A partire da una riflessione di Todorov / Gli abusi della memoria

27 Gennaio 2019

Nel 1992 Tzvetan Todorov viene invitato dalla Fondazione Auschwitz a Bruxelles a tenere un discorso in occasione del convegno “Storia e memoria dei crimini nazisti”. Lo studioso bulgaro, naturalizzato francese, studioso di letteratura fantastica e di molti altri argomenti, coglie l’occasione per tracciare un bilancio della riflessione in corso sulla memoria. L’anno prima ha pubblicato un libro importante, Di fronte all’estremo (Garzanti), dove ha tracciato un profilo delle testimonianze e delle riflessioni sui Lager nazisti e sui Gulag sovietici, un libro davvero capitale per intensità e chiarezza. 

 

Il titolo che Todorov sceglie è emblematico: Gli abusi della memoria. Diventa ben presto un saggio che circola tra gli studiosi e non solo. Nel 1996 è tradotto anche in italiano (ora lo ristampa Meltemi con il medesimo titolo, a cura di Roberto Revello). Si tratta di uno scritto che mette a fuoco una serie di questioni, tra cui quella della memoria delle vittime, alla quale molti studiosi hanno poi attinto in seguito per ulteriori considerazioni e analisi. Memore probabilmente della sua esperienza bulgara, Todorov esordisce ricordando come i regimi totalitari del XX secolo abbiano manifestato un pericolo sconosciuto nel passato: la cancellazione della memoria. Non che non sia avvenuto in precedenza, poiché ci sono esempi storici di damnatio memoriae negli antichi imperi, compreso quello bizantino di cui c’è traccia nei mosaici di Ravenna. L’oratore di quella giornata a Bruxelles cita una frase emblematica di Himmler a proposito della “soluzione finale”: “Questa è una pagina gloriosa della nostra storia, che non è mai stata scritta e non lo sarà mai”. E di rincalzo un’altra tratta dal più importante libro della seconda metà del XX secolo, I sommersi e i salvati di Primo Levi: “L’intera storia del breve “Reich millenario” può essere letta come una guerra contro la memoria”. Analizza con anticipo di vent’anni quello che ora è una delle evidenze del nostro presente: ogni aspetto della nostra società, compreso il consumo, è sempre più veloce e rapido, a partire dall’informazione. Ci stiamo rapidamente allontanando dalle memorie del passato, afferma, “tagliati fuori dalle nostre tradizioni e abbruttiti dalle esigenze della società edonista, privi di spirito curioso come di familiarità con le grandi opere del passato, saremo condannati a celebrare allegramente l’oblio e ad accontentarci delle vane glorie dell’istante”. 

 

Quel momento è ora arrivato e la memoria è minacciata non tanto dalla cancellazione delle informazioni, ma proprio dal contrario: la sovrabbondanza. Todorov non aveva allora visto sorgere il web.2 e neppure i social network, o le fake news, ma il tema è già ben presente nel suo intervento. Siamo diventati dei volonterosi attivisti dell’oblio, non tanto e non solo nelle dittature, dice; nei regimi democratici, o presunti tali, la meta, insiste, diventa la medesima: cancellare la memoria.

Il discorso di Bruxelles è ampio e complesso; ne estraggo perciò solo due questioni che mi paiono oggi fondamentali nel momento in cui celebriamo nuovamente la Giornata della Memoria. Prima questione: la memoria non è opposta nettamente all’oblio, come si crede comunemente; i due termini in opposizione sono piuttosto la cancellazione (l’oblio) e la conservazione. La memoria include in sé l’oblio ed è il risultato dell’interazione tra le due istanze. La restituzione integrale del passato, come ci fa comprendere il racconto di J.L. Borges, Funes el memorioso, non è possibile, se non come un paradosso. La soluzione più ovvia è la selezione: alcune cose vengono ricordate e altre no; scartati alcuni, i ricordi vengono via via dimenticati totalmente. La memoria umana è ben diversa da quella dei computer, dice Todorov, perché gli uomini ricordano e dimenticano. 

 

Opera di Inka e Niclas Lindergard.


Chi ha letto le pagine iniziali di I sommersi e i salvati ricorderà una frase di Levi che colpisce immediatamente: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei”.  Pronunciata dal testimone dei Lager nazisti per eccellenza l’affermazione fa sobbalzare. Todorov sviluppa questa considerazione nel trattare il tema della memoria delle vittime. Di quale memoria si tratta? Lo studioso differenzia due tipi di memoria: la memoria letterale e la memoria esemplare. Per quanto in seguito abbia ritoccato in parte questa distinzione, si può parlare di “memoria letterale” nel caso di chi ha subito un’ingiustizia, di chi sia stato offeso, e peggio ancora torturato; mentre la “memoria generale” è quella che nasce come istanza generale di giustizia. Quest’ultima rappresenta poi una generalizzazione dell’offesa patita dai singoli, è per questa ragione che s’incarna in una legge impersonale, applicata da giudici anonimi e attuata da giurati nei tribunali che ignorano la persona dell’offensore e dell’offeso. Sono concetti ben presenti a Levi, sui quali egli ritorna nel suo libro in modo complesso e sottile. Todorov nota giustamente come le vittime “soffrono nel vedersi ridotte a una semplice istanza, tra le altre, della stessa regola, mentre la storia che è capitata loro è assolutamente unica”, e possono lamentarsi, come fanno i genitori di bambini violentati o uccisi, del fatto che i criminali sfuggano alla pena suprema, alla pena di morte. Il diritto è generale e non può agire come una forma di vendetta.

 

Questo è esattamente il problema che Levi affronta nel suo ultimo libro pubblicato in vita. Anche se è evidente che sin dal 1947, dall’uscita di Se questo è un uomo, il suo racconto si è mosso tra questi due tipi di memoria: la memoria della vittima e la memoria generale, Levi si è trovato in una doppia condizione: è al tempo stesso oggetto e soggetto della sua testimonianza. Parla della propria esperienza particolare di vittima, ma non vuole essere solo vittima, vuole dare una lettura generale della sua stessa esperienza. Lo sforzo che compie è quello di comprendere, anche se questo, come scrive Todorov in Di fronte all’estremo, lo espone a un rischio molto elevato. Come sottolinea nel suo discorso a Bruxelles, il problema cui si espone la vittima della violenza del Lager è quello di non riuscire a sradicare da sé lo shock doloroso del passato, di restarne avvinto, senza poter addomesticare il sentimento che prova. Il ricordo lo domina e non riesce a elaborare il lutto della perdita, per dirla in termini freudiani. Molti diari o resoconti dei sopravissuti si collocano in questo doloroso versante dell’esperienza post-deportazione. Non si tratta solo di un problema che riguarda i singoli. Anche interi gruppi umani si trovano a fare i conti con un passato che non passa, un passato molto doloroso da rammentare e così anche molto difficile da dimenticare totalmente.  

 

Primo Levi si è trovato a ricostruire il trauma del passato restando in bilico tra le due forme di memoria, perché forte è in lui la necessità di capire, non di giustificare, bensì di ricostruire sino al punto di raggiungere, come nel capitolo “I sommersi e i salvati” di Se questo è un uomo, una definizione dell’esperienza stessa del Lager in termini generali (“un esperimento biologico-sociale”). Tuttavia questa ricostruzione-comprensione non si trasforma in “memoria generale”, perché Levi non si erge a giudice neutrale degli avvenimenti che racconta. Non può farlo perché è una vittima, che quindi resta legata all’esperienza dell’offesa, e insieme non ha lo statuto del giudice neutrale che valuta e giudica in modo distaccato secondo la Legge. Non si erge a giudice, anche quando è a un passo dal giudizio, come nel caso della “zona grigia”. Si arresta consapevole che non può staccarsi da se stesso, dalla propria esperienza, che è per lui la fonte della conoscenza stessa, la molla che lo spinge a capire. È consapevole che il suo “sapere” è legato all’offesa medesima. Una sorta di doppio limite, o di doppio legame: parte dall’offesa, dalla memoria letterale, attraversa il terreno del racconto, transita per la zona della memoria, ma non può diventare quel giudice dell’evento traumatico che dovrebbe essere per diventare portatore di una completa “memoria generale”. Un’esperienza la sua che diventa, anche dinanzi alla onestà intellettuale che possiede, un limite invalicabile. Per quanto ripeta più volte che è stato una vittima, e vittima non lo vuole più essere, non arriva però al giudizio finale. Persino nel caso dei Sonderkommando sospende il giudizio: quegli uomini non si possono giudicare. Lo dice prima di tutto da vittima, oltre che persona che sta riflettendo sul loro terribile destino. Todorov presenta altri due esempi di personalità che sono andate al di là della “memoria letterale”: David Rousset, prigioniero politico a Buchenwald, autore di uno dei primi libri sulla deportazione nazista, critico del sistema concentrazionario del Gulag, e Vassiliij Grossman, il grande scrittore russo ebreo.

 

La seconda questione che Todorov pone è quella del culto della memoria. Non la memoria della deportazione o del genocidio praticato dal nazismo, ma di tutte le forme identitarie che egli vede sorgere agli inizi degli anni Novanta del XX secolo in Europa, e non solo lì. In modo fulminante ricorda una frase pronunciata da Louis Farrakhan, il capo della nazione dell’Islam: “L’olocausto del popolo negro è stato cento volte peggiore dell’olocausto degli ebrei”. Non c’è una gara nel peggio, sembra suggerire Todorov, che scrive una frase emblematica: “C’è sempre qualcuno più vittima degli altri”. 

La questione che pone l’ultima parte del discorso riguarda il titolo stesso della conferenza: l’eccesso di memoria. Si tratta dello stesso problema affrontato da Levi nelle pagine del capitolo “La memoria dell’offesa”. L’intento del chimico torinese non era di criticare la “memoria letterale” delle vittime, bensì quello delle derive della memoria, come le chiama. A Todorov, che vittima non è stato, almeno in modo diretto, interessa invece l’uso strumentale della memoria, persino l’eccesso di memoria che non riesce a trasformarsi in “memoria generale”. “Il culto della memoria – scrive – non serve sempre la giustizia: non è nemmeno favorevole alla memoria stessa”. Vuole intendere che le vittime non debbono restare fissate alla “memoria letterale”. Lo dice in modo efficace verso la fine del suo intervento: “Oggi non ci sono più rastrellamenti di ebrei, né campi di sterminio. Noi dobbiamo tuttavia mantenere viva la memoria del passato: non per chiedere risarcimenti per l’offesa subita, ma per essere attenti a situazioni nuove e tuttavia analoghe. Il razzismo, la xenofobia, l’esclusione che colpiscono gli altri non sono identici a quelli di cinquanta, cento o di duecento anni fa; nondimeno dobbiamo, in nome di questo passato, agire sul presente”. 

 

Lo diceva nel 1992, e c’è stata la guerra fratricida e interreligiosa nella ex Jugoslavia, e ai giorni nostri la strage dei migranti nel Mediterraneo, e altre vicende cui, spesso impotenti o inerti, abbiamo assistito e ancora assistiamo in questi venticinque anni che ci separano dal discorso di Bruxelles. Il suo è perciò un doppio invito: non fissare la memoria su un aspetto letterale, ed evolvere verso la “memoria generale”, come Levi stesso ci ha insegnato pur nella difficoltà a staccarsi da quella letterale che alimenta comunque la sua lettura del potere nel Lager e non solo lì. Quello che Levi ci ha insegnato è la necessità di agire rispetto al razzismo e alla xenofobia in Europa, oggi più di ieri ritornante, come è accaduto negli anni Settanta, quando il neofascismo si è riaffacciato in modo deleterio e pericoloso nel paesaggio dell’Europa scossa dal conflitto sociale e politico. Oggi le cose sono molto diverse, e il fascismo si è travestito di altri abiti e forme, ma è pur sempre presente, come l’antisemitismo strisciante. Il genocidio del popolo ebraico è stato uno dei culmini della damnatio memoriae invocata da Himmler; tuttavia testimoni come Levi l’hanno iscritto con la propria vita ed opera nella memoria della storia umana. Quello che è avvenuto una volta può ripetersi nella medesima forma, e anche in altre diverse. E già si sta ripetendo. 

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