Riaprono i sipari / Il teatro delle contraddizioni
Prima contraddizione: il fine è ottimo, ma forse non ci sono i mezzi
Le scelte fatte dallo Stato per aiutare il Teatro a superare la crisi conseguente al coronavirus sono, nelle loro linee di principio, chiare e condivisibili: mettere in sicurezza le strutture teatrali pubbliche e private per garantire la loro sopravvivenza per i prossimi due anni.
Al momento in cui scrivo non c’è ancora nulla di certo, ma sembrerebbe che la messa in sicurezza avverrà assegnando, per questa e per la prossima annualità, lo stesso finanziamento che i teatri si sono visti attribuire per l’anno 2019. Lo Stato poi, riconoscendo la situazione di eccezionalità in cui si troveranno a operare tali strutture, non chiederà, a fronte del finanziamento attribuito, la stessa certificazione di “numeri” (giornate lavorative svolte) che avrebbe preteso in una situazione normale. Sembra cioè che circa l’80 per cento del finanziamento che i teatri riceveranno non dovrà essere giustificato dai “numeri”, mentre il restante 20 per cento sì. Una indicazione di intenti fondamentale che verrà data ai teatri sarà quella di salvaguardare i propri livelli occupazionali. È bene ripetere che al momento queste sono indicazioni di massima, ma non è ancora stabilito nulla di certo.
Queste scelte sono condivisibili perché si vuole garantire la sopravvivenza dei teatri affinché tali strutture possano continuare a dare lavoro ai loro dipendenti e ai loro scritturati, perché possano cioè redistribuire ai singoli parte del finanziamento che ricevono dallo Stato. Proprio come in tutti i periodi di grave crisi economica e sociale, vengono primariamente salvaguardate le strutture (Fabbriche, Enti, Industrie, Scuole, Ospedali ecc.) perché funzionino da centri di snodo intermedi tra lo Stato e i cittadini per la distribuzione degli aiuti finanziari pubblici.
Ma questo meccanismo virtuoso forse rischia di non poter essere applicabile in toto al Teatro, portando a una drammatica contraddizione: i finanziamenti straordinari concessi ai teatri rischiano di non arrivare al numero più ampio possibile di lavoratori dello spettacolo (parlo degli “scritturati”: attori, tecnici, scenografi, costumisti, registi, illuminotecnici, uffici stampa ecc.). Questo perché, mentre alle strutture viene riconosciuto di trovarsi in uno stato di eccezionalità e gli vengono perciò attribuiti finanziamenti in parte “a fondo perduto”, ai lavoratori dello spettacolo non viene riconosciuto di trovarsi in uno stato di eccezionalità: rischiano, cioè, di essere sottoposti a modalità contrattuali pre-crisi, potenzialmente inadeguate e insufficienti rispetto alla condizione sistemica in cui si troverà prossimamente il mondo del teatro.
Provo a spiegarmi meglio. Diciamo, giusto per avere un ordine di grandezza, che un Teatro Pubblico impiega normalmente 100 scritturati all’anno: 100 professionisti tra attori, registi, tecnici ecc. che quel dato teatro considera artisti e maestranze di valore da sostenere. Ora, viste le regole del distanziamento sociale che dovranno essere adottate in teatro, credo che di questi 100 scritturati, per le prossime due stagioni, i teatri riusciranno a farne lavorare, se va bene, poco più della metà. Perché la tendenza sarà obbligatoriamente di fare spettacoli con pochissimi attori e ancor meno tecnici.
La contraddizione sta proprio qui, tra il fine e i mezzi. Ai Teatri Pubblici viene concesso di ricevere un finanziamento che, in parte, non tenga conto dei “numeri”, perché si riconosce che, in una situazione di distanziamento sociale, non potranno raggiungere il numero di spettacoli solito e con il solito numero di scritturati. Ora tutto questo ha il fine di tentare di mantenere il livello di occupazione solito dei professionisti dello spettacolo, ma, se il mezzo che i teatri hanno per ridistribuire gli aiuti pubblici agli “scritturati” rimane solo quello di assumerli per la produzione di spettacoli, tale fine rischia di essere raggiunto solo in minima parte: è certificato che si potranno fare meno spettacoli e con meno “scritturati”, ma il solo modo che ho per dare lavoro agli “scritturati” è di assumerli per fare spettacoli!
In estrema sintesi: i Teatri Pubblici e Privati (almeno quelli più attenti alle esigenze dei loro lavoratori e dei loro artisti di riferimento, e vi assicuro che ce ne sono) si troveranno in una sorta di dolorosa impasse. Avranno i finanziamenti per dare potenzialmente lavoro ai loro 100 scritturati “usuali”, ma non avranno gli strumenti normativi e di legge per sostenere quei loro lavoratori dello spettacolo che rischiano di restare “fuori dagli spettacoli”.
Cosa si potrebbe fare? L’unica via mi pare essere coerenti: se alle strutture viene riconosciuto di trovarsi in uno stato di eccezionalità, tale stato di eccezionalità deve essere riconosciuto anche ai lavoratori, altrimenti si adottano due pesi e due misure. Ai Teatri Pubblici, e non solo a loro, lo Stato dovrebbe fornire gli strumenti e le ulteriori risorse per poter pagare gli “scritturati” al di là della loro partecipazione alle produzioni di spettacoli.
Ma restando allo stato attuale dei fatti, se ai teatri verrà concessa una gestione straordinaria per le prossime due stagioni e se avranno solo lo strumento della “scrittura” per assumere i lavoratori, come potrebbero comportarsi per agire al meglio in queste condizioni?
Prima di fare una proposta, che vuole solamente essere a titolo d’esempio, occorre chiarire una cosa. Temo che la situazione dei lavoratori dello spettacolo in Italia sia una questione – al di là del coronavirus, al di là della volontà dei direttori di teatro più responsabili o di quelli più “sciagurati” – irrisolvibile: il sistema teatrale italiano (produttori, distributori e fruitori potenziali, cioè il pubblico) può oggi infatti garantire occupazione diciamo, sempre per intenderci, a 100 lavoratori dello spettacolo all’anno, a fronte di 1000 lavoratori dello spettacolo esistenti. Un po’ come dire che in un paesino di 500 abitanti c’è una sola pizzeria e 20 aspiranti pizzaioli. Questa questione riguarda il Paese Italia, ed è al di là di ciò che possono fare i teatri, che siano più o meno virtuosi. In un Paese che negli ultimi 20 anni ha svilito e degradato la Cultura – un ministro dell’Economia, tempo fa, disse in tv che “La Cultura non paga” –, con una classe politica che imbarbarisce e punta ad abbassare la qualità delle esigenze dei cittadini per farne degli elettori più docili, la battaglia non può che essere globale: solo quando, a tutti i livelli della vita civica, saremmo riusciti a ristabilire il valore della Cultura come bene primario, potranno ampliarsi le possibilità lavorative e di impiego del mondo del teatro. Il pubblico del teatro cresce se crescono le esigenze di qualità della vita dei cittadini.
Tutto questo per dire, che allo stato attuale dei fatti, e senza arrendersi a considerarli immutabili, il primo sforzo da compiere è che almeno quei nostri famosi 100 professionisti dello spettacolo normalmente impiegati in un anno, abbiamo la possibilità di mantenere la loro occupazione: so perfettamente che è poco, e che il mio apparirà un discorso cinico a qualcuno, ma, al momento, mi sembra realisticamente il primo obbiettivo minimo da provare a raggiungere.
Dunque abbiamo ipotizzato che dei nostri 100 lavoratori, per le prossime due stagioni, se ne riusciranno a impiegare negli spettacoli poco più della metà.
Lo sforzo prioritario dei Teatri Pubblici, e non solo di loro, deve essere però quello di garantire occupazione per il periodo più lungo possibile alla maggior parte possibile dei propri lavoratori: come lo Stato ha “messo in sicurezza” le strutture, così ora vanno “messi in sicurezza” i lavoratori e gli artisti.
Penso che i teatri dovrebbero immaginare periodi più lunghi di scrittura, magari continuati per l’intera prossima stagione, per offrire a un gruppo selezionato – ma più possibilmente vicino alla nostra “quota 100” – di professionisti che essi ritengono di valore (attori, tecnici, registi e loro collaboratori) la possibilità di superare con una certa tranquillità questo periodo buio.
Visto poi che, al momento, l’unica modalità contrattuale per assumere i lavoratori dello spettacolo resta la paga per le giornate di prova e di recita, per ampliare il più possibile il gruppo di professionisti da contrattualizzare, si dovrebbe implementare, variandola, l’offerta spettacolare, immaginando, oltre alle poche produzioni che si potranno realizzare, anche tutte una serie di attività “collaterali”: letture alla radio, performance appositamente realizzate per l’online, interventi “spettacolari” all’aperto, laboratori per le scuole e la cittadinanza ecc. Bisogna insomma mettere in campo tutte le iniziative possibili e innovative per assicurare a una generazione di artisti e di lavoratori dello spettacolo di non scomparire a causa della situazione eccezionale in cui ci troviamo.
Se, ad esempio, uno o più teatri formassero un gruppo di lavoro, scritturato per un periodo lungo, impiegandolo in tutta una svariata serie di attività performative/culturali oltre alla produzione di spettacoli, forse, se non proprio a tutti i nostri 100 lavoratori, si darebbe la possibilità di superare, con una certa tranquillità, questa crisi a un buon numero di loro.
E per quelli, pur meritevoli, che rischiano di restare fuori da iniziative di questo tipo? È chiaro che, per quanto i teatri vorranno ampliare la loro offerta spettacolare per impiegare più scritturati possibili, viste le condizioni imposte dal distanziamento sociale e un potenziale rischio di “saturazione da offerta spettacolare” da considerare, queste opportunità lavorative saranno comunque insufficienti rispetto al bisogno generale. Ed è qui che lo Stato dovrebbe fornire mezzi e finanziamenti ulteriori ai teatri per risolvere il problema. Infatti, se l’unico mezzo che i teatri hanno per creare occupazione resta quello della “scrittura”, non si potranno aiutare tutti i lavoratori del nostro comparto. Lo Stato, vista l’eccezionalità di questa crisi, se la priorità è di garantire i lavoratori, dovrebbe fornire modalità contrattuali nuove e, appunto, “eccezionali”, una tantum (con relativi finanziamenti una tantum).
Ad esempio, nel migliore dei mondi possibili e volendo essere ingenuamente idealisti, si potrebbe immaginare che lo Stato, attribuendo un finanziamento speciale, riconoscesse ai teatri, come giornate lavorative svolte, un periodo di formazione pagata a tutti i lavoratori che non riescono a impiegare con una “scrittura” canonica. Si potrebbe cioè pensare a un percorso di formazione/aggiornamento per questi “scritturati speciali”: sarebbero pagati per fare laboratori con registi, illuminotecnici, drammaturghi, uffici stampa, organizzatori teatrali ecc. In una situazione eccezionale come quella che vivremo, perché non mantenere l’occupazione di queste persone facendogli formazione, concedendogli di studiare e di fare ricerca, magari per preparare progetti per le stagioni che verranno dopo il coronavirus? Se il fine dello Stato nel concedere ai teatri una situazione gestionale “eccezionale” dei finanziamenti è quello di mantenere il livello occupazionale solito, occorre allora anche forgiare strumenti amministrativi e contrattuali “eccezionali” per i lavoratori. E questo tipo di “cassa integrazione” o di “ammortizzatore sociale” avrebbe il vantaggio di far sentire i beneficiari attivi e partecipi di un movimento di rinnovamento e ricerca.
Seconda contraddizione: hai dimostrato di essere un imprenditore della cultura, quindi ti lascio solo
Vorrei ora parlare brevemente della situazione di un tipo particolare di Teatro a iniziativa privata. In Italia ci sono piccole e piccolissime sale teatrali private che vivono senza finanziamento pubblico (un esempio tra i tanti che si potrebbero fare, giusto per capire di cosa parlo, è quello di Carrozzerie N.O.T di Roma). In un certo senso, i gestori di queste piccole realtà possono essere considerati tra i più grandi organizzatori e manager teatrali che abbiamo. Sono persone che, senza un soldo di finanziamento pubblico, generano economie, riuscendo a pagare tutte le spese gestionali e i loro stipendi con le loro attività teatrali, spesso di altissimo livello. In realtà periferiche o nel caos delle grandi città organizzano laboratori con bravi maestri, offrono spazi per le prove, ospitano spettacoli di valore che spesso non trovano accesso nelle realtà più ufficiali. Spesso artisti poi divenuti riconosciuti sono cresciuti e hanno avuto i primi aiuti proprio in queste sale, i cui gestori possono essere appunto considerati i veri imprenditori del teatro italiano, perché vivono di quello che guadagnano. Vivono di teatro.
E questa generazione di “professionisti privati”, che ha dimostrato di saper fare teatro di valore e che potrebbe fornire molti stimoli e idee ai grandi teatri, rischia di essere spazzata via dalle conseguenze del coronavirus. Rischiamo di perdere una generazione di organizzatori teatrali che sono una delle forze di innovazione del nostro comparto. È un paradosso doloroso: non verrà aiutato chi ha dimostrato di essere così capace e bravo da fare teatro senza aiuti pubblici. Il privato “virtuoso” che produce cultura, quello che sempre ci viene indicato dalla Stato come modello da sviluppare e sponsorizzare, viene lasciato solo in questo stato eccezionale di crisi che nessuno può affrontare senza aiuti pubblici.
Alcune di queste piccole realtà, grazie ai 20 milioni di euro stanziati per chi è extra Fus, cioè per tutte quelle realtà medio piccole che non ricevono finanziamenti pubblici, sono riuscite, bene o male, a superare il periodo di lockdown, ma i loro problemi cominciano ora con la riapertura dei teatri.
Causa le regole del distanziamento sociale, queste piccole realtà chiuderanno: sale la cui capienza da 80 posti viene ridotta a 15, non possono sopravvivere con lo sbigliettamento e con le loro attività. Neanche potranno contare sui laboratori e la formazione, perché il numero dei partecipanti paganti sarà drasticamente ridotto. L’amara realtà è che i teatri riaprono per non chiudere (riaprono cioè per poter ricevere i finanziamenti, e saranno finanziati al di là dei “numeri”), mentre i piccoli teatri privati non potranno riaprire e rischieranno di chiudere perché non hanno i “numeri” per poter economicamente sostenere la riapertura.
Ora in Italia c’è da sempre un problema di osmosi tra i vari reparti e livelli teatrali. Questi organizzatori delle sale teatrali private e indipendenti sono bravissimi nel gestire spazi piccoli e nell’avere a che fare con le norme amministrative di tali piccole realtà. La loro “creatività”, le loro idee, le loro visioni potrebbero arricchire molto i Teatri Pubblici, e non solo loro, potrebbero dare un grande contributo alle realtà più ufficiali. Mi assumo anche la responsabilità di dire che, alcuni tra i migliori di loro, li vedrei bene assunti in ruoli organizzativi, progettuali e, perché no, anche di direzione di un grande teatro. Ma qui nascono i problemi: un Teatro Pubblico, ma più in generale ogni teatro adeguatamente finanziato dallo Stato, richiede competenze amministrative, gestionali, di responsabilità legale e di conoscenza dei “meandri” della burocrazia sconosciuti a tanti gestori dei piccoli teatri privati.
Uno dei motivi del non ricambio generazionale – e, permettetemi di dire, di classe sociale – del sistema teatrale italiano è appunto questo: chi ha energie creative e idee innovative spesso non ha le competenze amministrative (perché non ha mai avuto possibilità di fare tirocinio e apprendistato in strutture medio-grandi) per gestire un Teatro Pubblico o un grande Teatro Privato, mentre chi ce le ha (perché nato e cresciuto dentro strutture medio-grandi) a volte non ha più una spinta ideale di rinnovamento.
Ora questo periodo difficile del coronavirus potrebbe essere un’occasione di osmosi tra giovani e meno giovani organizzatori teatrali, tra il mondo off delle piccole sale teatrali e quello ufficiale dei grandi teatri “all’italiana”: un periodo di reciproca influenza, scambio di idee e competenze.
Quello che propongo è questo: se i Teatri Pubblici, e non solo loro, “adottassero” le sale teatrali dei migliori tra gli organizzatori di queste piccole realtà, realizzandovi, in una sorta di cogestione, una parte delle loro attività, come piccole produzioni, periodi di prova, letture ecc.? E se, inoltre, ai gestori di queste sale, venissero offerte occasioni di tirocinio e formazione all’interno dei teatri che li “adottano”? È chiaro che anche questa ipotesi è puro idealismo, senza un ulteriore investimento di soldi pubblici da parte dello Stato.
Sarebbe però un modo per garantire una possibilità di sopravvivenza a questi piccoli, tenaci e, a volte, geniali organizzatori teatrali e per far acquisire loro competenze e sicurezze per essere, magari, i rinnovatori del Teatro del domani.