Estetica ecologica / Il filosofo e la polpetta

14 Luglio 2020

Illuminazione in un vagone ferroviario: “sono vegano – rivela un ragazzo sedutoci accanto –, mangio però le polpette quando le prepara mia nonna; due volte l’anno, quando torno a trovarla”. Ipocrisia? incoerenza? contraddizione? sistematico rovescio delle regole? Macché – spiega Nicola Perullo nel suo ultimo, magistrale libro Estetica ecologica. Percepire saggio, vivere corrispondente (Mimesis, pp. 168, € 16) –, semmai estremo buonsenso risonante, capacità di sapersi adattare alle situazioni volgendole a proprio favore, senza pregiudizi, senza principi indiscussi e indiscutibili. Intercettando corrispondenze, facendo riecheggiare le istanze dei vari soggetti che sempre e comunque intrecciano le varie linee della loro esistenza. “Sono cresciuto insieme a mia nonna e le sue polpette – spiega il giovane vegano –. Lei è vissuta in un’altra epoca, è una persona senza cultura, non capirebbe la mia scelta”. Più che rivendicare i principi che si è dato a monte, il nostro compagno di scompartimento preferisce insomma convivere con – e conseguentemente sciogliere – i nodi problematici che volta per volta, a valle, possono emergere nel flusso della vita di tutti i giorni. Tra far del male a un generico animale o dispiacere l’amata nonna, è presto detto: meglio far del male all’animale. Due volte l’anno: non di più. 

 

Ecco un bell’esempio di quella che Nicola Perullo, professore di Estetica all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, definisce una dietetica della cura: “La dietetica della cura corrisponde agli eventi: cor-risponde, cioè risponde responsabilmente e di volta in volta a ciò che l’esperienza mette in gioco. La dietetica della cura è un’arte, un sapersi regolare senza affidarsi a regole pregresse: we make up the rules as we go along”, scrive Wittgenstein”. Da qui una reinterpretazione decisiva delle istanze vegetariane o animaliste, oggi tanto pressanti socialmente quanto pochissimo trattate dalla riflessione filosofica contemporanea: “Il rispetto per l’animale non è un’astrazione formale. Non è guidato dalla volizione intellettuale. Tiene tutto in conto, segue il flusso e ‘decide’ operando dislocazioni e ponendo certo nuove funzioni, ma in senso strategico e temporaneo”. Da cui: “Non c’è alimentazione assolutamente giusta. Non c’è gusto giusto per sempre”. Idea che, in tempi di ricorrenti epifanie di nuovi credo alimentari e di conseguente gastromania, non è da poco.

 

 

Ma la proposta concettuale di Perullo va ben al di là dell’universo alimentare e gastronomico, di cui pure l’autore ha perfetta contezza (come testimoniano, fra gli altri, Il gusto come esperienza, La cucina è arte? o Epistenologia): parlare di estetica ecologica significa difatti superare le opposizioni fra vivere e pensare, sentire e giudicare, e con esse rifiutare qualsiasi forma di paradigma dualista e separatista, per assumere il più radicalmente possibile ogni forma di corrispondenza – nel senso baudelairiano del termine – fra flusso del pensiero e flusso dell’esistenza. Così, per restare ancora all’interno delle attuali problematiche relative all’animalità, piuttosto che accettare in modo acritico una separazione di principio tra umanità e non umanità, ossia fra animali umani e animali non umani, e agire di conseguenza, ha più senso (è più saggio, direbbe l’autore) vedere se e come, in concreto, nelle differenti situazioni sociali, culturali, politiche, economiche si produce ogni volta qualcosa come una umanità e qualcosa come una animalità, con i relativi valori di cui queste provvisorie concrezioni si fanno portatrici.

 

Il libro di Perullo è dedicato a Tim Ingold, suo amico e mentore, il noto antropologo scozzese per il quale la famigerata separazione fra natura e cultura, biologia e società, animale e uomo è una sovrastruttura ideologica che ostacola il processo di comprensione delle differenti etnie sparse per il pianeta. Per Ingold (come testimoniano Making, Siamo linee e Antropologia, tre sue opere da poco tradotte nel nostro Paese) ogni separazione di principio fra natura e cultura, materia e forma, corpo e mente, ambiente e individuo è da criticare e rimuovere. Umani e non umani stanno in un contesto unico e, a dispetto di chi li distingue in diversi e autonomi ‘regni della natura’, sono sempre stati in correlazione reciproca, in ‘corrispondenza’, spesso per il tramite di un terzo attore, detto ‘transduttore’, che permette di sostenere un ritmo comune a uomini e cose, uomini e uomini, cose e cose. Per Ingold la realtà non è fatta di oggetti finiti ma di processi che li formano e li deformano incessantemente, adattandoli e riadattandoli a ciò che li circonda, e reciprocamente; allo stesso modo gli individui non sono soggetti autocoscienti dotati di proprietà cognitive ma entità troppo umane che, scorrendo, entrano in contatto con altri soggetti e altri oggetti, dove niente e nessuno ‘viene prima’ perché tutto si fa e si rifà (appunto, making) senza soluzione di continuità. Non c’è origine, non c’è risultato finale: solo un trascorrere insieme di corpi e materiali, di eventi e di forze, di espressioni inaspettate e comprensioni tacite

 

Posizione teorica radicale che, se per alcuni versi è stata recepita in Italia nel consesso degli studi antropologici (si veda per esempio il volume di Alessandro Mancuso Altre persone, edito sempre da Mimesis), ha avuto sinora poco riscontro in ambito filosofico. Lacuna a cui, appunto, Estetica ecologica vuol porre rimedio. Molti sono i riferimenti concettuali convocati da Perullo (Wittgenstein, Dewey, Merleau-Ponty, Serres, Derrida, Jullien…), ma sullo sfondo di questo suo originale progetto filosofico ci sta soprattutto l’antropologia di Ingold. 

Due le questioni chiave del libro. La prima è di natura procedurale, ed è il cosiddetto relazionalismo: il mondo non è fatto di cose, di entità, di oggetti ma semmai di connessioni, rapporti, collegamenti; i quali, fra l’altro, cambiano di continuo nel corso dei suoi molteplici processi, degli sviluppi e dei flussi che lo costituiscono e lo trasformano. Con una specie di calcolato ossimoro, Perullo parla a questo proposito di ontologia relazionale, sorta di ritorno a uno strutturalismo non sistematico ma, appunto, dinamico e processuale. La stessa dualità su cui si regge gran parte della storia della filosofia, quella che oppone soggetto e oggetto, da questo punto di vista non ha più senso. Nella vita che scorre fenomenologicamente i due ruoli si invertono senza sosta. A meno di non adottare una visione statica che tende a bloccare, come in un fermo-immagine, le dinamiche dell’esistenza (individuale o collettiva), ipostatizzando, da un lato, qualcuno che osserva e, dall’altro, qualcos’altro che è osservato. Vivere corrispondente significa proprio questo.

 

La seconda questione riguarda più da vicino l’estetica, ed è legata alla nozione centrale di aptico, che Perullo contrappone tatticamente all’ottico. L’aptico, spiega Perullo, non è il tatto, se pure da esso in qualche modo discende. Introdotta in estetica da quegli straordinari autori che erano i purovisibilisti (Riegl, Hildebrand, Berenson…), l’idea di aptico intende spiegare quei casi di sguardo ravvicinato che portano l’occhio quasi a toccare un’immagine: un effetto di senso molto preciso che tende a mescolare sinesteticamente i canali sensoriali, dando al corpo nella sua interezza una capacità di percepire olistica, a tutto tondo, che finisce per risucchiarsi anche la cognizione. L’aptico, secondo Perullo, è sentire e pensare contemporaneamente, senza cesure aprioristiche, senza discontinuità preconcette fra facoltà conoscitive o moduli della mente. “Aptico è un atteggiamento, un’attitudine complessiva al percepire con, un modo di sentire/pensare integrale che cresce e si sviluppa, istante dopo istante, lungo questo continuo fluire che chiamiamo esperienza; ciò in cui, immersi, viviamo, scorrendovi e corrispondendovi.

 

L’aptico è così una postura nei confronti del mondo, postura sensibile e mentale, all’unisono – precisamente ciò che si impegna ad avvicinare ogni dualismo polare, fino a mostrarne l’illusorietà”. E continua: “Percepire in modo aptico significa dunque accostare i processi, sentirli/pensarli lateralmente, trattenendo ogni intenzione e ogni progetto per come invece emergono con la scissione duale provocata dalla percezione frontale, quella di un soggetto davanti a un oggetto. In questo senso, la proposta dell’aptico va al di là dell’idea di un tatto oltre la mano, idea che è stata perseguita soprattutto in riferimento al visivo, come quello spazio in cui l’occhio tocca ciò che vede”.

Tutto ciò il nostro giovane vegano non lo sa, figuriamoci, forse nemmeno lo capisce. Eppure a suo modo lo sente, lo vive, lo pensa apticamente. In risonanza affettiva con la nonna: priva di cultura dice lui, ma certamente più saggia di molti di noi.

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