Speciale
Le varie lingue di Le metamorfosi / Kafka. Un tram chiamato lampione
La scintilla si accende leggendo un passo all’inizio della seconda parte de La metamorfosi (1915). Da qui prende le mosse il notevole “giallo-filologico” di Adriano Sofri, Una variazione su Kafka (Sellerio). Infatti nella traduzione de La metamorfosi, fatta da Anita Rho e pubblicata con il testo a fronte (Rizzoli 2001), si trova questa frase:
“I rilessi della tranvia elettrica chiazzavano qua e là il soffitto e le parti superiori dei mobili, ma in basso, dov’era Gregorio, faceva buio”.
Ma, nel testo tedesco, al posto di tranvia elettrica (che sarebbe: “elektrischen Strassenbahn”) c’è scritto “elektrischen Strassenlampen” (lampioni elettrici della strada). E infatti, ad esempio, una delle maggiori esperte italiane di Kafka, Andreina Lavagetto, nella sua traduzione (F. Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Feltrinelli 1991, p. 90), traduce così:
“La luce dei lampioni elettrici in strada si posava pallida qua e là sul soffitto…”
Ma già il titolo del racconto di Kafka è diverso dall’originale: “Die Verwandlung” significa infatti “La trasformazione”. In tedesco esiste il termine “Die Metamorphose” quindi Kafka, che conosceva Ovidio e Goethe, intendeva davvero parlare di “trasformazione”. Lo spagnolo Metamorfósis è l’evidente omaggio al capolavoro di Ovidio fatto dalla prima, rimasta anonima, traduttrice in spagnolo (nel 1925). Quella traduzione (che tra l’altro parlava di tram elettrici: “el reflejo del tranvía eléctrico”) fu ripresa pari pari, nel 1938, da Jorge Louis Borges, che per decenni è stato considerato il traduttore del racconto. Borges, che confessò che i suoi primi racconti “furono esercizi in cui provai a essere Kafka”, riconobbe alla fine che La metamorfosi non l’aveva tradotta lui (conversazione con Fernando Sorrentino, 1974).
L’andamento dell’indagine sulle traduzioni de La metamorfosi nelle varie lingue è degno della migliore tradizione poliziesca. Sofri risale genealogicamente fino all’“inizio” della questione, come ha fatto il suo amico Carlo Ginzburg in certi suoi celebri saggi, primo fra tutti “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, raccolti nel volume Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia (Einaudi 1986). Sofri nota che, finché fu vivo Kafka (che morirà nel 1924), ci furono soltanto due traduzioni del suo racconto: la prima, nel 1921, fu in ungherese (intitolata A változás: La trasformazione), a opera del futuro autore di Le braci (1942), Sándor Márai, morto suicida nel 1989. L’altra traduzione, in ceco, fu di una delle donne delle quali si innamorò Kafka: Milena Jasienská. Quella traduzione purtroppo è andata perduta. Ma c’è almeno una fantasmagorica storia legata a ogni traduzione di questo straordinario racconto che Kafka aveva iniziato a pensare e scrivere il 17 novembre del 1912, in una giornata di profonda depressione (“Una piccola storia che mi è venuta a mente a letto in mezzo a quello strazio, e che ora mi opprime nel punto più interno di me”, come scrisse quel giorno stesso a Felice Bauer).
“Vado pazzo per Google”, dichiara Sofri, che ammette apertamente di aver utilizzato nella sua indagine questo strumento moderno (che fornisce rapidamente testi, immagini, mappe) e di essersi avvalso, con soddisfazione, persino del traduttore automatico in inglese per “farsi un’idea” di quello che stava indagando. Procedendo avanti e indietro si incagliano così nella sua rete alcuni personaggi che sono dei veri e propri racconti a sé: l’occasione per aprire uno squarcio su vite e mondi assai singolari. Come quella della probabile autrice della prima traduzione spagnola (quella copiata integralmente da Borges): Margarita Nelken (1894-1968), “ebrea, donna, un po’ artista, intellettuale, comunista, puttana –traduttrice” che prese parte alla guerra civile spagnola e finì i suoi giorni a Città del Messico. Per lei, come per altri bizzarri personaggi che entrano, più o meno letteralmente, in questa vicenda, Adriano Sofri prova simpatia. Come, e anche con ironia non lo nasconde, egli propende per la “tesi del tram”: meglio il tram elettrico che i lampioni! Tra i tanti argomenti che mette in gioco a favore del tram, Sofri fa notare che “l’intera conclusione de La metamorfosi si svolge lungo il tragitto del tram”: i genitori e la sorella i Gregor hanno addirittura un vagone tutto per loro…
A un certo punto dell’indagine, come per miracolo, i fili iniziano a essere più chiari e meno ingarbugliati. Sembra di poter uscire più facilmente da questo “labirinto kafkiano”, anche se, in continuazione, entrano in gioco “elementi diversivi” che portano nuovamente lontano: come la questione del protagonista, Gregor, trasformato in un “insetto ripugnante”. Ma che cos’era? La maggior parte dei traduttori sostengono che fosse uno “scarafaggio”, ma lo scrittore-entomologo Nabokov scrisse che era un “coleottero”. Primo Levi lo definì uno “scarabeo”. La veneziana-piemontese Anita Rho traduce, a un certo punto, addirittura, “scarafone”…
È meglio non svelare i successivi retroscena dell’indagine per non togliere ai lettori il piacere di una lettura appassionante e che trova un ulteriore “colpo di scena” nel ritrovamento di una fotografia riprodotta dall’editore e studioso tedesco Klaus Wagenbach nel bel volume Due passi per Praga insieme a Kafka (Feltrinelli, 1996) e di una cartolina del 1910 dove si vede un tram elettrico passare per ponte Čech, sopra il fiume Moldava, in mezzo a lampioni elettrici…
Un quarto del libro, la parte conclusiva, è occupato dal ricco apparato di note: anche queste sono una miniera di storie ulteriori e scoperte sorprendenti (Sofri scrive: “Le Note hanno un’indicazione di massima dei luoghi del testo cui si riferiscono ma vorrebbero vivere di un’intermittente vita propria, come un libro ombra”). Attorno al problema filologico, legato a due parole piuttosto simili ed “elettriche”, è possibile immaginare un ulteriore intreccio: una sorta di corridoio di specchi che riflettono ingannevolmente pezzetti di verità. La natura in continua trasformazione, della vita e delle storie legate a La metamorfosi, sembra dare ragione proprio a Borges, che esce professionalmente male da questa vicenda, ma risulta essere comunque uno dei migliori “eredi di Kafka”.