Le apocalissi di Spregelburd
Sarà per quella pioggia che scende ormai da giorni e che tutto allaga; sarà perché non c’è nessuna arca pronta a salvare il Belpaese che smotta e perché la fragile intercapedine del tetto del teatro durante lo spettacolo non ci fa dimenticare quel continuo stillare da Diluvio Universale; sarà per questo, e per altro, che Rafael Spregelburd nel teatro italiano, tra quest’acqua incessante che trasforma tutto in palude, fa l’effetto di un fuoco incendiario.
Lo scrittore e regista argentino non ha niente del nichilista russo e neppure del rivoluzionario nostrano d’antan: appicca fiamme mentali costruendo bombe teatrali a orologeria, che ti catturano con un’invenzione subito evidente, ti distraggono in un apparente clima di innocua conversazione borghese, magari con qualche pizzico di accento da moralista classico con spruzzate di umorismo sudamericano, e stritolano per slittamenti continui i cliché nei quali ci culla la società dell’informazione e dello spettacolo.
Roberto Canziani, in una bella presentazione del suo Furia avicola su un quotidiano, racconta che Spregelburd è un patito di Mandelbrot, quel signore che si annoiava a studiare le proprietà del triangolo, del quadrato, del cerchio, “perché capiva che la vita non si esprime attraverso forme regolari e tranquillizzanti”, e amava molto di più analizzare “una pianta che cresce, un fiume che straripa” perché “solo nell’irregolarità, nell’imprevedibilità, nel caos, si manifesta la vita”.
Fine del mondo
Con lo spettacolo prodotto dal Css di Udine entriamo nelle apocalissi del nostro quotidiano inquinato, con apologhi irresistibili sulla fine dell’arte, sulla fine della realtà, sulla fine del valore del denaro. Questo “Pinter tropicale”, come lo ha definito la sua traduttrice Manuela Cherubini, ha qualcosa del genio contemporaneo e barocco di Bolaño. Si è fatto conoscere in Italia per la sua scrittura, densa, labirintica, scorticante, divertente, realista e paradossale, con la pubblicazione della famosa Eptalogia ispirata ai sette vizi capitali raffigurati da Hieromynus Bosch (Ubulibri). Ha incuriosito con Bizarra, una teatro-novela con cinquanta attori rappresentata per varie sere a Napoli e a Roma nel 2010. È esploso grazie a due regie di Luca Ronconi, in particolare quella di Panico, che ha fatto l’anno scorso incetta di premi Ubu.
A Udine è stato chiamato per allestire Furia avicola, un’ora e quaranta di invenzioni ad altissima tensione, che allinea un breve atto unico e una parte di un’altra opera più ampia, divisi da un intermezzo, con la regia dell’autore e di Manuela Cherubini. E già la natura eterogenea della serata testimonia un metodo che parte dal pastiche postmoderno per arrivare a esiti dirompenti. La società dell’interconnessione, della virtualità e della dislocazione continua in qualche altrove. Spregelburd la traduce in meccanismi teatrali alle soglie dell’assurdo, che catapultano in abissi esistenziali e filosofici usando solo pochi elementi, in uno spazio che con la sua nudità evoca i vuoti su cui viviamo.
Furia avicola
Il titolo, Furia avicola, richiama esplicitamente un video gioco, Angry Birds, una guerra di uccelli infuriati contro maialini che gli hanno rubato le uova. E rimanda esplicitamente nella pièce anche alla febbre aviaria, che terrorizzò il mondo soprattutto sui media, con meno pericolo reale di una normale influenza. Non è citato un altro titolo che viene alla mente, Gli uccelli di Hitchcock, con la sua ansiogena invasione del mondo da parte di quegli alieni pennuti che vivono quotidianamente tra di noi e che ogni tanto ci danno qualche segno di possibile insofferenza, come il corvo e il gabbiano che hanno assalito la colomba papale (ma anche lì: la foto rilanciata da tutti i giornali mostra un agguato all’ultimo sangue, il video un molto più sfumato “incidente aereo”).
In scena si susseguono tre storie. Quella di un’anziana signora che, stufa dello stato di abbandono e degrado dell’affresco di un Ecce homo nella sua chiesa nei dintorni di Saragozza, lo ha restaurato a suo modo, scatenando una discussione sui media se abbia rovinato un pezzo di memoria trasformando il Cristo in una figura che sembra una scimmia o se abbia creato un’opera fuori dei canoni, tra l’iconoclastia e l’Art brut. Tutto si trasferisce poi in un salotto parigino, con due critici che discettano amabilmente e parecchio nevroticamente sui confini dell’arte, finché la donna, approfittando dell’assenza del suo interlocutore, che si insinua abbia un interesse per i ragazzini, non si infila sotto la veste, tra le gambe, una delle due candele del tavolo, e poi sembra rovesciare le idee appena professate per bocciare una studentessa portoghese che ha presentato una tesi sul caso dell’avventato restauro.
Mentre si viene a sapere che l’anziana signora Gimenez, autrice Cristo-scimmia, ha registrato il marchio della sua ri-creazione, per ottenere opportuni diritti d’autore. Slittamenti continui, propiziati dalla sfiducia nel linguaggio (nel discorso tra colleghi, la donna ripete: sono belga, forse con te francese non ci capiamo per questo), ritraggono un balletto di svuotamento di senso intellettuale, in cui la comunicazione è muro che divide anche quando si parla la stessa lingua e addirittura lo stesso gergo. E l’umanità si rifugia in una candela introdotta nelle parti intime, nello sguardo ferito della studentessa alla quale si è fatto credere che tutto è possibile e nel vociare del padre straniero che l’avrebbe voluta odontoiatra.
Storie dentro storie. L’intermezzo è un’esilarante traduzione di una conferenza in lingua straniera in un italiano centro-italico burino. I cinque interpreti sono schierati su sedie in proscenio: due parlano, una traduce, un altro, un figlio dei fiori fuori tempo massimo, parla al telefono con la madre, la quinta canta una nenia lontana che sembra smuoverle le viscere. La conferenza racconta la guerra degli uccelli, Angry Birds, con effetti di devastante comicità nel concerto delle parti e nella seriosità sbilenca nell’illustrare un videogioco tra il truce il divertente e il trash.
Ma la follia arriva nella scena finale, con un ufficio vuoto, con scaffali vuoti, che un personaggio svuota continuamente trasportando invisibili scartafacci per eliminarli, mentre tra gli altri emergono nevrosi e attese, con voci narranti che esplicitano ciò che è già evidente, e un’utente che arriva per chiedere qualcosa e rimane continuamente senza parola. Attraverso le vicende di un cappotto usato rivenduto, ricomprato, rivalorizzato, che si potrebbe di nuovo rivendere, svalutandolo e rivalutandolo da straccio a oggetto vintage, dopo aver delineato solitudini, complessi, abissi (anche qui con qualche ombra di pedofilia latente), si ridicolizza l’assenza di valore di un denaro che comunque tiene in scacco. Tutto è vuoto. Il deficit che si mette in scena, in modo irresistibile e doloroso, è un’assenza di umanità che evoca incendi di scartafacci e di uffici pubblici, in questa burocrazia che si autoalimenta, si difende, offende, che con niente erige fortificazioni invalicabili.
Dai confini
Spregelburd è argentino, e dice che la crisi è una condizione perenne e l’idea che siamo sull’orlo di un’apocalisse è un alibi per chi vuole che nulla cambi, per continuare avvolti tra regole di controllo delle menti e delle vite, in un mondo in cui tutto è prêt-à-porter, l’arte, il valore incarnato nel sempre più volatile denaro, il marchio del genio, e tutto sfuma nell’inumano. Il suo teatro, con il grottesco quotidiano, cerca scintille di bellezza sotto quel muro che ci separa dalla vita vera e che chiamiamo linguaggio, comunicazione.
Furia avicola è un gioiello voluto da un teatro che sta sui confini, il Css di Udine, che lo ha presentato per tre giorni al teatro San Giorgio, riunendo cinque attori che avevano partecipato, in anni differenti, a quel laboratorio di confronto con maestri europei che è l’École des maîtres fondata da Franco Quadri e sostenuta dal Css – Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia. Spregelburd vi ha insegnato nel 2012 e sviluppando idee accennate in quella sede pedagogica è nato questo lavoro.
Gli interpreti sono semplicemente perfetti, capaci di prendere dall’esterno le nevrosi dei loro personaggi e di dargli profondità senza mai confondersi con loro e senza neppure perdersi sopra le righe del concettuale. Rita Brütt è la studentessa bocciata e la frustrata utente del folle ufficio, un’apparizione simile a un fantasma, a un’Ofelia smarrita. Come lei portoghese, Amândio Pinheiro è il padre, uno dei relatori nell’intermezzo e il torbido e normalissimo capufficio. Fabrizio Lombardo e Laura Nardi passano dai toni nevrotici trattenuti dei critici d’arte, alla super efficienza di impiegati danzanti un grottesco gioco al massacro in forma di balletto. Deniz Ozdogan è stupenda nella Belem dell’ultimo episodio, piccola impiegata belloccia che dimostra la volatilità del valore nella società post-crisi. E quando si perde nella nenia dell’intermezzo, con la sua voce allenata sulle melopee turche rapisce. Cinque caratteristi dell’anima paracadutati nel deserto del virtuale.
Purtroppo lo spettacolo, in questa stagione, si è visto solo per tre sere. Sarà ripreso? Gli sprechi del teatro italiano sono ormai insostenibili. Spregelburd nell’incontro pubblico che ha tenuto, raccontava il teatro di Buenos Aires, con centinaia di spettacoli in scena tutte le sere, con lavori in cartellone per due, tre anni, con un’attività indipendente delle compagnie che provano per mesi e replicano due, tre volte, ogni fine settimana, a lungo. Un paese dove lo stato non finanzia, ma non fa neppure pagare le tasse ai teatranti. Dove gli attori spesso fanno altri lavori, per garantirsi l’autonomia creativa. Scene dalla fine del mondo?