Gli animali non esistono

1 Dicembre 2023

Lo sappiamo, anche se facciamo finta di non saperlo, gli animali non esistono. Non esistono perché, come ci ricorda Derrida, non esiste l’animale in generale. Esiste piuttosto un particolare vivente che si trova a vivere in un certo posto, un vivente con sue caratteristiche affatto peculiari e inconfondibili. Esiste solo questo vivente. Noi umani, che siamo così attaccati alla nostra unicità, non ci accorgiamo che vale lo stesso per ogni vivente. Per ogni vivente (virus compresi, ovviamente). Gli animali non esistono, appunto. L’animale in generale, così lo definisce in modo efficace Derrida, non è che un “animot”, un animale-parola, cioè un’invenzione del linguaggio, un’invenzione che azzera tutte le differenze e stabilisce l’esistenza della categoria astratta, e del tutto generica, dell’animale. O ancora dell’Animale con l’A maiuscola (a cui si contrappone, com’è noto, un’ulteriore astrazione, l’Uomo). 

Per accorgersi che gli animali non esistono, e che invece esiste questo animale, occorre non tanto amare gli animali (anche l’amore spesso è una forma di distrazione) quanto tantissima pazienza e attenzione. È la pazienza e l’attenzione per il dettaglio che troviamo del libro per tanti aspetti incredibile di Len Howard, Star. Una cinciallegra di genio (Adelphi 2023; l’edizione originale è del 1956), una donna che ha dedicato l’intera sua vita all’osservazione attenta, incredibilmente attenta, degli uccelli del suo giardino. Quando si osserva davvero qualcosa, ossia quando si cerca di vedere quel che c’è da vedere e non quello che crediamo, o ci aspettiamo di vedere, allora si scopre che “generalizzare è impossibile” perché in ogni caso, è questa la scoperta che questo libro ci costringe a fare, “è” sempre “la personalità del singolo a fare la differenza” (p. 552). Quando siamo in presenza di un fenomeno vivente quello che è più importante stabilire non è la sua eventuale somiglianza con noi (non smettiamo mai di essere antropocentrici, mai), al contrario, trovare le sue caratteristiche, le sue differenze singolari (la differenza in sé, direbbe Deleuze). Solo allora, scrive Len Howard, potremo cominciare a vedere realmente quel vivente:

“Quando si cerca di capire la mente degli uccelli bisogna tenere in considerazione tutte queste differenze. Più li si conosce singolarmente, più diventa evidente come abbiano la loro personalità in tutti i contesti. Le differenze possono essere molto grandi o apparirci trascurabili, ma il fatto che questa variabilità di intelligenza, memoria, emozioni, ecc. all’interno della specie ne determini il comportamento mostra che, al di là delle leggi fondamentali seguite per istinto, per la maggior parte le loro azioni non sono automatiche bensì controllate dalla mente del singolo conformemente alla personalità”  (p. 189).

Prestare estrema attenzione alle differenze significa che non esiste una regola generale per comportarsi con un animale non umano, ogni incontro fa storia a sé. Perché si tratta di un incontro fra due viventi, e ogni incontro è sempre unico. Per questo quando parla dei suoi incontri con gli uccelli Len Howard si attiene sempre a questo atteggiamento – pazienza e attenzione – al punto che non sembra quasi che si tratti di un incontro fra un essere umano e un uccello (in questo modo non usciamo dal campo delle astrazioni), bensì di un semplice – e proprio per questo meraviglioso – incontro fra due entità viventi, al di qua delle classificazioni: “il comportamento degli uccelli non è limitato da regole rigide, nemmeno nelle dispute territoriali e nell’accoppiamento. Sebbene nel corso dell’evoluzione si siano stabiliti codici di comportamento che regolano le azioni degli uccelli, generalizzare è impossibile, perché tali codici vengono applicati solo se sono adatti alle circostanze e secondo la volontà del singolo individuo” (p. 552).

Si tratta di un punto che sfugge non solo a chi non riesce a pensare che per schemi e generalizzazioni – come animale, uomo, istinto, ragione e via di seguito – ma spesso anche a chi ama sinceramente gli animali. Il mondo vivente, includendo ovviamente anche quello vegetale, non è fatto di repliche di tipi astratti, il mondo vivente è fatto di singolarità, ossia di casi unici. Un’etica per il mondo vivente non può che basarsi su questo assunto fondamentale, ogni vita è una forma-di-vita (ogni vita incarna la sua stessa forma, il suo modello unico), è quella peculiare e unica esistenza vitale: “qualunque generalizzazione sul comportamento degli uccelli, persino all’interno della stessa specie, è quindi impossibile: le loro azioni dipendono in larga parte dalle differenti qualità mentali e caratteriali che costituiscono la personalità di un individuo. Chi ignora l’esistenza di tali qualità negli uccelli e parla del loro comportamento solo in termini di azioni automatiche e reazioni a stimoli ignora la verità” (p. 560). Considerata da questo punto di vista ogni vita è esemplare di per sé, e non perché sia intelligente, una vera e propria ossessione umana, valutare gli altri viventi e collocarli su una scala arbitaria di intelligenza, come se essere stupido valesse meno di essere una mente brillante.

È il caso della cinciallegra che dà il titolo al libro, Star. Una cinciallegra di genio (oltre a questo il volume contiene anche il libro Gli uccelli come individui, del 1952). Star, ad esempio, impara da solo a giocare con i numeri, ripetendo con tocchi del becco il numero di ticchettii con le dita di Len Howard, che poi talvolta la premiava con una nocciolina. Ma non sempre, perché quello fra loro è soprattutto un gioco, un linguaggio comune, più che un modo per ricevere del cibo, che Howard distribuiva comunque a tutti gli uccelli che glielo chiedessero. Ogni incontro è unico, ancora una volta. Ecco, ad esempio, un incontro del 10 settembre 1952: “ero seduta di fronte alla portafinestra, quando Star si posò sul bracciolo della mia poltrona e si mise in posa davanti a me con la testa abbassata. Voleva dirmi che era pronta per una lezione. Andai nell’altra stanza e lei mi seguì. Posatasi sul séparé, mi guardò. Quando battei quattro colpi lei voltò le spalle e ripeté delicatamente lo stesso numero” (p. 316). Come ogni relazione effettiva non ci sono ruoli definiti, chi comanda e chi ubbidisce. Ci sono dei viventi che passano del tempo insieme, costruendo nel corso stesso della relazione le ‘regole’ di quella stessa relazione. È forse l’aspetto più interessante del libro di Len Howard, che non assume mai la tipica posizione umana antropocentrica dello scienziato che assegna un compito a un animale costretto ad accettare una situazione che altrimenti eviterebbe molto volentieri (ricordiamo che negli esperimenti di laboratorio l’animale è affamato, altrimenti non sarebbe interessato a ripetere la noiosa e per lui insensata routine sperimentale). È un’osservazione scontata, certo, ma Len Howard è una donna, e non ha alcun primato androcentrico da ribadire. 

E proprio perché è un incontro non predetereminato, allora è aperto alla possibilità che ci siano delle variazioni, delle sorprese, come quando Star introduce un ritmo diverso nelle sue risposte: “Il 23 settembre, quando le diedi il numero sette, marcai il primo e il quinto battito (il ritmo più naturale). Lei rispose correttamente, ma accentò il primo e il sesto battito, e invece di venire da me per ricevere la sua noce mi guardò con aria interrogativa. Chiaramente voleva sapere se approvavo la sua scelta. Non aveva mai fatto quella variazione e, dalla brevissima pausa tra i primi cinque battiti e gli ultimi due, era ovvio che si era trattato di una scelta intenzionale, come venne confermato dagli sviluppi successivi. Le diedi la sua ricompensa e la lodai” (p. 317). Ma che significa lodare una cinciallegra? Com’è possibile che un uccello possa comprendere delle parole di una lingua umana? Gli animali non parlano. È vero, non parlano (ma nemmeno tacciono, in effetti), ma questo non significa che non si possano stabilire delle relazioni significative anche fra viventi di specie molto diverse fra loro. In questi casi si viene spesso accusati di antropomorfismo, cioè di attribuire in modo arbitrario agli animali non umani atteggiamenti e pensieri umani. Secondo questa accusa non è affatto necessario, per spiegare il comportamento di un animale, attribuirgli capacità umane. È un’accusa potente, e spesso giustificata, soprattutto perché molto spesso chi attribuisce agli animali capacità umane (si pensi ai possessori di cani e gatti che sostengono che i ‘loro’ animali sanno quasi parlare) in realtà continua a pensare che un animale sia da amare perché è simile a noialtri umani, e non per la sua differenza da noi. Tuttavia l’antropomorfismo è anche inevitabile, perché ogni vivente assume come scontato il proprio punto di vista: “con tutta probabilità” scrive Len Howard, “sulla base delle biografie degli uccelli e di altri aneddoti che racconto in questo libro, verrò accusata di antropomorfismo. I miei resoconti dei comportamenti degli uccelli sono rigorosamente esatti, e tuttavia è difficile raccontarli in maniera dettagliata in un linguaggio naturale senza antropomorfizzarli un po’. […] Non posso certo sostenere che la mente degli uccelli sia molto diversa dalla nostra. Mi pare ragionevole pensare invece che abbia qualche somiglianza oltre, naturalmente, alle tante differenze” (pp. 169-170).

Al di là della questione della mente e dell’intelligenza degli animali, un problema che esiste solo per gli esseri umani, il libro di Len Howard testimonia di un atteggiamento verso il mondo vivente completamente diverso sia da quello che ha prodotto i disastri dell’antropocene, sia però da quello dell’animalismo che vede e cerca solo somiglianze fra gli umani e i non umani. Ciò che rende unico questo libro è una vera e propria passione per le differenze che ne attraversa tutte le pagine. Le cinciallegre che Len Howard ha osservato con così tanta attenzione per tutta la vita sono viventi singolari, affatto unici. Solo sulla base di questa radicale differenza è possibile impostare, forse, un diverso rapporto fra i diversi viventi del pianeta terra.   

“Mi ricorderò sempre dell’elettricista che un giorno era salito al mio cottage nel Sussex per riparare un guasto. Si era fermato allibito davanti alla porta, lo sguardo fisso sui numerosi uccellini che dagli alberi venivano a posarsi su di me. Fino a quel momento mi era sembrato un uomo qualunque, senza una particolare espressione, ma alla vista degli animali era cambiato all’improvviso: il volto raggiante, gli occhi accesi, mormorava: ‘Che meraviglia!’. Poi aveva aggiunto: ‘In fondo è così che dovrebbe essere, no? Già, proprio così’” (p. 17). Già, perché non è sempre così?

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