Una corrispondenza etnografica. Primo Levi e Claude Lévi-Strauss

4 Giugno 2015

Febbraio 1985. Nelle librerie esce la prima raccolta di saggi di Primo Levi, un libro multiforme ed errabondo: L’altrui mestiere [Einaudi]. Dalla metà degli anni settanta, Levi aveva preso a scrivere con regolarità sulle colonne della “Stampa”, occupandosi solo in parte di attualità o di temi connessi alla memoria di Auschwitz; altri pezzi sconfinavano in territori diversi ed eterogenei, e furono proprio questi (insieme con alcune collaborazioni al “Giorno” risalenti agli anni sessanta) a confluire ne L’altrui mestiere. Cinquantuno «invasioni di campo», «bracconaggi in distretti di caccia altrui», come li definiva Levi nella premessa; scritti «d’una morale che parte sempre dall’osservazione», avrebbe detto Calvino recensendo la raccolta. Erano saggi che toccavano discipline per cui Levi nutriva da sempre una passione non troppo segreta, e di cui però si sentiva un cultore «disordinato, lacunoso e saputello»: linguistica, zoologia, astronomia, tecnica, letteratura. Le scorribande leviane in ambiti ulteriori riguardano anche, per sua stessa dichiarazione, l’esplorazione dei «legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura»: dunque, potremmo dire con un’unica parola, l’antropologia.

 

Di antropologia, del resto, Primo Levi si è occupato più o meno da sempre. Se questo è un uomo [1947] è da leggersi, oltre che come «il più grande libro di avventure del Novecento» (Scarpa, Leggere in italiano, ricopiare in inglese, in Ann Goldstein e Domenico Scarpa, In un’altra lingua, Einaudi 2015) anche come un testo di antropologico (lo aveva scritto Francesco Remotti in Noi primitivi, lo ha ribadito più recentemente Sergio Luzzatto su «Domenica – Il Sole 24 ore», 26 gennaio 2015). Nella scena della prima e definitiva spoliazione, all’entrata ad Auschwitz, dopo la sottrazione coatta dei propri oggetti, abiti, capelli e peli, Primo Levi scrive: «Più giù di cosi non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero». La perdita dei propri abiti/habits coincide con la perdita della possibilità di comunicare come umani. È la prova che l’«esperimento Auschwitz» non produce campioni di umanità peculiari, essenziali, a grado zero; umani, ad Auschwitz, non si è più. È una tautologia logica, ma non critica: basti pensare a quanto è stato (ed è) in voga l’accostamento tra Auschwitz e lo stato di natura hobbesiano. Neppure è una verità autoevidente: riflessioni diverse, talvolta di segno opposto, provengono da almeno altri tre intellettuali che vissero il Lager: Robert Antelme (La specie umana, 1947 e 1957) e Jean Améry (Intellettuale a Auschwitz, 1966), Bruno Bettelheim (Sopravvivere e altri saggi, 1979). 

 

Ad Auschwitz fu la prima volta che Levi mise in atto una vera e propria osservazione partecipante, con tutti i rischi connessi con l’operazione; rischi poi ripresi e analizzati, quarant’anni dopo, ne I sommersi e i salvati, che in quest’ottica appare anche come un self-interpreting writing (Dan Sperber), una riflessione sul proprio metodo. E in fondo, lo sforzo ossessivo di capire i tedeschi, di penetrarne il pensiero con un insieme di minuzia documentaria e costruzione di exempla letterari, non è molto lontano da certi tentativi di scrittura etnografica (si veda l’analisi di Clifford Geertz Opere e vita: l'antropologo come autore, 1983).

 

Ma c’è almeno un altro libro leviano – oltre, a questo punto, ai tre già citati – in cui Levi insieme si fa etnografo e antropologo: La chiave a stella. A dirlo (anzi a scriverlo), questa volta, è un addetto ai lavori piuttosto autorevole: Claude Lévi-Strauss.

 

Nel 1979, La chiave a stella aveva vinto il Premio Strega e il Premio Bergamo; il libro non era stato accolto bene da una certa parte della sinistra italiana, che nell’elogio al lavoro coglieva una tendenza reazionaria e antilibertaria. Nel 1980 era stata tradotta in francese; Lévi-Strauss, già settantaduenne, all’epoca non lo aveva letto.

 

Nel 1983, Primo Levi ricevette da Einaudi l’incarico di tradurre due opere di Lévi-Strauss, La Via delle maschere e Lo sguardo da lontano. Quest’ultimo era insieme una prosecuzione di Antropologia strutturale II e l’ultima raccolta di saggi prima del congedo dalla vita accademica. A sua volta, conteneva una serie di scorribande: antropologiche, metodologiche, letterarie, musicali, artistiche; Calvino se ne dichiarò entusiasta. A Primo Levi piacque tradurlo: e gli venne l’idea di scrivere all’antropologo, per commentare il libro e insieme suggerire alcuni spunti di riflessione. Alla sua lettera (data 17 gennaio 1984) accluse l’edizione francese de La chiave a stella, alludendo al fatto che due capitoli in particolare (Batter la lastra, Tiresia) gli erano parsi, a posteriori, molto vicini alle idee levistraussiane sull’educazione espresse in Considerazioni ritardatarie sul bambino creativo (saggio incluso in Lo sguardo da lontano).

 

Neanche una settimana e Lévi-Strauss rispose:

«On m’a remis votre lettre et le livre que vous m’avez si gentiment destiné. Je l’ai lu avec un extrême plaisir, car je n’aime rien tant que d’entendre parler de métier; et, à cet égard, vous vous conduisez en grand ethnographe d’une pratique professionnelle. De plus, votre récit est d’une drôlerie constante».

 

Il giudizio di Lévi-Strauss, a guardar bene, non stupisce. Ne La chiave a stella – le avventure di un montatore specializzato, Libertino Faussone, raccontate a un Primo Levi agens incontrato durante un viaggio di lavoro nelle foreste del Basso Volga – l’etnografia di mestieri è preceduta addirittura dall’etnografia tout court: il libro si apre con la descrizione di un rito, un malocchio-fattura contro il capo dell’azienda proprietaria del cantiere in cui Faussone lavora. Il rito si svolge in un paese lontano, esotico; il montatore-antropologo, non conoscendo la lingua locale, si procura un informatore che parla inglese (il suo collaudatore) da cui si fa spiegare il rito in questione. In questa fase, il mestiere di Faussone compare solo indirettamente, di riflesso: il personaggio viene piuttosto introdotto attraverso il suo racconto etnografico. Primo Levi sta dunque mettendo in campo un eroe-antropologo, con antecedenti letterari ben definiti. Il libro è infatti scritto, esplicitamente, nel segno di Joseph Conrad: la chiusa è affidata a una citazione tratta dalla nota introduttiva che Conrad scrisse per Tifone (probabilmente nella traduzione dello stesso Levi):

«Naturalmente, mi mancava il capitano MacWhirr. Appena l’ho raffigurato, mi sono accorto che era l’uomo che faceva per me. Non voglio dire che io abbia mai visto il Capitano MacWhirr in carne ed ossa, o che io mi sia trovato in contatto con la sua pedanteria e la sua indomabilità. MacWhirr non è il frutto di un incontro di poche ore, o settimane, o mesi: è il prodotto di vent’anni di vita, della mia propria vita. L’invenzione cosciente ha avuto poco a che fare con lui. Se anche fosse vero che il Capitano MacWhirr non ha mai camminato o respirato su questa terra (il che, per conto mio, è estremamente difficile da credere), posso tuttavia assicurare ai lettori che egli è perfettamente autentico».

 

Faussone è quindi il doppio del Capitano MacWhirr; e lo è anche nella descrizione della sua fisionomia: la «faccia seria, poco mobile, e poco espressiva» del montatore ricorda da vicino l’aspetto «ordinary, irresponsive and unruffled» del capitano di Tifone. «Unruffled» è anche il Tamigi su cui giace ancorata la Nellie, al tramonto, e su cui Marlow fa scivolare i propri ricordi, nell’indimenticabile inizio di Cuore di tenebra.

 

Dal fascino dei tramonti conradiani non era immune, d’altra parte, Lévi-Strauss, che ne inserì uno – la descrizione «vagamente conradiana» (parole sue) di un tramonto a bordo del Mendoza, in viaggio per il Brasile – nella sua prima prova di romanzo, datata 1939. Il tentativo fu presto abbandonato (il manoscritto si trova presso il Fonds Claude Lévi-Strauss della BnF); la descrizione del tramonto confluì invece, in corpo corsivo, in Tristi tropici.

 

L’amore di Lévi-Strauss per Conrad, più volte dichiarato, lo inserisce in un dialogo da sempre attivo tra il romanziere e l’antropologia. Lo studio di John Griffith (Joseph Conrad and the Anthropological Dilemma: Bewildered Traveller, Clarendon Press, 1995) ha mostrato una precisa convergenza tra il confronto problematico dei personaggi conradiani con le culture cosiddette “primitive” e le maggiori questioni poste dall’antropologia di epoca vittoriana; Il ramo d'oro è del 1890, Cuore di tenebra del 1899, lo stesso anno in cui si stava concludendo la Spedizione allo stretto di Torres organizzata dall’Università di Cambridge, che segnò uno spartiacque nella storia dell’etnografia. I romanzi conradiani influenzarono loro volta anche l’esperienza antropologica successiva: caso famoso è quello di Bronislaw Malinowski, uno dei fondatori della moderna ricerca etnografica sul campo. Era intessuto di citazioni e rimandi ai libri di Conrad quel Giornale di un antropologo che, pubblicato postumo nel 1967, suscitò un vasto dibattito sulla categoria di osservazione partecipante.

 

Conrad, con la sua etnografia esemplata, può illuminare almeno una faccia del grande interesse di Lévi-Strauss per Primo Levi, peraltro non limitato a La chiave a stella: in un’altra lettera (23 luglio 1984), l’antropologo pronuncia uno dei giudizi (tecnici) più belli mai scritti su La tregua.

Ma si può, e si deve, percorrere anche l’itinerario opposto. Se è presumibile che lo sguardo antropologico di Levi preceda e anticipi il suo incontro con i testi di antropologia (incontro che risale almeno agli anni settanta: nel 1975 Levi aveva tradotto I simboli naturali di Mary Douglas), è vero anche che, proprio in concomitanza con queste letture, prendono forma le più belle «invasioni di campo» de L’altrui mestiere e alcune invenzioni fantascientifiche (come il racconto Le due bandiere), la cui matrice straniata sorge anche dall’incrocio teso e irrisolto tra costruzioni culturali e animalità, tra possibilità di comprensione dell’altro e chiusura monadica. All’interno della banda d’oscillazione (Belpoliti) tra questi due approcci alla scrittura, l’antropologia fornisce a Levi strumenti d’invenzione e sperimentazione che, combinandosi col suo «sens aussi aigu du détail» (lettera di Lévi-Strauss a Levi del 23 luglio), dotano il suo sguardo obliquo di una luce e di una messa a fuoco fino a quel momento inedite.

 

 

 

La trascrizione e la traduzione integrale del carteggio tra Primo Levi e Claude Lévi-Strauss, finora inedito in massima parte, accompagnano una versione più estesa di questo articolo, pubblicata in “Italianistica”, 1/2015, pp. 111-131.

 

***

 

 

Lettera n. 2

[Lettera manoscritta su carta con doppia intestazione: in alto al centro: Laboratoire d’Anthropologie Sociale; a piè di pagina: Laboratoire mixte du Collège de France, du Centre National de la Recherche Scientifique et de l’école des Hautes études en Sciences Sociales, 11 Place Marcelin-Berthelot, 75231 Paris Cedex 05].

 

 

25.01.84

Cher Monsieur,

On m’a remis votre lettre et le livre que vous m’avez si gentiment destiné. Je l’ai lu avec un extrême plaisir, car je n’aime rien tant que d’entendre parler de métier; et, à cet égard, vous vous conduisez en grand ethnographe d’une pratique professionnelle. De plus, votre récit est d’une drôlerie constante, et il me semble que la traduction française est très bien restée dans le ton.

Je suis touché et reconnaissant de la peine que vous voulez bien prendre avec le Regard éloigné après les soins que vous avez déjà donnés à La Voie des masques. Au sujet de la galette de l’Epiphanie, elle existe en France, mais avec une seule fève: celui ou celle qui la trouve est proclamé(e) roi ou reine. Vous pourriez, si vous le jugez bon, ajouter une “note du traducteur” à l’édition italienne, rappelant la coutume de votre pays qui, me semble-t-il, atteste qu’y persiste cette ambivalence de la fève déjà présente à la pensée des Grecs et des Romains.

Avec tous mes remerciements pour ce que je vous dois, je vous prie, cher Monsieur, de croire à mes sentiments les meilleurs.

Claude Lévi-Strauss

 

[Gentile Signore,

mi è stata recapitata la lettera con il libro che mi ha gentilmente inviato. L’ho letto con estremo piacere, perché non c’è nulla al mondo che io ami più che l’ascoltare storie di mestieri; e, in questo ambito, lei si è comportato da grande etnografo, esperto della professione. In più, il racconto è di una continua comicità, e mi sembra che la traduzione francese ne restituisca bene il tono.

Sono colpito e grato per il lavoro che lei vuole sobbarcarsi con Le regard dopo le cure che ha già dedicato a La voie des masques.

Riguardo alla torta dell’Epifania: esiste anche in Francia, ma con una fava sola; colui o colei che la trova si proclama re o regina. Se lei vorrà, potrà aggiungere una nota del traduttore italiano, richiamando l’usanza del suo paese, la quale, direi, dimostra che vi persiste l’ambivalenza della fava, già ben presente nel pensiero greco e romano.

Con i più grandi ringraziamenti per tutto ciò che le devo, le porgo i miei più cordiali saluti,

Claude Lévi-Strauss]

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