta caustica e fiera vis che ormai “i poeti di alta formazione intellettuale (da Valéry a St.-John Perse, da Jouve a Char) sono cacciati di nido” e che “il poeta francese oggi più popolare è il chansonnier Jacques Prévert, autore di brevi poesie che, musicate, hanno fatto il giro del mondo”. Nonostante questo, comunque, conclude che «Prévert resterà per molti anni un maître, un uomo indispensabile». L’appellativo di poeta chansonnier, forse qui nella sua prima apparizione d’alta cultura in Italia, e l’inciso «musicate», che spezza significativamente il flusso della sintassi prima della clausola, risuonano con fragore a evidenziare in controluce, quasi fosse un sottile implicito, che quei componimenti hanno fatto il giro del mondo non nella forma della nuda parola ma nella loro complessione musicata (o quantomeno recitata, “parlata” appunto). 

La questione era in realtà ben più ampia del singolo caso dell’autore transalpino e tangeva tanto l’aspetto della “poesia popolare”, entro il perimetro della discussa accezione gramsciana del termine, quanto quello della dimensione performativa della poesia all’interno del nuovo sistema mediatizzato delle arti e della nascente industria culturale. Fortini sceglie allora di entrare nel dibattito con un testo che, in punta di fioretto, sembra voler ricordare l’ineliminabile componente militante dalla quale la poesia dello scrittore transalpino aveva preso le mosse e rivendicare che sotto al lirismo quotidiano, conciso e spontaneo delle Paroles – titolo della sua acclamata raccolta del ‘46, che vale propriamente “testi per canzone” – esisteva una matrice engagé essenziale per comprenderne la cifra. 

Il gruppo Octobre in particolare, di cui Prévert era stato il vero animatore letterario, aveva costituito negli anni Trenta uno dei primi grandi esperimenti di teatro proletario, socialista, interpretato sovente nelle strade e nelle fabbriche in sciopero sulle orme di Piscator, dei precetti del movimento surrealista e soprattutto del nascente mito legato al letterato che più avrebbe rivoluzionato nelle decadi a venire il legame tra scrittura, azione scenica e prassi politica: Bertolt Brecht.  

La poesia, in un rinnovato rapporto con la musica e col teatro, poteva insomma divenire un potente strumento di lotta politica; la resistenza europea al nazifascismo, peraltro, era di fatto passata anche da qui e se ne sarebbero ancora ricordati qualche anno dopo Louis Aragon e Léo Ferré, mettendo in musica col titolo di L’Affiche Rouge i versi di Strophes pour se souvenir scritti da Aragon per l’inaugurazione della “rue du Groupe-Manouchian” in memoria dei ventitré FTP-MOI (Francs-tireurs et partisans de la main d’œuvre étrangère) assassinati dalle squadriglie naziste a Parigi nel ‘44. L’alleanza tra la poesia e la musica, per citare una splendida formula di Yves Bonnefoy, era ristorata e guardava già agli chansonniers e al futuro.

Il fenomeno del “poeta popolare” – e Fortini lo comprendeva a fondo grazie alla crescente consuetudine col modello brechtiano – non era un mero fatto estetico ma rientrava in un quadro storico-politico, dialettico, maggiormente ampio. Su questo terreno bisognava inserire il caso di Prévert. Ecco il perché di una poesia, che era anche una canzone e che a sua volta era anzitutto un’affermazione politica. Questa la strofa incipitaria e l’inizio della seconda, con valore di ritornello:       

Pancia vuota piaghe ai piedi
allegri ragazzi, ci tocca marciare.
Ci han dato solo un quarto di razione
e la borraccia è piena d’aria pura
ma per consolazione 
c’è la sacca per la biada.
L’ombra delle bandiere 
farà fresco, quest’estate, sulla strada!
E a chi non va all’inferno 
con un colpo di sole
congestione polmonare garantita brevettata
quest’inverno.

Marcia o crepa
Marcia o crepa…. Dove andiamo? Verso il Nord,
lassù c’è bisogno di noi.

In Italia a quell’altezza cronologica versi come questi venivano ad assumere un valore distintivo, denso di un significato vivo e partecipato. Il riferimento storico immediato cui un lettore italiano del tempo aveva accesso di prima mano era, naturalmente, la Resistenza; con essa, la sua straordinaria tradizione di canti, una tradizione che di quell’esperienza restituiva non solo i suoni ma in qualche modo anche i colori profondi. A tal proposito, tra i molti lavori d’ambito storico e antropologico che hanno approfondito la materia è necessario subito ricordare la collana dell’Istituto Ernesto De Martino guidato da Cesare Bermani, Alberto Lovatto, Chiara Ferrari e Stefano Pivato, che ha spesso evidenziato come la parola cantata debba essere considerata “un segmento niente affatto secondario per capire sentimenti, emozioni e orientamenti ideali di ciò che succede in Italia dopo l’8 settembre 1943” (Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza 2007).

Il primo a dirlo era però stato Italo Calvino, che senza dubbio aveva ancora queste melodie impresse nelle proprie orecchie mentre scriveva il suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, pieno di riferimenti alla “colonna sonora” della vita partigiana, forma di slancio individuale e collettivo verso il sogno di una società diversa. Il teatro a cielo aperto sono i boschi, i monti, le rive e i granai; le armoniche risuonano come un simbolo di speranza e inattesa gioia ritrovata:  

– Cantano! – esclama Pin. Difatti dal fondovalle arriva l’eco di un canto indistinto.

– Cantano in tedesco…– mormora il cuoco.

– Scemo! – grida la donna. Non senti che è Bandiera rossa? […]

Prende la corsa, giù per i dirupi, cantando «Bandiera rossa la trionferà…» fino a un ciglione

da cui porge l’orecchio.

– Sì. È Bandiera rossa!

Torna di corsa con grida di gioia, col falchetto che plana legato alla catenella come un aquilone. Bacia la moglie, dà uno scappellotto a Pin e tutti e tre si tengono per mano cantando.

Cosa fare, però, anche di tutta quella tradizione dopo la guerra? Il nodo era decisivo e preoccupava non poco gli artisti e gli intellettuali che di quell’esperienza erano testimoni viventi, poiché riguardava la più ampia faccenda del come costruire nell’opinione pubblica del paese e, soprattutto, del come tramandare alle generazioni successive l’eredità della Resistenza. Se Pavese fra le ultime pagine della Casa in collina aveva inciso tutto il proprio travaglio interiore al riguardo in una frase che non lasciava scampo, “ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”, chi era restato doveva trovare ragione nello spiegare perché la Resistenza fosse il fondamento del vivere democratico, della Costituzione e della neonata Repubblica Italiana.

E che il canto si configurasse come strumento di affermazione politica nell’immediato dopoguerra lo testimonia anche un icastico passaggio di Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini (pubblicato nel ’62 ma scritto e ambientato tra il ’48 e il ’50), nel quale l’urlo di un manipolo di giovani rompe il lugubre silenzio serale del paese caratterizzato soltanto dai cori di chiesa delle fedeli: «Allora i ragazzi, […] per non voler darsi vinti, cominciarono a cantare anche loro, a tutta forza, con le voci che si perdevano nel silenzio dei campi freddi e verdini: “Avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossa… bandiera rossa…”».       

b

Calvino stesso a un tratto, in uno dei suoi sparuti ma significativi episodi in versi, mette “in musica” la dirimente questione del passaggio di testimone alle nuove generazioni. Ne esce fuori un piccolo grande capolavoro intitolato Oltre il ponte, la cui fama sul campo, tra le generazioni d’artisti, è stata ben più vasta di quanto la storia della critica abbia forse evidenziato influenzando da Francesco De Gregori ai Modena City Ramblers (presenza fissa nelle scalette dei loro concerti), da Moni Ovadia a Elisabetta Sgarbi/Betty Wrong, che la inserisce nel suo bel docufilm Quando i tedeschi non sapevano nuotare. Pubblicato per la prima volta all’interno del Nuovo canzoniere partigiano nel Luglio 1958, il testo, narrato in prima persona, racconta la vita dei vent’anni dell’autore a una giovane fanciulla, affinché possa comprendere quali scelte lo abbiano portato a combattere sui monti per donarle il futuro di libertà in cui lei sta crescendo:

O ragazza dalle guance di pesca
o ragazza dalle guance d'aurora
io spero che a narrarti riesca
la mia vita all’età che tu hai ora.
Coprifuoco, la truppa tedesca
la città dominava, siam pronti:
chi non vuole chinare la testa
con noi prenda la strada dei monti.
(Rit.)
Avevamo vent'anni e oltre il ponte
oltre il ponte che è in mano nemica
vedevam l'altra riva, la vita,
tutto il bene del mondo, oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte,
tutto il bene avevamo nel cuore,
a vent'anni la vita è oltre il ponte,
oltre il fuoco comincia l'amore.

L’ispirata parte musicale – che rimanda elegantemente al lied brechtiano – appartiene a Sergio Liberovici, col quale il nostro assieme a Michele L. Straniero, Emilio Jona, Margot Galante Garrone e Fausto Amodei (supportati tra gli altri da sodali illustri quali Fortini, Antonicelli, Einaudi, Pestalozza, Mila, Manzoni e Santi) fonda proprio in quell’anno il collettivo Cantacronache, la prima coerente pagina di musica d’autore e impegno politico nel dopoguerra nostrano. Oltre a cantare finalmente del paese reale e dei fatti di cronaca, da cui la felice intuizione di Straniero per il nome dell’ensemble, il gruppo aveva l’obiettivo di erigere quel ponte tra la legacy resistenziale e le battaglie del presente, con la volontà di mettere “in scena” nelle strade, nei cortei e nei teatri – proprio sulla falsariga di Brecht e di esperimenti come il Gruppo Octobre di Prévert – le lotte di ieri e di oggi.    

 

A confermarlo, in particolare, alcuni brani di Fausto Amodei espliciti fin dai titoli, Partigiani fratelli maggiori (memorabile la strofa: « Se cerchiamo sui libri di storia, / se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d'aria / non troviamo la vostra memoria, / ma se invece spiamo […] sui tratti sconvolti dell'Italia / riviviamo quegli anni trascorsi») e soprattutto la celebre quanto dolente ballata Per i morti di Reggio Emilia, scritta nel luglio 1960 all’indomani della spregevole strage ad opera delle forze dell’ordine inviate dal governo Tambroni, con l’appoggio dell’MSI, per reprimere nel sangue una pacifica manifestazione sindacale. Questa la dedica di Amodei ai cinque ragazzi che persero la vita quel giorno, il cui incipit sarebbe in seguito stato ripreso nel 1985 dai CCCP – Fedeli alla linea per dare il titolo a uno dei dischi di culto del rock e del post-punk italiano:  

Compagno cittadino, Fratello partigiano
Teniamoci per mano in questi giorni tristi
Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia
Sono morti dei compagni per mano dei fascisti
Di nuovo come un tempo, sopra l'Italia intera
Fischia il vento e infuria la bufera […]
Nervi dei nostri nervi
Come fu quello dei fratelli Cervi
Il solo vero amico che abbiamo al fianco adesso
È sempre quello stesso che fu con noi in montagna
Ed il nemico attuale
È sempre ancora eguale a quel che combattemmo sui nostri monti in Spagna     

Nel 1962 Amodei e Straniero raccolgono l’invito di due grandi professori, Gianni Bosio e Roberto Leydi, a entrare nel Nuovo Canzoniere Italiano, che ben presto sarebbe divenuto il principale polo dell’etnomusicologia italiana e della ricerca, diffusa tramite un’omonima rivista e un’alacre attività concertistica, sul canto popolare e di protesta. Il titolo dell’esordio sui palchi è già una dichiarazione programmatica nel solco di quanto detto finora, L'altra Italia. Prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova, e mette straordinariamente in dialogo maestri affermati come Luciano Berio con giovani talenti che si chiamano Enzo Jannacci, Nanni Svampa e Dario Fo. Il pubblico, intellettuale o popolare, giovane o maturo, si mostra atto a recepire l’esperimento e il gruppo inizia tournée in tutta Italia, esibendosi ovunque gli si fornisse l’occasione: il Piccolo Teatro di Milano, l’Università di Padova, le manifestazioni del 25 Aprile e del 1° Maggio, le storiche Feste dell’Unità.    

n

Il NCI è all’origine dei Dischi del Sole, dell’Istituto Ernesto De Martino, ma è soprattutto il successo dello spettacolo Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari, cui tra le altre cose dobbiamo la designazione dell’omonimo canto oggi celebrato in tutto il mondo a inno ufficiale della Resistenza italiana, a segnare una piccola grande rivoluzione nel teatro del paese, influenzando avvenimenti futuri che vanno dal Teatro Canzone di Gaber e Luporini fino al Teatro civile di Marco Paolini e Ascanio Celestini. A chiudere il cerchio aperto all’inizio, i quattro testi che fungono da introduzione alla pièce-concerto sono scritti proprio da Franco Fortini e vengono ricordati da Bermani come «determinanti per la provocatorietà dello spettacolo» e latori per la prima volta in un evento pubblico del «termine “contestazione” in un significato vicino a quello dal ’68 in poi».

L’artista simbolo della rappresentazione e del NCI diviene senza dubbio Giovanna Marini, la folk-singer che diverrà la madre del cantautorato italiano, “scoperta” e messa sulla strada dell’etnomusicologia da Pier Paolo Pasolini in persona, che ha racchiuso in una recente riflessione inedita tutto il senso di questa epopea d’arti nella quale letteratura, teatro, musica, cinema, pittura, fotografia si sono fuse in un processo di osmosi: 

La principale preoccupazione che avevamo noi e tutti questi giovani intellettuali, non solo loro ma moltissimi da Pavese a Calvino a Pasolini, qualcosa che a mio avviso non è ancora stato messo in risalto come meriterebbe del nostro percorso, era riuscire a ripescare la realtà e la verità prima del fascismo perché tutto questo – e dico TUTTO! – era stato cancellato dal regime. La gente non sapeva più che cosa fosse il canto di lotta o il canto popolare, pensava fosse “il mazzolin di fiori” e “orticello di guerra”. C’era da lavorare molto, insomma… E tutta questa generazione lo fece, lavorò senza sosta allargandosi anche poi sul piano politico e andando a recuperare i canti della Resistenza, non solo nostrana ma anche fuori, come ad esempio nel caso dei Canti della Resistenza Spagnola, che fu un’esperienza unica e causò una bagarre al tempo incredibile con prime pagine dei giornali e con denuncia annessa a Einaudi e ai curatori (Sergio Liberovici e Michele L. Straniero, nda), un capitolo quasi “eroico” sicuramente non celebrato abbastanza.      

Ora, comprendere come le generazioni a venire abbiano raccolto l’onda lunga di questo substratum culturale e politico sembra un’operazione decisiva in un momento storico in cui la minaccia di una rivisitazione banalizzata e (spesso a bella posta) alterata del recente passato è tristemente divenuta realtà quotidiana. La risposta alla domanda posta in apertura viene così spontanea: perché questa storia non solo è alla base della nascita del cantautorato italiano, come negli anni confermato da tutte le principali voci del fenomeno – De André, Guccini, De Gregori, Vecchioni, Battiato –, ma costituisce, anche se spesso lo dimentichiamo, uno dei pilastri su cui si fondano il costume, l’immaginario collettivo e la storia culturale del nostro paese. Il nostro ἦθος, la nostra etica, l’etica della nostra Costituzione.

Per la prima volta quest’anno, nell’arco di tre giorni a ingresso gratuito, (oltre) il ponte del 25 Aprile, un grande festival a Roma con epicentro nella suggestiva cornice del Teatro Palladium presso il quartiere della Garbatella, promosso dall’Assessorato alla cultura e ideato da Gabriele Pedullà con la cura della casa editrice Electa, celebrerà finalmente anche questa storia performativa della Resistenza, riportandola in scena con molti degli interpreti principali comparsi lungo questo racconto. In testa Giovanna Marini, Paolo ed Ermanno Taviani, Giorgio Canali storico chitarrista dei CCCP, e Ascanio Celestini che leggerà le favole di Gramsci; ma non mancheranno le voci di chi, anche in tempi più recenti, ha deciso di far entrare questa memoria nel proprio repertorio come Pierpaolo Capovilla in un reading musicato sulla poesia partigiana di Caproni e Fortini, Benedetta Tobagi con lo spettacolo La Resistenza delle donne, i laboratori per ragazzi e ragazze di Fanny & Alexander (plurivincitori del Premio Ubu) e di Daniele Aristarco con Giufà Galati. 

Era ora che si facesse qualcosa di simile ed è decisamente il momento di non restare indifferenti, di sentirsi vivi, di prendere parte.  

festa resistenza

Qui il programma delle manifestazioni.

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