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Verso Paradiso / Dante: dal ghiaccio infernale al «caldo amore»

28 Aprile 2021

Dobbiamo ancora diventare contemporanei del Paradiso di Dante! Sembra paradossale, ma è così: infatti il Paradiso è complessivamente la cantica meno “ricevuta” e conosciuta a livello popolare, come anche scolastico, in una piuttosto standardizzata classifica che passa dall’entusiasmo per l’Inferno, alla tiepidezza per il Purgatorio fino ad un certo distacco dal viaggio paradisiaco. Ma anche nella ricezione di molti grandi scrittori, il Paradiso “latita”. Si pensi a Pasolini, a Primo Levi, a Edoardo Sanguineti, dove, pure in modi diversi, è il Dante infernale al centro, senza dimenticare il Dante “petroso” di molto Montale. Anche “dantisti” stranieri di altissima levatura come Joyce e Beckett privilegiano, per tante ragioni, soprattutto le prime due cantiche o un approccio soprattutto parodico alla Borges. Naturalmente ci sono eccezioni: certi passi eliotiani dei Quattro Quartetti, alcuni Cantos poundiani, la luce flagrante dell’ultimo Luzi, il cimento di Giovanni Giudici per mettere in scena la terza cantica. Al di là di questo del tutto incompleto censimento, la luce, l’ardore, la «mente innamorata» che intridono il Paradiso attendono ancora di essere pienamente gustati e vissuti. Anche per questo è preziosa la sfida di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari, anime del Teatro delle Albe di Ravenna, di condurre a termine per l’anno prossimo la traversata teatrale della Commedia e di restituire «scintille» del genio paradisiaco a tutti, dotti e semplici, nello spirito che li ha guidati già con Inferno e Purgatorio: restando cioè fedeli a parti scelte del testo, ma dall’altra proponendo una lettura attualizzante e “militante”, come faceva il Poeta stesso, sempre teso ad interpellare i testi antichi, come ombra portata sulle domande e le esigenze del presente.

 

I motivi della difficile ricezione paradisiaca sono complessi e vari. Ne accenno qui solo alcuni “storici” e legati allo “spirito del nostro tempo”: non si entra nel Paradiso senza una qualche considerazione della mistica, che però è realtà misconosciuta e minoritaria, anche nella tradizione cristiana. In più la modernità secentesca ha costruito la sua antropologia sul cogito cartesiano e sulla matematizzazione della realtà. Sia chiaro: la mistica di Dante non è irrazionale, e mai svaluta il logos. L’uomo però non è solo Virgilio, ma anche Beatrice e Bernardo. Da ultimo il nostro tempo, nel suo mainstream, è lontanissimo da questa idea di un uomo capax Dei. Il capitalocene odierno lavora piuttosto su un tragico riduzionismo antropologico, quello di un homo miserabilis se non miserrimus, consumens, cosificato e mercificato. Marcuse parlava di uomo ad una dimensione. Forse sempre più dobbiamo denunciare gli esiti di fatto nichilistici e distruttivi di questa figurazione di mondo, che non è solo un sistema economico, ma un’intera rimappatura della vita all’insegna del denaro e del mercato totalizzato: vita che, non a caso, è appunto «smarrita».

Per arrivare a gustare qualcosa del Paradiso, partirò da due “immagini”, una infernale e una purgatoriale, per poi immergerci nel «gran mar de l’essere» del terzo regno. 

Quando giungiamo nel fondo dell’abisso, nell’anus mundi, ci troviamo dentro un paesaggio spaventoso e insieme di incredibile potenza simbolica:

 

Già era, e con paura il metto in metro,

dove l'ombre tutte eran coperte,

 e trasparien come festuca in vetro.

Altre sono a giacere; altre stanno erte,

quella col capo e quella con le piante;

altra, com'arco, il volto a' piè rinverte (If XXXIV, 10-15)

 

Il cuore dell’Inferno non è fuoco, ma ghiaccio, ghiaccio del Cocito e soprattutto ghiaccio dell’odio, dell’incompiutezza, della disumanizzazione, della morte relazionale, del desiderio spento, dell’uomo fallito come «compagnevole animale». Criogenato lì dentro, ecco ciò che resta dell’umano, ridotto a «festuca» (pagliuzza), a pezzo, a “impetrata” e muta insignificanza, mentre la grande macchina sacrificale luciferina tutto sussume e raggela, impersonalmente. L’immaginazione creatrice dantesca dice una deriva antropologica spesso realizzata in momenti bui della storia, specie in certi abissi del “secolo breve” e in alcuni scorci pure molto inquietanti del XXI secolo.

Ma usciamo «a riveder le stelle», ed entriamo nel sentire purgatoriale, che è un’altra figurazione dell’uomo, come di Dio e del cosmo:

 

Dolce color d'oriental zaffiro,

che s'accoglieva nel sereno aspetto

del mezzo, puro infino al primo giro,

a li occhi miei ricominciò diletto,

tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta

che m'avea contristati li occhi e 'l petto.

Lo bel pianeto che d'amar conforta

faceva tutto rider l'oriente,

velando i Pesci ch'erano in sua scorta (Pg I, 13-21)

 

Tutto rinasce e risorge qui, in un risveglio interiore, naturale e spirituale, che ridà «diletto» agli occhi, esodo dall’«aura morta» per un soffio di altra qualità. Si intravede la stella Venere che invita ad amare. Inizia il disgelo del cammino che permetterà il recupero di un «libero, dritto e sano […] arbitrio» (Pg XXVII, 140). La sclerocardia infernale si sfa, come Dante canta splendidamente nel rincontro difficile ma intensissimo con Beatrice: «lo gel che m'era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia /de la bocca e de li occhi uscì del petto» (Pg XXX, 97-99). L’uomo torna umano e lo diventa, in una relazione sempre più intensa con tutte le dimensioni della realtà.

Adesso forse possiamo meglio esperire “lo spirito del Paradiso” e alcune sue straordinarie immagini: la prima relativa alle vicissitudini di Traiano e la seconda con Piccarda protagonista.

 

L' anima gloriosa [Traiano] onde si parla,

tornata ne la carne, in che fu poco,

credette in lui che potea aiutarla;

credendo s'accese in tanto foco

di vero amor, ch'a la morte seconda

degna di venire a questo gioco (Pd XX,112-117)

 

Con quelle altr' ombre pria sorrise un poco;

da indi mi rispuose tanto lieta,

ch'arder parea d'amor nel primo foco (Pd III, 67-69).

 

(Corsivi di G. V.)

 

Ecco com’è nuova la poesia paradisiaca, ecco come è mutato lo stato di coscienza, non più infernale, petrosamente ghiacciato, non più neppure di purgatoriale disgelo “primaverile” e venusiano, ecco com’è diversa l’antropologia della terza cantica, e lo sguardo che pone su tutta la realtà. Questa energia danzante di ardore, di «caldo amor(e)» (Pd XII, 79; XX, 95), di luce, di bellezza, di gioco, di verità, questa «gloria di colui che tutto move», questo «amor che move il sole e l’altre stelle», pervade, in modi più o meno fulgenti, tutta l’atmosfera paradisiaca. Raggia dai beati, da Beatrice e avvolge Dante stesso, nel finale della cantica uomo di luce (Pd XXX, 46ss.).

Non solo la poesia del Paradiso non è esangue, statica, ma piuttosto fiammante, infuocata di eros e agape insieme, dove la carne è sì spiritualizzata, ma mai perduta, piuttosto assunta e portata a compimento, in trasfigurata ma possibile realtà: Traiano tutto «s’accese di tanto foco / di vero amor», Piccarda «arder parea d’amor nel primo foco», e puoi leggere il mirabile endecasillabo sentendo Piccarda rilucere nella potenza amante dello Spirito Santo, «primo foco» increato che tutto pervade, infondendo viriditas, direbbe Ildegarda di Bingen, ma anche nella bellezza e nell’emozione del primo innamoramento. Amore divino e umano nel Paradiso finalmente non si contrappongono più, ma sono interrelazionati: il primo alimenta il secondo, il secondo lo manifesta qui, nella compagnia degli uomini, delle donne e della creazione.

L’incompletezza raggelante dell’Inferno, il cammino di liberazione purgatoriale si compiono nell’eterno «gioco» paradisiaco, una esperienza piena della vita, traboccante e abbondante fin dai versi celeberrimi dell’incipit:

 

 

La gloria di colui che tutto move 

per l’universo penetra, e risplende 

in una parte più e meno altrove (Pd I, 1-3)

 

Quella cantata qui infatti è l’esperienza della Vita, della «nostra vita», della Vita grande, che non muore, di cui siamo «vasi», epifanie, diafanie, cristofanie, se ci accorgiamo, ci risvegliamo, ci mettiamo in viaggio, per ritornare alla nostra origine, alla nostra vera natura, che per il Poeta è cristica. Non solo al centro della croce luminosa del cielo di Marte, ma ovunque nel poema lampeggia il mistero divino-umano cristico, che tutti attira a sé, credenti e non credenti, cristiani e uomini di altre religioni (che non devono naturalmente chiamarlo con questo nome):

 

Qui vince la memoria mia lo 'ngegno;

ché quella croce lampeggiava Cristo,

 sì ch'io non so trovare essempro degno (Pd XIV, 103-105)

 

Ancora, con il grande teologo indocatalano Raimon Panikkar, potremmo dire che esperiamo nel Paradiso la vita e la mistica cosmoteandrica, dove il mistero di infinitudine che alcuni chiamano Dio (theos), ma che pure ha altri nomi, la dimensione umana e di coscienza (anèr) e quella cosmica, materiale, della natura (kosmos) rifulgono intrecciati insieme, certo gerarchicamente, in ordine sacro, ma non l’uno senza l’altro. È anche questo il mistero triadico e trinitario che pervade tutta la Commedia e che nella terza cantica si rivela nel suo splendore vivente. 

Quella del Paradiso non è «vita bestiale», «cieca vita», nè vita solo biologica, «nuda vita», per dirla con Agamben, ma è «vera vita» (Pd XXXII, 59), «intera vita» (Pd VII, 104), da cantare così:

 

Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! 

oh vita intègra d’amore e di pace! 

oh sanza brama sicura ricchezza! (Pd XXVII, 7-9).

 

Questa pienezza non è riservata a pochi gnostici ma, potenzialmente, all’umanità tutta, che Dante rappresenta in quanto everyman, fin dall’incipit del poema. Egli è sicuramente se stesso, ma pure tutti noi. Naturalmente tutto comincia per grazia, per dono, ma richiede pure impegno e sforzo, per discendere agli inferi personali e collettivi, risalire nella liberazione-trasformazione purgatoriale, e alla fine entrare in questo misterioso stato unitivo, aduale, di pienezza, dove la divinizzazione dell’uomo dice in primis la sua incarnazione umana feconda, amante, conoscente e virtuosa.

Per quanto il linguaggio di Dante sia maggioritariamente cristico (più che cristiano), ma pure aperto a tutte le sapienze a lui conosciute (quella pagana in primis), la mistica paradisaca non è appannaggio di una religione o di una confessione. «Le religioni non hanno il monopolio del religioso», ricordava spesso ancora Panikkar. Quello di Dante è soprattutto un magnifico invito al viaggio. Entra nel mistero che ti inabita e che tutto pervade. Coltiva la tua vita interiore, fai esperienza della sapienza. Questa mistica è una sorta di “diritto umano” di nuova generazione. E di essa abbiamo più che mai bisogno oggi, in tempi di evidente selva oscura, dove serve un «mi ritrovai» di cambiamento e di nuova immaginazione.

Dante sembra anche ricordarci che faville mistiche sono presenti in molte esperienze umane: nell’innamoramento, nell’estasi di fronte alla natura e al suo misterioso ordine, cantati in Paradiso I, e forse in certi istanti vissuti nell’infanzia, da ritrovare adesso con nuova e cosciente innocenza. Così anche il Poeta alla fine del viaggio diventa evangelicamente bambino ed entra nel regno, non solo dopo la morte, ma ora, in questo momento, sub specie tempiternitatis:

 

Omai sarà più corta mia favella, 

pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante 

che bagni ancor la lingua a la mammella (Pd XXXIII, 106-108)

 

Questi attimi escronici, ma pure radicati nel tempo, queste epifanie, questi ricordi di sé, questi moments of being raccontano anche la gioia rara ma possibile dell’intimità profonda: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii (Pd IX, 81), cioè se io fossi capace di entrare in te, di “intuarmi” come tu entri in me, ti “inmii”, dice il Poeta con continua invenzione neologistica.

Anche il rapporto d’amore uomo-donna, paradigma simbolico di ogni altra relazione innamorata, trova nel Paradiso il suo inveramento. La mistica dantesca non è celibataria, ma laica e secolare, e non a caso il trasumanar del Poeta è vissuto guardando negli occhi l’amata Beatrice, per poi levarsi con lei, tutta donna, tutta iniziatrice, tutta dea e tutta simbolo, di cielo in cielo, chagallianamente:

 

Beatrice tutta ne l'etterne rote

fissa con li occhi stava; e io in lei

le luci fissi, di là sù rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,

qual si fé Glauco nel gustar de l'erba

che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba

non si poria; però l'essemplo basti

a cui esperienza grazia serba (Pd I, 64-72).

 

Impossibile commentare la ricchezza di questi versi, che si nutrono della Trasfigurazione taborica del Cristo, rivissuta in Beatrice, “crista personale” del Poeta, ma fanno ricorso pure al mito classico, vaso anch’esso di luccicanze del mistero. E necessaria è l’esperienza, vissuta nella grazia e nel cammino col corpo, che nella mistica dantesca è dimensione in trasformazione ma definitiva.

Ancora: mai la spiritualità dantesca è fuga mundi o intimismo, quanto piuttosto una mistica critico-politica in forma di poesia. Il nesso interiore e quello civile per noi sono infranti, sconnessi, ed è quasi un “nonpensabile” questa circolazione costitutiva invece della poesia dantesca. Il diventare sempre più reali, umani e pieni significa per Dante mai disperdere la dimensione del bene comune, della polis, della giustizia. La felicità dantesca riabita la natura umana nella sua rettitudine originaria, come racconta nei canti del Paradiso Terrestre, ma è sempre anche una felicità politica, che tiene insieme, per così dire, il Giardino e il Regno. Ecco perché, se la superbia apparentemente resta il peccato più grave, invero fin dal I canto dell’Inferno Dante, con grande acutezza e audacia, denuncia come più mortifero il regno della lupa, assato sulla cupiditas e sull’accumulo. E queste aspre invettive impazzano pure in molti canti del Paradiso:

 

Se mala cupidigia altro vi grida, 

uomini siate, e non pecore matte (Pd V, 79-80)

 

La tua città, che di colui è pianta 

che pria volse le spalle al suo fattore 

e di cui è la ’nvidia tanto pianta, 

produce e spande il maladetto fiore 

c’ha disviate le pecore e li agni, 

però che fatto ha lupo del pastore (Pd IX, 127ss)

 

[…] La cieca / cupidigia che v’ammalia 

simili fatti v’ha al fantolino 

che muor per fame e caccia via la

balia» (Pd XXX, 133-141)

 

La mala pianta della cupiditas-accumulo attecchisce ovunque, nell’animo umano in primis, e poi nelle istituzioni stesse: nella Chiesa, nell’Impero, nei comuni ecc. Ma Dante intravvede anche la nascita di un protocapitalismo finanziario e manifatturiero, l’affermarsi di un nuovo paradigma che andrà verso l’economicizzazione della realtà, il culto del denaro (il «maladetto fiore»), la cui devastante pericolosità – per i popoli, per l’equa distribuzione dei beni primi e necessari, per la natura, per l’anima e l’interiorità stessa – oggi vediamo dispiegata al suo concetto.

Anche per questo quindi facciamo fatica a comprendere la poesia del Paradiso, ma pure ne abbiamo sete e ci è più che mai necessaria. Proprio perché la spiritualità dantesca è piena di amore, di ardore e di desiderio forse essa aspetta idealmente soprattutto le nuove generazioni, più capaci di ripensare in modo inedito e meno iniquo il mondo.

 

Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

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