Scrittori in mostra

5 Novembre 2023

Esiste un fascinoso e oscuro oggetto del desiderio piuttosto in voga nel dibattito europeo legato all’arte degli ultimi vent’anni, proteiforme ed eccitante da un punto di vista concettuale almeno tanto quanto i domini sotto cui possibilmente inscriverlo, vale a dire quelli, latu sensu, della comparatistica, della multidisciplinarietà e dell’intermedialità. Potremmo dargli il titolo di “mostre letterarie”, “mostre sugli scrittori” o “esposizioni d’arte e letteratura”, e già l’ambiguità nella nomenclatura racchiude il primo fondamentale quesito riguardo al tema in esame: di cosa parliamo quando parliamo di una mostra che ha come oggetto autori o opere del canone letterario?

Reperire in un’ottica diacronica un preciso termine post quem per risalire ai tentativi di approccio in epoca contemporanea alla mostra letteraria è operazione non semplicissima e un poco fine a se stessa; tentare però di ripercorrere tappe intermedie e iniziative di spicco potrebbe risultare avvincente. Di querelles, soprattutto in ambito anglosassone, se ne sono udite tante nell’ultimo decennio a proposito di questa atipica tipologia espositiva che si è tentato in certi casi di far rientrare anche in una diramazione della “Reading Art”, come osservato da David Trigg, ripensando alla parola scritta nel suo “pivotal role in the visual world”. Riflessioni che ricordano da vicino anche il Calvino della lezione sulla Visibilità quando parla del “potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca”.

Si tratta allora dell’ambizione di centri studi accademici o para-accademici ad affermarsi presso il grande pubblico mediante operazioni più “pop”, obiezioni mosse ad esempio all’American Writers Museum di Chicago? Oppure di un’esotica variazione sul tema della grande macchina dell’industria d’arte per sondare nuovi segmenti di pubblico quando si trova a corto di produzioni sul noto pittore “in 3D” o nella “Immersive Experience” con effetti speciali, fumi e raggi laser (questi gli appunti rivolti a Wonderland, basata sul capolavoro di Lewis Carroll, presso l’ACMI di Melbourne)? E come spiegare invece il significativo plauso di pubblico e critica a un progetto come il The Beat Museum di San Francisco o a una mostra come Edgar Allan Poe: Terror of the Soul alla Morgan Library & Museum, definita dal New York Times nel 2013 una delle più “raffinate e sensate mostre dell’anno”?   

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Nell’“impero irresistibile”, prendendo in prestito la formula di Victoria De Grazia, si tende (quasi) sempre a strafare, con risultati a volte felici e altri meno, ma forse è possibile individuare una via europea al connubio che, oltre ad essere più antica e radicata, sembrerebbe muovere da diversi presupposti culturali ed espressivi; una via, per metterla nei termini posti dal London Magazine, che «racchiuda innanzitutto nel cuore della mostra gli effetti che la letteratura riesce ad avere sulle arti visive, e viceversa». Non tanto dunque, o almeno non solo, l’apoteosi del feticcio bibliografico per addetti ai lavori, né al polo opposto la spettacolarizzazione for the masses della dimensione fantasy ispirata da un libro o da un autore in chiave postmoderna (la già citata Wonderland o la bestseller Harry Potter: The Exhibition tuttora in giro per il mondo).

Che esista un efficace modus in rebus di stampo continentale lo testimoniano peraltro anche gli entusiasmi dell’ultimo decennio per tante mostre fondate su un core squisitamente letterario. Vale la pena ricordarne alcune. In Germania, Goethe. Verwandlung der Welt (2019) alla Bundeskunsthalle di Bonn. Nel Regno Unito, Shakespeare in Ten Acts (2016) alla British Library, Virginia Woolf: Art, Life and Vision (2014) alla National Portrait Gallery di Londra, la staffetta tra quest’ultima sede espositiva, Sheffield Museum e York Art Gallery per Bloomsbury: Life, Love and Legacy (2021/22) e Virginia Woolf. An exhibition inspired by her writings (2018) dislocata tra Tate UK St Ives, Fitzwilliam Museum di Cambridge e Pallant House di Chichester. Una fascinazione peraltro, quella per Woolf e l’irripetibile cenacolo di artisti e intellettuali a essa legato, per fortuna approdata di recente con successo anche in Italia grazie a Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing Life (2022/23) al Palazzo Altemps di Roma, dove i testi sono riusciti ad assumere nuova luce attraverso prime edizioni, dipinti, sculture, fotografie, manufatti degli Omega Workshops.

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In Francia, RIMBAUDMANIA. L’éternité d’une icône (2010) alla Galerie
des Bibilothèques di Parigi, guidata dalle parole di Edgar Morin ad accompagnare il percorso, e soprattutto Oscar Wilde. L'impertinent absolu al Petit Palais di Parigi (2016/17), dove tra gli altri capolavori troneggiavano tele imponenti come la Lady Macbeth di Sargent e il San Sebastiano di Guido Reni cantati in numerosi scritti dell’autore dublinese, accanto alle tanto esili quanto raffinate illustrazioni originali della sua Salomé realizzate da Aubrey Beardsley. Ci rende poi particolarmente orgogliosi, presso la Galerie Gallimard, Samuel Beckett / Tullio Pericoli. Le plus beau visage du XX siècle (2019), nella quale i ritratti del grande artista marchigiano diventavano vere e proprie lenti caleidoscopiche in grado di far inoltrare l’osservatore nelle pieghe visionarie e assurde dell’immaginario beckettiano.

Come da tradizione, i francesi hanno inoltre provato ad alzare ulteriormente l’asticella della sperimentazione con il fresco exploit targato 2020 di Matisse. Comme un roman al Centre Pompidou, che non solo trae il titolo dall’opera in due volumi Henri Matisse, roman (Gallimard 1971) del poeta surrealista e militante Louis Aragon, ma dove l’intero percorso espositivo era immaginato secondo il principio del camminare all’interno della pittura con gli strumenti della letteratura, attraverso nove sezioni che ricalcavano lo sguardo di altrettanti autori sulla relazione dell’artista dei fauves con le forme della scrittura «du signe plastique au mot». 

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Infine, seppur con un’accezione molto ampia, come non includere nelle mostre letterarie anche Stranger Than Kindness: The Nick Cave Exhibition (2020/21) alla Royal Danish Library di Copenaghen, legata sì anzitutto alla grande fama dello scapigliato songwriter e scrittore australiano – erede indiscusso della migliore tradizione maudit d’Otto e Novecento – ma di fatto consapevolmente organizzata dallo stesso come un’esposizione letteraria, con lyrics e poesie manoscritte, diari autografi, dipinti e libri dei suoi autori di riferimento postillati, addirittura un allestimento a scaffali della biblioteca essenziale traslata dalla sua abitazione inglese a occupare un’intera stanza.  

Una mostra-evento con lunghe liste d’attesa (subito acquisita dalla Galerie de la Maison du Festival di Montreal), imparentata a tratti con l’acclamata David Bowie Is… del Victoria & Albert Museum a cura di Victoria Broackes e Geoffrey Marsh, itinerante dal 2013 al 2018 nei musei più prestigiosi del mondo, con una tappa al MAMbo di Bologna nel 2016. Laddove però quest’ultima, in linea con l’eclettica personalità del Duca Bianco, puntava sull’elemento spettacolare rappresentando il momento letterario come una delle tante facce dell’alieno “caduto sulla terra”, quella di Cave ha eletto la letteratura a parte costitutiva del percorso interiore e dunque espositivo dell’artista.

Quello delle mostre letterarie appare perciò un cantiere culturale aperto, in Europa e non solo, atto a inglobare influssi da tutti i media artistici per vagliare anche quel che resta del dialogo tra dimensione highbrow e lowbrow, tra élite e pop, tra reale spessore culturale ed entertainment. 

Perché, se è essenziale riflettere ancora sull’appello lanciato da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione qualche anno fa «contro le mostre blockbuster in cui gli ingredienti sono sempre gli stessi» (Contro le mostre, Einaudi 2017), stigma chiaro e distinto di tanta produzione museale odierna, è anche vero col semiologo Jurij Lotman che «a un nucleo passivo corrisponde sempre una periferia attiva». E rispetto alla grande macchina seriale, quella delle mostre letterarie sembra indubbiamente una periferia attiva e vivace, in cui l’Italia ha sempre più l’intenzione di dire la sua, basti menzionare i grandi progetti espositivi dedicati in questo biennio ai centenari prima di Pier Paolo Pasolini e ora di Italo Calvino, alla cui progettazione chi scrive ha avuto il piacere e il privilegio di poter lavorare assieme ad alcuni tra i massimi esperti del settore. 

In conclusione, entro il perimetro di una fantasticheria d’arte e letteratura che vengono a intersecarsi, il concetto di mostra letteraria porta alla mente uno dei più bei poemetti in prosa dello Spleen de Paris di Baudelaire intitolato Le Désir de peindre (XXXVI, trad. M. Colesanti):

 

Brucio dalla voglia di dipingere quella che così raramente mi è apparsa, fuggendo poi veloce, come una bella cosa degna di rimpianto dietro il viaggiatore rapito nella notte. Oh, da quanto tempo è scomparsa!     

In fondo, è l’azione impossibile del penetrare e tradurre il mistero della poesia che si fa pittura e del suo opposto. Una declinazione per la modernità del precetto di ut pictura poësis oraziano, che ai giorni nostri (anche grazie ad esperimenti come quelli delle mostre letterarie) potrebbe costituire un importante antidoto contro la crescente frammentazione a compartimenti stagni delle discipline negli ultimi decenni e contro il conseguente iperspecialismo che spesso fa solo il gioco del mito social del valore dell’ignoranza volto a legittimare interventi su qualsiasi questione. In tempi di assoluto dominio delle immagini accompagnate da didascalie – sintetizzate definitivamente nel linguaggio imperante dei “post” –, proviamo allora a inventare nuovi strumenti per leggere l’opera d’arte, per visualizzare creativamente e mai passivamente la lettura. 

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