Vedere, classificare, incendiare

11 Gennaio 2025

Vedere è giudicare. Perché vedere significa collocare quanto stiamo vedendo dentro una categoria: ad esempio, vedo un pinguino, un ailanto, un essere umano. Vedere significa allora classificare, cioè appunto riportare il qualcosa che stiamo vedendo dentro una classe di altre entità giudicate simili (la classe dei pinguini, Aptenodytes forsteri, la specie vegetale Ailanthus altissima, l’autodefinita specie Homo sapiens). Vedere è stabilire allora somiglianze e differenze rispetto ad altri visibili, ossia ad altre classi di entità visibili. Ma questo equivale a dire che in ogni atto del vedere c’è, ed è terribile doverlo ammettere, un giudizio; vedere vuol dire “tu, oggetto del mio sguardo sovrano, sei questo, e non sei invece quest’altro”. Quella del vedere è una sentenza, che non è meno definitiva di quella emessa da un poliziotto o da un giudice che indossi la toga d’ermellino. Lo sguardo decide del mondo.

Per questa ragione, perché al contrario pensiamo che sia l’azione più innocua che ci sia, quando scopriamo la potenza del vedere ne siamo così profondamente turbati. È questa la sensazione che ci lascia la visione del documentario in tre atti Bestiari Erbari Lapidari, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (2024). Si tratta di un lungo – che in particolare nelle sequenze sugli esperimenti sugli animali non umani è veramente insopportabile – esercizio di auto-osservazione in cui D’Anolfi e Parenti ci costringono a vedere la nostra stessa visione. Quello che vediamo nel documentario, basato in larga parte su materiali tratti da archivi oltre a parti girate direttamente dagli autori, mostra infatti il meccanismo del vedere nella sua essenza più elementare e brutale: d’altronde per vedere qualcosa dobbiamo, come si dice, ‘metterlo a fuoco’, sul modello dell’operazione che si fa quando si fissa il visibile in un’immagine cercando di regolare l’obiettivo del dispositivo fotografico in modo da ottenerne un’immagine nitida. È questa la scoperta che facciamo vedendo Bestiari Erbari Lapidari. Il modello metafisico di questa operazione (la metafisica è sempre una tecnica: la metafisica è una faccenda quotidiana e banale) ci riporta al fatto che è possibile incendiare qualcosa facendo convergere su di esso – attraverso uno specchio ustorio (come quello che si racconta avesse ideato Archimede per incendiare le navi dei romani durante l’assedio di Siracusa nel 212 a. C.) – i raggi luminosi del sole. La concentrazione della luce sull’oggetto illuminato ne causa il surriscaldamento che lo porta infine a prendere fuoco. La luce incendia, ossia nello sguardo – non a caso quello della telecamera è un “mirino”, lo stesso del fucile di un cecchino – è contenuta una minaccia, o una promessa, di morte. È questa la posta in gioco di Bestiari Erbari Lapidari, cogliere l’impensato mortifero dello sguardo umano sul mondo. Più in particolare il documentario mette a tema il disagio che segue dalla scoperta che ogni nostro sguardo, sia pure il più amorevole e simpatetico, è comunque anche (e non può non esserlo) uno sguardo che s’impossessa del mondo, uno sguardo che classifica, che assegna al visibile una posizione, lo mette in ordine. Idealmente in ogni sguardo è implicito il casellario giudiziario che vediamo nel terzo atto, che raccoglie e fissa per sempre in una fotografia le vite delle persone finite sotto lo sguardo impersonale della polizia politica (la polizia è sempre politica, in realtà). Perché è questa la tentazione irresistibile del vedere, quella di classificare il mondo. Classificare significa trasformare ogni entità vista in un caso di una classe più generale. Da notare, ed è un punto decisivo, che al mondo non esistono le classi con cui categorizziamo le entità del mondo; c’è questo vivente sulla banchisa, c’è questo ailanto cresciuto sulla scarpata della ferrovia, c’è questo mammifero bipede proteso verso l’altro bipede piumato. Nel mondo esistono singolarità, non esistono classi e categorie. È quindi lo sguardo che impone alle entità del mondo di collocarsi all’interno di una classe – che in fondo non è altro che una sorta di prigione concettuale – anziché dentro un’altra. I tanti schedari che vediamo in Bestiari Erbari Lapidari sono, prima di tutto, quelli dentro i quali i nostri stessi occhi non riescono a non inserire le entità singolari.

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In questo senso il nostro sguardo non fa che inventare sempre nuove gabbie, come osserviamo ad esempio nelle sequenze bellissime dove il corpo animale viene ispezionato attraverso i raggi X. Un vero e proprio accanimento visivo di cui sfugge, sinceramente, quale sia lo scopo conoscitivo, mentre è invece evidente l’intento – in verità neanche tanto nascosto – sadico e distruttivo. Perché riportare il singolare all’universale non vuol dire altro, in fondo, che perdere proprio la assoluta e indefinibile singolarità di quella vita, che come tale non è riconducibile a nessuna classe astratta. Ecco perché, come ci ricorda una delle massime che costellano il documentario, “Un tempo il mondo era di chi dormiva più a lungo, perché chi più dormiva più sognava. E i sogni erano la sola materia di cui era fatto il cosmo”. Il sogno non classifica, non funziona per categorie, non mette ordine, al contrario, il sogno confonde, mette insieme il dissimile e separa il simile. Se la materia del mondo è il sogno allora il mondo non può più essere classificato e ingabbiato, allora esploderà da tutte le parti, come nella babele animale che ci ricorda un’altra massima: “Tutti gli animali si incontravano nei sogni altrui. Ed era tutto un nitrire, grugnire, chiocciare, ragliare, ululare, belare, ruggire, muggire, barrire, squittire, pigolare, tubare, abbaiare, cinguettare, sibilare, miagolare, ronzare…”

Com’è, invece, un mondo non fatto di sogni, al contrario, un mondo di sguardi, di schedari, di bestiari, un mondo messo a fuoco? Vediamo allora lunghe sequenze e terribili di animali studiati, immobilizzati, manipolati (terribile la scena di un cavallo a cui infilano fra i denti una lunga pinza). L’animale perfetto è l’animale fermo, al guinzaglio, imbracato, legato, narcotizzato. Cioè appunto l’animale nel museo, fotografato, imbalsamato, possibilmente morto. La prima parte del documentario non è che una lunga sequenza del nostro insopprimibile fastidio per gli animali non umani, di cui non sopportiamo proprio che siano così incredibilmente diversi da noialtri umani, così insopportabilmente vivi e liberi. D’Anolfi e Parenti non vogliono che ci siano dubbi, il loro non è un documentario naturalistico (come uno dei tanti stucchevoli e ipocriti documentari sui ritmi naturali in quella grande gabbia all’aria aperta che è il Serengeti National Park in Tanzania), è un viaggio dentro l’ossessione umana per il controllo e la classificazione. In questo senso, come abbiamo già visto, non c’è differenza metafisica fra una macchina da presa e il mirino del fucile del cacciatore: in entrambi i casi si tratta di immobilizzare il sempre imprevedibile movimento degli animali. C’è una scena, a questo riguardo, talmente esplicita da fare quasi sorridere: vediamo un grande allevamento di animali da pelliccia, forse si tratta di volpi. Una di queste riesce a scappare, infilando il muso fra le maglie della rete metallica della gabbia dove è imprigionata. Scatta la caccia all’animale in fuga, che alla fine viene riacciuffato. Dopo averlo riportato nella sua cella un addetto – il mondo è pieno di queste persone – attacca sulla gabbia un avviso, “fuggitivo”, (Ausbrecher!) affinché si sappia che è un animale da tenere d’occhio, un animale che non vuole stare al suo posto: “Fu così che l’uomo uscì dai sogni degli altri animali. Iniziò a sognare ad occhi aperti e incenerì il sogno di otto milioni di specie”, ci ricorda un’altra delle massime che di tempo in tempo interrompe il flusso delle immagini, per ricordarci che stiamo vedendo non degli animali, bensì il nostro sguardo sugli animali: “Il mondo smise di esistere per come lo avevano sognato la tigre, la volpe, la zebra, la giraffa, il rinoceronte, l’ippopotamo, il gufo, l’orso, il cavallo, il cane, l’elefante, il maiale, l’aquila, la formica, la balena e tutti gli altri animali ad eccezione dell’uomo […] Fu così che gli animali sconosciuti e senza nome, per non morire, tornarono a dormire e sognarono un sogno non ancora sognato per inventare di nuovo il mondo”.

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Nel secondo atto passiamo dagli animali alle piante. Anche in questo caso la logica è la stessa della prima parte; non vediamo una pianta, vediamo un esemplare di una specie vegetale. Il grosso di questa parte è girato dentro un orto botanico, una prigione per piante con le pareti di vetro. Pensiamo al gesto, affettuoso e terribile allo stesso tempo, dell’invasamento di una piantina; che cos’è un vaso se non una piccola prigione di terracotta? Sempre la stessa logica, potare, mettere in forma, adattare, plasmare. Bruciare le erbacce (perché c’è la classe delle erbe buone e quella delle erbe cattive, quelle che appunto si possono bruciare). Dare un nome alle piante. Ad un certo punto vediamo scarti di precedenti potature che vengono tagliuzzati per diventare concime, e quindi nuova terra, nuove piante. Non riusciamo a non mettere al lavoro il mondo, animale e vegetale, non si butta via niente, come si fa con il corpo del maiale. E poi ancora i faldoni dentro cui sono conservati gli esemplari delle piante raccolte in giro per il mondo. L’animale umano colleziona vite.

Nel terzo e ultimo atto, quello dedicato allo sguardo rivolto questa volta contro noi stessi, sono ora gli umani i viventi da classificare, catalogare, etichettare. Questo terzo atto si apre con una lunga sequenza girata dentro un cementificio, un immenso mulino cilindrico che ruota su sé stesso, che macina le pietre di calcare per farne una polvere finissima che verrà poi cotta in forni mastodontici. Siamo l’animale che mette a fuoco, appunto. Pietra tritata, macinata, polverizzata, e poi, senza soluzione di continuità, immagini d’archivio di città bombardate, ridotte in macerie, corpi sepolti nelle rovine, morte, distruzione. Quello sguardo sadico che non lascia in pace il mondo si rivolge ora contro gli stessi umani; entriamo in un immenso casellario giudiziario, ancora archivi, fotografie, vite familiari, appunti, segnalazioni, i sovversivi etichettati come la volpe che cerca di scappare dalla gabbia. Siamo al penultimo passaggio, inevitabile, i campi di sterminio. La logica è la stessa, questa è la metafisica, lo stesso modello, lo stesso accanimento, lo stesso fastidio per l’incontrollabilità intrinseca della vita. Persone che salgono sui treni merci per essere deportate, e poi ancora le città tedesche completamente polverizzate dai bombardamenti degli alleati. Che rimane di tutto questo macinare vite? Uno sconfinato cimitero. Nelle sequenze finali vediamo un artigiano in un laboratorio che incide con dei punteruoli delle targhette, si tratta di lapidi d’ottone per le pietre d’inciampo, per ricordare le vittime dei campi di sterminio, pietre da ‘piantare’ nei marciapiedi davanti alle case dove vivevano. Volevamo che “il film fosse un’enciclopedia del mondo della natura” dice in una intervista Martina Parenti. Un grande libro del vivente, appunto. Ma la vita scappa via, come la volpe fuggitiva.

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