Fotogrammi / L'eterno passato di Fassbinder

11 Febbraio 2021

«Mia carissima Marie, se tu sapessi come la morte e l'amore si alternano per incoronare di fiori, terreni e celesti, questi estremi istanti della mia vita, certamente mi lasceresti morire gioiosamente. […] La mattina e la sera m'inginocchio, come non seppi mai fare prima, e prego Iddio; ora lo posso finalmente ringraziare della mia vita, la più tormentata che un uomo abbia mai vissuto, perché me la compensa con la più splendida e voluttuosa di tutte le morti». 

 

Queste sono le parole che Heinrich von Kleist scrisse alla cugina Marie dieci giorni prima del suicidio compiuto con Henriette Vogel, non moglie né amante, ma solo compagna nella morte.

Anima ascetica, rivoluzionaria e vagabonda, lontano dai canoni classici della Germania di quegli anni ed estraneo al movimento romantico, Kleist è stato tra i drammaturghi capaci di esprimere un'inquietudine talvolta aspra e indigesta, attraverso la sua abilità a imbrigliare gli opposti, gli ossimori e le contraddizioni. E non è un caso che alla banale domanda «A quale personaggio si ispira?», redatta in un questionario inviato da una classe di un istituto superiore, Rainer Werner Fassbinder risponda «mi ispiro a Heinrich von Kleist. È riuscito a trovare qualcuno che volesse morire con lui».

 

Cameo di Fassbinder in "Il matrimonio di Maria Braun" (1979)


In Il viaggio a Niklashausen (Die Niklashauser Fart, 1970) ritroviamo una sequenza in cui tre donne nel mezzo di una discarica fumante pronunciano il terrificante discorso estratto dalla Pentesilea di Kleist, conferendo al film un'affascinante aura oscura. E ancora, in Die Ehe der Maria Braun (Il Matrimonio di Maria Braun, 1979), è proprio il regista ad interpretare in un cameo la parte del borsista nero che propone l'acquisto dell'opera omnia dell'autore tedesco a Maria (Hanna Schygulla). «I libri bruciano in fretta e non riscaldano» risponderà la protagonista, rifiutando l'acquisto dei volumi. 

 

Trovo che vi siano affinità nel percorso individuale dei due autori: sia Kleist che Fassbinder furono perseguitati in vita per poi essere considerati negli anni a venire tra le menti più originali della loro generazione. Entrambi avevano attirato passioni ostili, addirittura addossandosi l'odio di amici e colleghi. Ambivano all'utilizzo di una lingua nuova, artificiosa e tragica, che potesse disporre di infiniti significati, libera da regole e convenzioni. In un'intervista Fassbinder diceva «trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa. [...] E l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria». 

 

Ciononostante, a differenza di Kleist, che aveva il progetto del tutto irrealizzabile di correggere la vita degli esseri umani illuminando l'opacità del mondo, Fassbinder è stato un outsider e un fuoriclasse, un anarchico che credeva alla rivoluzione permanente. È il suo palese, talvolta quasi osceno, essere sempre controcorrente che ci porta a fare i conti con il suo incredibile lascito, un corpus di quaranta film che costituisce una pietra miliare del cinema europeo.

Ci si chiede come mai il fantasma di Fassbinder torni a farci visita a quasi quarant'anni dalla sua morte. Per la drammaticità dei suoi film? Semmai, forse, per la densità singolare di una cinematografia. Pellicole da cui si respirano nevrosi, malesseri, manie ma che nello stesso tempo posseggono una fisicità palpabile, squisitamente “moderna”.

 

 

L'opera non si esaurisce tutta qui. È uscito da poco Fassbinder. Fotogrammi 1966 - 1982 con i contributi di Peter Handke, un biglietto di auguri (o una lettera d'amore?) di John Waters e 26 pensieri di Hans Helmut Prinzler, che mette in fila i fotogrammi tratti dai suoi 44 film. Meravigliosi dettagli incorniciati. Un percorso che comincia dagli esordi, fino ad arrivare all'ultima fatica, Querelle (1982). 

 

Già dai titoli e dalla messa in scena, si può facilmente intuire quanto la rappresentazione della Storia tedesca fu per lui un tema centrale. Fassbinder pensava che la situazione in Germania si fosse evoluta all'inverso perché non era stata in grado di cogliere l'opportunità di un possibile rinnovamento. La società sembrava aver perso la spinta verso il futuro e i tedeschi, preoccupati solo del successo e della rispettabilità, rimanevano ultraconservatori, incapaci di trarre lezioni dal loro passato nazionale. Sono film come Warum läuft Herr R. Amok? (Perché il signor R. è colto da follia improvvisa?, 1969), Händler der vier Jahreszeiten (Il mercante delle quattro stagioni, 1971) e Angst essen Seele auf (La paura mangia l'anima, 1974) a mostrare una  collettività estremamente conformista, immatura, violenta e limitata. E una società del genere è nei migliori dei casi fragile e, nei peggiori, pericolosamente instabile.

Ovviamente Fassbinder non aveva trovato vita facile. Da qui i molti aggettivi con cui la critica dell'epoca lo descriveva: misogino, antisemita, estremista, maniaco; quando gli andava bene, se la cavava come “regista controverso”. 

 

Fassbinder aveva vissuto sotto quattro governi tedeschi che circoscrivono la realtà politica di cui aveva potuto fare direttamente l’esperienza: ha conosciuto durante la guerra fredda il conservatorismo dell’era di Adenauer, compreso il passaggio di Erhard alla cancelleria, poi la grande coalizione sotto Kiesinger a partire dalla metà degli anni Sessanta, la coalizione social-liberale dell’era di Brandt e infine la virata a destra sotto Schmidt a partire dal 1974. 

Decise di concentrarsi sul ventennio 1950-1970 e si avvicinò a quegli anni come se avesse una macchina fotografica con uno zoom molto potente. Gli interessava approfondire i differenti aspetti della storia della borghesia tedesca – quali l'istituzione del matrimonio dopo la fondazione dello Stato tedesco sotto Bismarck – per poter riflettere sul presente, su temi come il radicalismo della Sinistra, il diffondersi della televisione o l'omosessualità.

 

La paura mangia l’anima (1974).


Fece uno sforzo incredibile a non dimenticare mai le esigenze del grande pubblico, adeguandosi alla forza della tradizione hollywoodiana ispirandosi al cinema di Douglas Sirk e ai suoi melodrammi familiari degli anni Cinquanta. Il cineasta tedesco-americano si era specializzato in tragedie personali: amori non corrisposti, disillusioni, confidenze mal riposte, attese dolorose inscritte negli ambienti della piccola borghesia e della classe media. Fassbinder ne era completamente affascinato. Sirk mostrava gli eccessi nella sfera privata senza mai trascurare la rilevanza politica delle tematiche affrontate. Lo faceva in una maniera così trasparente da rendere lo spettatore completamente consapevole di alcune dinamiche messe in scena, facendogli capire come le situazioni difficili potessero essere superate prendendo le proprie decisioni.

 

A metà degli anni Settanta Fassbinder aveva raggiunto una perfezione di stile che incatenava gli spettatori allo schermo: lavorava con elementi della cultura popolare, chiedendo tuttavia a chi vedeva i suoi film di muoversi tra ciò che era preso in prestito alla vita vera e quello che proveniva da altri film – che fossero grandi spettacoli hollywoodiani, film pornografici d'oltre confine, pellicole d'avanguardia o serie televisive. 

Il cinema di Fassbinder si configurava all'interno del cinema moderno, ma la sua sperimentazione, il suo bisogno di affidarsi ad altro, è davvero un esempio unico nel panorama di quegli anni. Lui giocava con le convenzioni, gli stereotipi e le formule psicoanalitiche (i double-binds di cui parla il compianto Thomas Elsaesser in Rainer Werner Fassbinder, Un Cineaste d'Allemagne). Immerge i suoi personaggi in trappole senza via d'uscita, circoli viziosi in cui la felicità a cui aspirano diventa inafferrabile perché è proprio il loro modo di desiderarla che li trasforma in vittime consenzienti (Martha, 1974).

 

In quel periodo si era fatta strada l'ondata del Nuovo Cinema Tedesco: di film se ne giravano a iosa, tanti giovani registi erano euforici e speranzosi. A Fassbinder però non era mai interessato davvero prendere parte a questa corrente. Non voleva nemmeno partecipare a un gruppo politico, né all’opposizione extra-parlamentare né ai movimenti di liberazione internazionali e nemmeno alla RAF.

Piuttosto, si era sempre occupato di raccontare la sua malattia, la sua tragedia personale. Come? Non producendo motti, non smerciando filosofia. «Il fatto che io produca più degli altri – dichiara nel corso di un’intervista – lo spiego come una sorta di malattia, oppure come il tentativo di venire a capo di questa malattia, una malattia mentale». Con un delirio creativo con pochi precedenti ebbe il merito di scrivere un pezzo di storia del cinema europeo, e per la prima volta, dopo decenni, contribuì a restituire al cinema tedesco una notorietà internazionale. «Un giorno è un anno, una vita», diceva a chi gli chiedeva come facesse a girare così tanti film in poco tempo. Erano l'alcool e le droghe a stimolare la sua incredibile produttività.

 

Fassbinder con Werner Herzog e Wim Wenders.


I suoi amici più intimi l'avevano incontrato nel 1982, in occasione del suo compleanno. Era grasso, pallido e gonfio. Fu l'ultima volta che molti lo videro, prima che venisse trovato morto il 10 giugno seguente, a causa di una dose eccessiva di cocaina, mentre stava scrivendo la sceneggiatura sul nuovo progetto riguardante Rosa Luxemburg. Sapendo degli eccessi ai quali sottoponeva il suo corpo, nessuno fu realmente stupito dalla notizia della morte. Del resto, proprio come Kleist, Fassbinder considerava la morte come l'esperienza centrale della vita. 

Chi entrò nel suo appartamento trovò biglietti e fogli dappertutto, progetti diversi sviluppati parallelamente sparsi sul pavimento tra i posaceneri pieni, i vecchi giornali e le bottiglie di whisky. 

Fassbinder non aveva mai scritto un diario. Forse non gli interessava, forse era semplicemente troppo disordinato. Il diario è soggetto a una «clausola apparentemente lieve ma temibile»: il calendario. 

 

Ma infine è proprio questo Fotogrammi 1966 – 1982 a presentarsi come un diario di eccessi, un modo per poter vivere la carriera di Fassbinder numerose volte, film dopo film, anno dopo anno. Rende eterni, impressi sulla carta gli interni flamboyant della camera di Petra Von Kant, il rossetto di Hanna Schygulla in Rio Das Mortes, le mani di Nora Helmer, i candelabri dietro l'esile figura di Veronika Voss, i gialli e gli arancioni effervescenti di Querelle. E le rose! Quelle rose rosso sangue nello specchio che riflette Fox in Il diritto del più forte. Tutti i dettagli sembrano moltiplicarsi come in un caleidoscopio. 

 

Nonostante tutto, Fassbinder ha cercato a lungo «qualcosa per stare meglio». E che cos'è la sua opera se non un'auto-analisi crudele e interminabile? È, insieme, il cinema che si interroga sul proprio senso. Tutto è lì, tra questi volti, in queste storie. È proprio una questione di malattia, di patologia. Pagina dopo pagina ne osserviamo il decorso. Ma bisogna fare attenzione, guardarsi dentro. Solo così potremmo trovare il punto d'origine delle nostre infelicità, delle nostre magnifiche ossessioni.

 

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