Legge contro il dialetto

2 Marzo 2015

Malvoglio: Cosa serve al teatro italiano?

 

Civica: Non lo so. Però posso dirle cosa rischia di non servire al teatro: la riforma ministeriale.

 

Malvoglio: Cominciamo bene... Cosa non le va nella riforma ministeriale?

 

Civica: Innanzi tutto il nome: "riforma", un termine che è stato svuotato di significato fino a cambiarlo di segno. Dal dizionario: RIFORMA, "trasformazione che dà una forma diversa e migliore". Ora, per migliorare qualcosa, è necessario, oltre che individuare gli sprechi, investire risorse. Se lei volesse migliorare, "riformare" il suo guardaroba, cosa farebbe?

 

Malvoglio: Beh, comprerei degli abiti nuovi, spenderei, con discernimento, qualche soldo in più per avere vestiti di buona fattura, che durassero di più nel tempo...

 

Civica: Invece, secondo la logica dei nostri governanti, lei dovrebbe comprare il doppio degli abiti che ha, spendendo la metà. In Italia, ad esempio, riformare la sanità vuol dire chiudere ospedali, licenziare personale e costringere chi resta a turni infernali, il tutto a discapito della qualità del servizio.

 

Malvoglio: Quindi lei cosa proporrebbe?

 

Civica: Suggerirei all'Accademia della Crusca di prendere atto del nuovo significato, ormai attestato dall'uso, del termine "riforma": ridimensionamento, taglio dei fondi e delle risorse. Arricchirei poi la definizione rivelando che, nella parola, è adombrato un sentimento dell'inutilità da parte del riformatore della cosa che si intende riformare: la scuola pubblica, la sanità pubblica, i musei, il teatro.

 

Malvoglio: Ma, tornando al punto, cosa c'è che non va nella riforma ministeriale del teatro?

 

Civica: Che è stata strutturata con la logica dell'asta al ribasso. Prima sono state mappate le realtà teatrali esistenti, poi sono stati creati degli "slot" (le nuove caselle dello schema del futuro teatro italiano) in cui non rientra nessuna delle suddette realtà. Così ognuno deve scegliersi una nuova casella dove andare a stare. Ma, qui è il colpo di genio del "riformatore", tutte le realtà teatrali oggi esistenti sono o sovradimensionate o sottodimensionate rispetto alle future caselle disponibili. Ognuno dovrà cioè scegliere tra due possibilità: o salire di una casella, impegnandosi a svolgere un carico di attività maggiore di quello svolto sin ora (ma, più o meno, con le stesse risorse economiche di prima), oppure scendere di una casella, ricevendo meno risorse economiche di prima (ma, più o meno, con lo stesso carico di attività svolto sinora). Questa è proprio la logica dell'asta al ribasso: chi vuole "vincere" l'asta per continuare a esistere deve offrire più servizi degli altri a un prezzo più basso. Da tutto ciò si evince che una delle ragioni d’essere della riforma, sicuramente su “mandato” del governo, è quella di tagliare altri fondi al teatro.

 

Roberto Latini, I giganti della montagna, ph. Simone Cecchetti

 

Malvoglio: Provi a spiegarmelo come se fossi un bambino di otto anni...

 

Civica: Prendiamo come esempio gli ex Teatri Stabili. I loro direttori avevano due possibilità: o tentare di diventare Teatro Nazionale, o, scendendo di una casella, trasformarsi in TRIC. Nel primo caso devono aumentare le proprie attività, assicurando un numero di spettatori e di repliche irreali per l'attuale mercato italiano, aprendo una scuola di recitazione, ecc. Il tutto, almeno a quanto è dato di supporre al momento, con gli stessi finanziamenti di prima. Nel secondo caso, devono mantenere, più o meno, le stesse attività di prima, ma con un finanziamento inferiore. E quanto detto per i Teatri Stabili vale per tutte le altre realtà teatrali attualmente esistenti: tutti devono o scendere o salire di casella, svolgendo un carico di lavoro maggiore o uguale, ma con meno risorse. C'è poi il rischio, nelle grandi città, che per una stessa casella concorrano due teatri, che prima appartenevano a categorie diverse. Ad esempio l'ex Teatro Stabile di Genova non è riuscito a diventare Teatro Nazionale, e sarà costretto quindi a diventare TRIC, occupando una casella che era "naturalmente" destinata al Teatro della Tosse: che fine farà quest'ultimo? Se considera che già oggi, con alle spalle 20 anni di continua contrazione del FUS, i teatri non riescono a far fronte ai loro impegni, e che il loro indebitamento con le banche è oltre il limite di gestione, capirà che la riforma otterrà gli scopi prefissi: far chiudere quanti più teatri possibili o costringerli ad accorparsi per sopravvivere. Quindi in campo teatrale, al termine "riforma", bisogna aggiungere un nuovo ulteriore significato: liquidazione coatta.

 

Malvoglio: Lei ha una visione troppo fosca del futuro!

 

Civica: Aggiungo un'altra pennellata di nero al quadro. Per quanto riguarda le compagnie, la storia del teatro italiano si è sempre contraddistinta per una dialettica, problematica ma anche stimolante, tra stanzialità e nomadismo. Ora la riforma "pende" in maniera preponderante verso la stanzialità, direi anzi che mira ad annullare la possibilità di tournée. Per le loro nuove produzioni, i Teatri Nazionali devono assicurare 250 repliche e 160 repliche i TRIC.  Ora i TRIC devono fare il 60% delle proprie repliche all'interno della loro regione, mentre i Teatri Nazionali non possono fare più del 20% di repliche fuori della loro regione! Questo vuol dire ridimensionare moltissimo il "giro" delle compagnie di questi teatri, farne delle "compagnie cittadine".

 

Malvoglio: E non le sembra una buona cosa, che come in Germania, ogni città abbia la sua compagnia?

 

Civica: Sì, se fossimo in Germania; ma siamo in Italia: tutt'altra tradizione e mentalità. Siamo sicuri di "trovare in sede" il numero di spettatori necessario per tutte queste repliche casalinghe? Se poi aggiunge che la riforma prevede che gli enti locali contribuiscano per metà al finanziamento di un Teatro Nazionale, che cosa pensa che ne deriverà?

 

Malvoglio: Me lo dica lei...

 

Civica: Che gli enti locali, contribuendo in maniera decisiva al finanziamento della loro compagnia "cittadina", si sentiranno più che mai in diritto di mettere bocca nella programmazione artistica. Me lo vedo già l'assessore alla cultura della Campania che chiede al "suo" teatro di fare uno spettacolo in lode dei “friarielli”, gloria e vanto locale. In Germania hanno teatri cittadini con un respiro culturale internazionale e la gente si sposta in massa per andare in un’altra città a vedere uno spettacolo; in Italia, dove “ci fa fatica” andare a vedere una mostra all'altro capo della città e dove gli interessi locali sono gli unici interessi, corriamo il rischio di avere teatri cittadini “strapaesani”, altro che nazionali!

 

Malvoglio: Lei però sta facendo un processo alle intenzioni...

 

Civica: È vero. Tocchiamo allora un aspetto della riforma che, mi sembra, avrà conseguenze certe. Parliamo delle compagnie di ricerca, finanziate e non. Sono molto preoccupato per il loro futuro. Chi produrrà i loro spettacoli? Non potranno essere prodotte da un Teatro Nazionale, che può produrre solo da solo, con altri Teatri Nazionali o con un singolo TRIC. Quindi, per legge, la compagnia Scimone-Sframeli, la Raffaello Sanzio, la compagnia di Roberto Latini, la compagnia di Claudio Morganti, Babilonia Teatro, la compagnia Deflorian-Tagliarini (per fare i primi nomi che vengono in mente) non potranno, per legge, essere prodotte da un Teatro Nazionale, a meno di rinunciare al loro nome e alla loro storia e facendo assumere i loro membri dal teatro come semplici scritturati. Potrebbero essere prodotte da un TRIC. Però un TRIC, avendo l'obbligo di fare il 60% delle repliche delle proprie produzioni in regione, vincolerebbe la compagnia a una stabilità forzata, che mal si accompagna con la sua necessità di "far cassetta" in giro per l 'Italia. E poi, qualora le compagnie di ricerca riuscissero ad autoprodursi uno spettacolo, avrebbero serie difficoltà a venderlo nelle regioni dei Teatri Nazionali, perché questi ultimi saranno costretti a “ingolfare” tutti i teatri del territorio con le repliche delle loro produzioni. Senza la possibilità di coprodurre con i teatri più grandi e con un così grave problema di distribuzione, come faranno queste compagnie a racimolare il numero di repliche richieste dal Ministero per continuare a essere finanziate? A me sembra che la parte più viva e vitale del panorama italiano, siano proprio le piccole compagnie autonome. La riforma ministeriale sembra disinteressarsi del loro destino. Per quel poco che riesco a capire, alle compagnie di ricerca non resterebbe che farsi produrre da un festival. Ora, però, festival intelligenti, come ad esempio Romaeuropa, hanno risorse economiche sempre più limitate. Negli ultimi anni, le operazioni artisticamente più coraggiose, erano state messe in piedi grazie a coproduzioni tra i festival e i grandi e medi teatri. Ma ora i festival non potranno più coprodurre né con i Teatri Nazionali né con i TRIC: divide et impera?

 

Deflorian-Tagliarini, ph. Claudia Pajewski

 

Malvoglio: Non pensavo che anche lei ricadesse nella perniciosa categoria dei "complottisti", che vedono piani criminosi ovunque!

 

Civica: No, assolutamente, non c’è alcun complotto. È solo che i nostri riformatori, costretti a fare le cose di fretta, oppressi dall’ingiunzione calata dall’alto di risparmiare più soldi possibili, rischiano, contro i loro stessi migliori propositi, di ripetere degli errori che sono già stati commessi in passato.

 

Malvoglio: Di quali errori e di quale passato parla?

 

Civica: Sa che differenza c'è tra l'attuale riforma e quella voluta dal fascismo nel Ventennio? Uno zero!

 

Malvoglio: Intende dire che sono identiche?

 

Civica: No, per essere identiche manca appunto uno "zero"...

 

Malvoglio: La chiarezza, signor Civica! Si ricordi che sta parlando a un bambino di otto anni...

 

Civica: Scusi, è che io odio i bambini... Premetto: noi non viviamo in un regime autoritario, l’attuale riforma teatrale vuole operare per il bene del teatro e ha scopi che nulla hanno in comune con quelli sottesi alla riforma teatrale fascista. Però, come dicevo sopra, la fretta e l’obbligo di riformare risparmiando possono condurre a delle somiglianze di superficie. Dunque la riforma fascista mirava a creare un teatro nazionale in lingua italiana per le masse. Per contrastare il nomadismo delle compagnie di allora, che comportava spettacoli arrangiati e sciatti, si decise di costituire nelle grandi città delle "stabili", ovvero delle "Compagnie Stabili" (da qui poi il nome dei nostri, ormai vecchi, Teatri Stabili). Queste Stabili erano vincolate a tenere le loro repliche nelle rispettive città d'appartenenza, senza possibilità di tournée. Contro questa stanzialità forzata si scagliò Silvio D'Amico, perché tutto ciò, per la connaturata inerzia dell'italiano medio, avrebbe impedito ai cittadini romani di godere di uno spettacolo della Stabile di Milano. Comincia a intravedere qualche somiglianza con l'attuale riforma?

 

Malvoglio: Vada avanti, dov'è il famoso "zero" che manca?

 

Civica: La riforma del Ventennio prevedeva per le Stabili teatri da 10.000 posti, i nostri riformatori si accontentano di soli 1000 posti: ecco lo zero che manca! Anche se, a dire il vero, la riforma non è chiara sull’obbligo per i Teatri Nazionali di avere una sala da 1000 posti: sembra che basti che il totale dei posti delle varie sale di un teatro raggiunga i mille posti, con l’obbligo che le proprie produzioni si replichino in una sala di almeno 500 posti. Però, è verso l’ottenimento di sale da 1000 posti che pende l’impostazione della riforma.

 

Malvoglio: Ma è uno zero che fa una bella differenza! Non è la stessa cosa un teatro da 10.000 o da 1000 posti!

 

Civica: Certo. Ma deve considerare che il teatro, in epoca fascista, era la prima scelta di intrattenimento per gli Italiani. Oggi, con lo strapotere della televisione, del cinema e dei “social”, volere teatri da mille posti significa aspirare a un “piccolo teatro di massa”, adeguato ai tempi che corrono.

 

Malvoglio: E che male c’è a voler portare tanta gente a teatro?

 

Civica: Nessuno. Anch’io voglio che tanta gente vada a teatro. Ma bisogna capire quale sia la modalità migliore per ottenere questo. Mi servirò dello stesso ragionamento che fece ai tempi Silvio D'Amico. Nel palcoscenico di un teatro da 10.000, o anche solo da 1000 posti, l'attore non può avere un tono di voce intimo né una mimica raffinata, deve urlare, deve sbracciarsi, deve recitare "alla grossa". Su un tale palcoscenico servono una scenografia imponente, delle musiche, delle coreografie. Un tale palcoscenico vuole lo “spettacolo” non il “teatro”, per citare l'antinomia cara al maestro Claudio Morganti. D'Amico diceva che su quei palcoscenici ci sarebbe stato lo “spettacolo” e non il “dramma”. Lui aveva notato che la migliore drammaturgia di allora richiedeva spazi intimi: Cechov, Molnar, Strindberg, Ibsen, Maeterlinck, lo stesso Pirandello, che fine avrebbero fatto i loro personaggi spersi nelle praterie di quei palcoscenici? E perché oggi, chi si ostina a fare TEATRO e non SPETTACOLO, gente cioè come Claudio Morganti, Danio Manfredini, Spiro Scimone e Francesco Sframeli, Saverio La Ruina e, chi più né più ne ha più ne metta, deve, di fatto, vedere le proprie opere escluse dai Teatri Nazionali? Se è solo questione di numeri, i numeri si possono ottenere aumentando le repliche: come diceva Nicola Chiaromonte, "i migliori drammaturghi di oggi non vogliono pochi spettatori, ne vogliono pochi per volta". Con trenta repliche in un teatro da 200 posti si ottiene lo stesso numero di spettatori che in un teatro da 1000 con tre repliche, offrendo un servizio migliore sia agli spettatori sia agli artisti. Ah, tra l'altro, questo pensiero non è mio, è sempre di D'Amico. Invece, i nostri direttori dei Teatri Nazionali, saranno costretti a fare “spettacolo”, non “teatro”.

 

Danio Manfredini, Vocazione, ph. Agnes Dorkin

 

Malvoglio: Perché costretti?

 

Civica: Per far quadrare i conti! Se devo tenere uno spettacolo per un altissimo numero di repliche in un teatro “nominalmente” di 1000 posti, non posso prendere rischi, devo ricercare un “successo” a priori, un successo preventivo, ciò messo a preventivo di bilancio! Ciò comporterà operazioni di cassetta: vedremo Giulietta e Romeo di Shakespeare con protagonisti i ragazzi di Amici di Maria De Filippi! Ogni progetto dovrà uniformarsi alla “formula per un successo preventivo” messa a punto anni fa da un'importante produttore di casa nostra.

 

Malvoglio: Chi è questo produttore e qual è la sua formula?

 

Civica: La formula si può così riassumere: un testo classico, un attore di nome e un regista che “lo faccia strano”. Questo, temo, sarà il vademecum produttivo di un Teatro Nazionale, il cui aggettivo “nazionale” rischia di specificarsi in “nazional-popolare”. Avremo cioè sempre più spettacoli-eventi “rivoluzionari” in cui un attore della serie tv Gomorra interpreterà Riccardo III, guidato da un regista iconoclasta che ambienterà la storia nella sede di un partito di sinistra: quel perfetto mix di “cultura”, ardita provocazione e attualizzazione dei classici che assicurerà un “successo” già assicurato in partenza. Avremo dunque un teatro che cerca, ancora prima che il successo, un consenso a priori. Ma si fanno sempre gli stessi discorsi: mi lasci citare un articolo di Roberto De Monticelli del 1985...

 

Malvoglio: Guardi che le citazioni annoiano…

 

Civica: Grazie. “Una parola, che non dovrebbe mai ricorrere nei discorsi che si fanno sul teatro, è ‘consenso’. Consenso, ci spiega il vocabolario, vale ‘conformità d'intenti, di voleri; accordo’; e anche ‘giudizio favorevole, viva approvazione’.Consenso’, tuttavia, è diventato una parola ambigua, forse per l'uso che se ne è fatto in politica. Già ‘successo’ che pure, apparentemente, significa la stessa cosa, è una parola che si inserisce più a proposito in un discorso riferito ai fatti dell'arte teatrale. Successo esprime, assai più che consenso, la constatazione ‘a posteriori’ d'un fatto, mentre consenso, indicando soprattutto una concordanza di opinioni individuali (lo dice sempre il vocabolario), autorizza anche a pensare a qualcosa che sta a monte di quel fatto, al lavoro di preparazione e di persuasione inteso a suscitarlo. In un successo, inoltre, si possono individuare delle crepe; un successo può essere contrastato, discusso, specialmente a teatro dove, una volta, era spesso il risultato d'una serata di battaglia in cui le opinioni opposte si affrontavano.

 

Il consenso invece dà l'idea d'un monoblocco. Un successo può dividere, il consenso unisce. L'impressione che si riceve dai fatti teatrali del nostro paese in questo momento è che il primo obbiettivo di chi opera nel settore sia, appunto, la conquista del consenso, preludio indispensabile al successo. Ma non a quel successo dialettico cui si alludeva sopra e che è garanzia di crescita culturale in qualsiasi attività di spettacolo: al successo totale, al successo di massa. È chiaro, anzi ovvio, che per ottenere un tale scopo la prima mossa da compiere è quella d'abbassare la qualità del prodotto. Ma non, come si fa in commercio, per venderlo a prezzi più accessibili (e del resto, queste operazioni di livellamento nel campo dello spettacolo, non sembri un paradosso, aumentano i costi anziché diminuirli) ma per renderlo più gradito (anzi, più che gradito, familiare) al maggior numero possibile di spettatori. È la strategia che adottano i mass-media, la televisione in primis”. Come vede l’obbligo al successo porta inevitabilmente a dover fare “spettacolo”.

 

Malvoglio: Perché cè l'ha tanto con lo spettacolo? Io non ci vedo niente di male nel passare a teatro una serata divertente e, mi consenta, spensierata!

 

Civica: Ma io non ce l'ho affatto con lo "spettacolo"! Solo io continuo a pensare che lo Stato non debba finanziare lo spettacolo, che deve restare appannaggio dei privati.

 

Malvoglio: E perché?

 

Civica: Ma, scusi se l'offendo con la banalità della domanda, lei sa perché lo Stato finanzia il teatro?

 

Malvoglio: Beh... Forse non è una domanda così banale.

 

Civica: Perché il teatro è un servizio pubblico, al pari della scuola, dei musei, della sanità! Si vada a rileggere gli statuti dei "vecchi" Teatri Stabili! C’è scritto che il teatro deve promuovere la crescita spirituale ed emotiva degli spettatori e ampliare la loro coscienza civica e umana. Il Teatro Pubblico deve sostenere le iniziative artistiche contro l'appiattimento del teatro commerciale. Eccoli i compiti di un Teatro Pubblico, si chiami esso Teatro Stabile, Nazionale o TRIC! Guardi, mi scappa una citazione di Jean Vilar, che qualcosa di teatro popolare d'arte ne capiva: “Il teatro è un servizio pubblico, e, proprio per questo, non può mettersi al servizio del pubblico, dei suoi interessi più limitati, delle sue passioni più eschine e dei suoi gusti più sguaiati”. Io credo ancora che il teatro debba educare il pubblico, e si ricordi che si può, anzi si deve, educare divertendo ed emozionando.

 

Malvoglio: Ma un tale teatro dovrebbe spendere un sacco di soldi per iniziative che avrebbero poco pubblico, almeno all'inizio. Per educare un nuovo pubblico ci vorrebbero almeno dieci anni, dieci anni di finanziamenti, sulla fiducia, a babbo morto, da parte dello Stato. Come farebbero i governanti a giustificare questo che, agli occhi di molti cittadini, apparirebbe uno spreco?

 

Civica: I governanti devono essere migliori dei loro elettori. Col fine della crescita culturale dei cittadini, i governanti hanno l'obbligo morale di essere più coraggiosi dei cittadini stessi. Poi lei parla di "spreco", e bisogna intendersi sul senso che può avere questa parola.

 

Malvoglio: Non stia a sottilizzare: uno spreco è uno spreco.

 

Civica: Ma gli antropologi affermano che la civiltà nasce da atti antieconomici. I vecchi sono un peso: mangiano e non sono in grado di lavorare. La storia dell'umanità è iniziata quando le tribù nomadi non hanno abbandonato più i vecchi al loro destino, ma hanno iniziato a prendersi cura di loro, anche quando non erano più una forza lavoro.

 

Malvoglio: Lei mi parla di tribù nomadi, suvvia, oggi siamo nel duemila!

 

Civica: Le farò un esempio che anche un bambino di otto anni può capire. In una grande città, la percentuale di portatori di handicap in carrozzina è lo 0,8% della popolazione totale. Eppure spendiamo milioni di euro per realizzare i passaggi per carrozzine nei marciapiedi. Secondo le leggi dell’economia di mercato questa è una pazzia: perché spendere così tanto per una percentuale risibile di utenti e di "elettori"? Per lei i soldi spesi per chi è "diversamente abile" sono uno spreco?

 

Malvoglio: No.

 

Civica: Allora c'è spreco e spreco. La verità è che la crisi del teatro è solo una parte dell'attuale crisi dello stato sociale di diritto: stanno mettendo un dubbio il diritto allo studio, il diritto alla salute, il diritto allo sviluppo dell'essere umano...

 

Malvolio: Restiamo all'ambito teatrale, la prego!

 

Civica: Certo. Dunque, oltre a puntare su un pubblico di "massa" da intrattenere con lo “spettacolo”, l'attuale riforma e quella fascista rischiano di avere un altro punto in comune...

 

Malvolio: E sarebbe?

 

Civica: La guerra al "dialetto". In epoca fascista fu proibito alle compagnie dialettali l'accesso ai teatri ufficiali, dove potevano agire solo le compagnie che recitavano in lingua. Questo perché il Fascismo perseguiva il pensiero unico e l'immagine di un'Italia in cammino verso magnifiche sorti progressive. Le compagnie dialettali, come quella dei De Filippo, di Raffaele Viviani, di Giovanni Grasso, invece mettevano in scena personaggi cenciosi e affamati, mostrando la povertà, la miseria e l'ingiustizia che c'erano dietro la facciata del regime.

 

Malvolio: Ma cosa c'entra con oggi? Il teatro di ricerca, che le piace tanto, parla forse in dialetto?

 

Civica: Certamente. Il teatro italiano più vivo, più in contatto con i problemi reali dell'oggi, ha sempre parlato in dialetto. Naturalmente non intendo il "dialetto" nel senso della parlata vernacolare, ma nel senso di "idioletto". Sto parlando ciò di artisti che, partendo da se stessi, dalle propria esperienza e dalla realtà regionale e locale in cui vivono, riescono a trasportare su di un piano universale, e dunque "in lingua", la testimonianza dei dolori, delle idiosincrasie e dei drammi in cui sono immersi nella loro vita quotidiana. Prenda Eduardo De Filippo, che con Napoli milionaria, spaccato della vita di un “basso” napoletano, è riuscito a dare testimonianza dello stato di prostrazione morale dell'Italia tutta nel dopoguerra.

 

Malvolio: Lei sta parlando sempre del passato. Con Napoli milionaria, di almeno sessant'anni fa!

 

Civica: E i Babilonia Teatro? I loro spettacoli raccontano sempre dell'ambiente in cui vivono, il Veneto. Eppure, partendo da loro stessi, dalla loro regione e dal loro idioletto, testimoniano una situazione di crisi sociale e spirituale che ci accomuna tutti. Solo in questo teatro che io identifico come "dialettale", e cioè non nazionale, non ufficiale e non "in lingua" (anche se il più delle volte parla in lingua!) si ha il coraggio di trattare temi che sono tabù in Italia: il problema della morte, l'isolamento dei poveri e dei malati, il rapporto con Dio, i falsi bisogni indotti dalla globalizzazione, lo smarrimento dei giovani derubati della possibilità di un futuro. Danio Manfredini da Milano, Spiro Scimone da Messina, La Socìetas da Cesena, Babilonia Teatri dal Veneto, Saverio La Ruina da Castrovillari: tutti questi artisti, a partire dalle loro città e dal loro dialetto-idioletto, sono tra i pochi che hanno qualcosa da dire di importante a tutti noi.

 

Spiro Scimone, Giu, regia di Francesco Sframeli, ph. Andrea Coclite

 

Malvolio: E perché dice che la riforma teatrale vuole vietare il loro "dialetto"?

 

Civica: Non lo vuole vietare, ma ne rende difficile la vita. Se, come ho già detto, i Teatri Nazionali devono produrre un tipo di spettacolo adatto per un pubblico potenziale di mille spettatori a sera, se non possono produrre, per legge, le compagnie finanziate di ricerca, se a queste ultime non conviene essere prodotte dai TRIC e se la distribuzione dei loro spettacoli sarà resa molto difficile, da tutto questo non risulta che, nei fatti, la riforma "vieta il dialetto"? Guardi, questa riforma è la sconfitta di un'idea di teatro che si era tentato di costruire dagli anni settanta in poi.

 

Malvolio: Quale idea di Teatro?

 

Civica: Quella di una teatralità diffusa, delle residenze teatrali, dei piccoli teatri sparsi per l'Italia che lavoravano in contatto col territorio e che portavano nei paesini più piccoli le compagnie più vive. Il teatro come un servizio pubblico diffuso capillarmente. L'attuale riforma sancisce la sconfitta dei piccoli teatri, affermando che ha diritto di finanziamento pubblico solo il Grande Teatro, quello delle città, mainstream, innocuo e con una spruzzata di cultura libresca. E le piccole compagnie si stanno convincendo che, senza i mezzi del Grande Teatro, non hanno la possibilità di lavorare. Ci stiamo convincendo che o il teatro è ricco, o non è teatro. Noi, che leggevamo emozionati Per un teatro povero! Mi scappa una citazione, me la lasci fare, perché chiarisce quello che sto provando a dire…

 

Malvolio: Se proprio le scappa...

 

Civica: È una pensiero di Ludwik Flaszen, del 1975: "Oggi sembra che la qualità più alta nel teatro sia quella dell'ingigantire: produzioni prolungate nel tempo ed estese nello spazio, con abbondanza di luci e macchinari. Il sogno di una tale produzione è un enorme edificio, l'opera in pompa magna, una macchina per l'amplificazione. Le idee guida qui sono le categorie del potere, l'efficacia dell'autorità e l'opulenza. La necessità dell'imponenza: il teatro imperiale, Théâtre du Prince. Un Pompiérisme, vale a dire uno stile pomposo, prossimo all'avanguardia, trattato allo stesso modo. O, per essere precisi, un post-Pompiérisme, una post-avanguardia. O addirittura un Pompiérisme rimodernato, l'avanguardia mischiata con il Pompiérisme. Oggi i piccoli teatri e le piccole compagnie si sentono in colpa perché sono piccoli. Proprio come negli anni Sessanta si sentivano in colpa i grandi teatri e le grandi compagnie, per il fatto di essere grandi. Oggi - il teatro del Principe, o un qualsiasi altro teatro in cui il pubblico di massa è principe - si prostrano al cospetto del dio dell'amplificazione e dello sfarzo più sfrenato. Così tutto sembra ritornare alla normalità. Forse è normale per il teatro cercare l'amplificazione attraverso le Autorità e i Poteri secolari? E forse il teatro degli anni Sessanta praticava un gioco disonesto fatto d'ipocrisia, quando pretendeva di non occuparsi del potere, bensì della celebrazione delle virtù opposte: la vulnerabilità, l'umiltà, l'attenzione alle piccole cose?".

 

Spero che sia ormai chiaro anche a un bambino che, in ambito teatrale, quando uso il termine “dialetto” io lo intendo come sinonimo di “diversità”. La riforma teatrale mette all'angolo le diversità. Pretende che solo “il teatro della lingua ufficiale” abbia diritto d'esistenza, o, meglio, che sia il solo ad avere diritto ai finanziamenti. Tutto questo in nome delle presunte esigenze di un pubblico di massa la cui stessa esistenza, temo, sia solo “presunta”.

 

Malvolio: Che intende dire?

 

Civica: Le farò rispondere da Nicola Chiaromonte: "Oggi come oggi, il teatro, da noi, non ha delle tradizioni, ma solo delle abitudini. E sono cattive abitudini. La peggiore di tali abitudini - che è anche la più antiquata - è quella di non concepire, in fondo, che un tipo di rappresentazione teatrale: quella 'a grande spettacolo', o per la messinscena, o per il nome del regista, o per la fama dell'attore, o per tutte queste cose insieme (che è l'ideale supremo). Chi non può ottenere questo, si sente miserabile e vergognoso, e cerca di ottenerne almeno un po': in ogni caso, la forma esteriore è la preoccupazione dominante. Teatro grande, messinscena costosa, e recitazione di tipo unico, adatta ad un pubblico idealmente numeroso quanto amorfo: si può ben dire tale è la misura di quasi tutti gli spettacoli teatrali, in Italia. E questo perché i nostri teatranti lavorano in funzione del pubblico borghese dell'Ottocento, quello che andava a teatro quando non c'erano il cinema, la radio, la televisione e gli stadi, e al quale bisognava fornire divertimento sicuro in cambio di soldi sicuri, adattandosi ai suoi gusti, oppure sopraffacendolo con lo sfarzo, i grandi nomi e le stranezze interpretative di un regista ‘di genio’. Tutti, anche i piccoli e modesti, subiscono il prestigio di questo mito. Giacché, evidentemente, si tratta di un mito. Un tale pubblico non esiste più. E allora perché strutturare ogni produzione teatrale di oggi per questo pubblico 'assente'?". È un articolo del 1964: fa impressione, no?

 

Malvoglio: Però la riforma ha una cosa buona: i direttori dei Teatri Nazionali e dei TRIC, qualora fossero dei registi, non potranno più produrre propri spettacoli nei teatri che dirigono. Che ne dice?

 

Civica: Dico che è una cosa ottima, ma dico anche che siamo in Italia, dove non c'è mai stata penuria di una categoria di persone.

 

Malvoglio: Quali persone?

 

Civica: I prestanome. Ha notato che i teatri si stanno dotando di nuovi direttori artistici? Io credo che questi nuovi direttori, sconosciuti ai più, non avranno problemi, né di legge né di coscienza, a produrre tutti gli spettacoli del regista che, prima della riforma, li ha preceduti alla guida del teatro. 

 

Malvoglio: Per lei quindi non c'era bisogno della riforma, andava tutto bene così come era prima?

 

Civica: Assolutamente no.

 

Malvoglio: E allora cosa bisogna fare?

 

Civica: Fatta l'Italia, non resta che fare gli Italiani.

 

Malvoglio: Che vuol dire?

 

Civica: Vede, in Italia, invece di far rispettare le leggi vigenti, quando gli sprechi, il malaffare e le ruberie hanno creato una situazione non più gestibile, si fa un bel condono o una bella riforma, e si riparte da zero. Tutto come prima, ma con una pagina bianca da imbrattare. Noi siamo il paese di un perenne new deal che non viene mai messo alla prova, o perché le sue norme non vengono fatte rispettare, o perché si fanno valere eccezioni e proroghe o perché, fatta la legge, trovato l'inganno. 

 

Malvoglio: E qual è la soluzione?

 

Civica: Bisogna aver chiaro che il problema non è nello strumento, ma in come lo si usa. Con un martello posso piantare un chiodo, ma anche ammazzare una persona. Il martello serve per piantare chiodi, se viene usato in un altro modo di chi è la colpa?

 

Malvoglio: Di chi lo usa?

 

Civica: Bravo! Non avevamo bisogno di cambiare la legge sul teatro, dovevamo far rispettare quelle vigenti. Il Ministero non doveva fare una riforma, ma mandare i suoi ispettori in giro a far rispettare le leggi e a togliere i finanziamenti a chi non le rispettava, a chi usava il teatro di cui era direttore in modo improprio e, il più delle volte, criminoso. Gli statuti dei Teatri Stabili, dei Centri di Ricerca, ecc. sono ottimi, non c'era bisogno di riformare la vecchia normativa, perché nel merito della lettera e degli intendimenti, quella normativa era ottima. Non c'è bisogno di una nuova società civile, ma di sentirsi parte della società civile: è per questo che gran parte della colpa ricade non solo sul Ministero, ma soprattutto su noi teatranti, sui critici, sulla gente di teatro...

 

Malvoglio: Perché questo atto di autoaccusa?

 

Civica: Perché il Ministero può essere parzialmente scusato dal fatto che i suoi strumenti di controllo non sono ottimali. I teatri vengono valutati con parametri principalmente numerici: tot numero di spettacoli ospitati, tot numero di repliche delle nuove produzioni ecc. E si sa che, se c'è una cosa che i ladri sanno fare bene, sono i conti.

 

Malvoglio: Però so che, una parte della valutazione, riguarda la qualità artistica della proposta...

 

Civica: Sì, nel migliore dei casi, la valutazione artistica incide per un 30% del punteggio totale che il Ministero assegna a un teatro. Ma esistono parametri oggettivi per giudicare la qualità artistica di una proposta? Quello che io reputo uno spettacolo artisticamente rilevante, per lei potrebbe essere una schifezza. Quindi il Ministero, un po' lavandosene le mani come Pilato, stabilisce dei parametri di legge per la "qualità". Ad esempio fa qualità impiegare attori sotto i 35 anni, mettere in scena opere di giovani drammaturghi italiani e produrre uno spettacolo multimediale (il che si riduce, in genere, a proiettare un paio di video, a usare una colonna sonora con "rumore bianco" e un microfono che distorce la voce). Ecco perché ultimamente tanti registi sono così vogliosi di lavorare con i giovani e di farci conoscere la nuova drammaturgia italiana. Il problema, come vede, è che nessuno è obbligato ad assumersi la responsabilità di giudicare qual è un teatro vivo e quale uno "morto ".

 

Malvoglio: Mi sembra che non se ne esca...

 

Civica: Io avrei una modesta proposta...

 

Malvoglio: Cosa aspetta a enunciarla?

 

Civica: Bisogna partire da un esame di coscienza. Io personalmente mi sento colluso e in colpa. Ho fatto la fila, per chiedere dei soldi per un mio spettacolo, davanti alla porta di Direttori Artistici che gestivano il proprio teatro in maniera clientelare. Ho accettato di andare a incasso in teatri che consideravano il finanziamento ministeriale “cosa loro”. Mi spiego: andando in questi teatri a incasso, o accettando cachet ridicoli, ho permesso che questi teatri avessero i borderò per il ministero senza ridistribuire i soldi del ministero alle compagnie. Si tenevano quei soldi per sé, era il “loro guadagno”. Davanti poi a spettacoli oggettivamente brutti, ho detto che erano interessanti, perché i registi di quegli spettacoli erano anche i direttori di teatri in cui io volevo andare con le mie produzioni. Ho continuamente rinunciato al mio giudizio e alle mie convinzioni di artista perché “bisogna saper stare al mondo”. Ma ho capito che umiliarsi, essere diplomatici, lusingare i potenti non serve a niente, perché il tuo atto di genuflessione è da questi dato per scontato, e quindi non dà titoli di merito ai loro occhi. Il teatro è fatto o per passione o per soldi e potere. E chi lo fa per soldi e potere sa benissimo che la tua passione ti farà accettare ogni angheria e compromesso, e se ne serve contro di te.

 

Malvoglio: Ma qual è la sua modesta proposta?

 

Civica: Di adottare, in maniera intransigente, un atteggiamento morale. Di denunciare chi antepone i propri interessi e il proprio tornaconto al teatro. Di non accettare più compromessi, anche a costo di smettere di fare teatro. Che senso ha stare nel teatro se non si può fare il proprio teatro? La situazione è talmente tragica, che non c’è più nulla da perdere a comportarsi onestamente e secondo coscienza. Perché, quello che rischiavamo di perdere, l’abbiamo già perso. La mia modesta proposta è tutta qui: ognuno segua la propria coscienza e si faccia difensore della propria morale, se non di uomo, almeno di artista.

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