Qui Odessa. Guerra e vita
“Poco, mi serve,
una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo,
e queste nuvole”
Velimir Chlebnikov
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è stata raccontata in molti modi, dagli abitanti di quel verde paese in fiamme e decine di coraggiosi corrispondenti stranieri. Anche qualche temeraria giornalista russa, assieme a colleghi subito licenziati, hanno provato a narrare ciò che l’esercito del proprio paese sta facendo e la sofferenza della popolazione civile ucraina, in modo diverso dalla versione ufficiale di un potere che continua a chiamare quel massacro “operazione militare speciale”.
Odessa è ancora soltanto sfiorata dalla battaglia, ma sempre minacciata di attacco alle spalle (il mare di fronte è stato minato e la strategica Isola dei serpenti è stata appena riconquistata). Molti, sin dagli inizi di marzo, se ne sono andati, fuggendo nella parte occidentale del paese o all’estero, ma la maggioranza della popolazione della bella città sul Mar Nero continua a vivere là in una situazione di anormale normalità. La scrittrice e giornalista e fotografa Anna Golubovskaja ha fatto questa scelta e si è preoccupata di documentarla: “Quando tutto è iniziato ho deciso di restare, non me la sono sentita di andarmene.
Ho pensato che dovevo restituire qualcosa alla mia città, Odessa. Mi rendo utile come posso. Vado a casa delle persone anziane e porto medicine e cibo acquistati coi miei soldi. Non sono di quelli che entrano in un’organizzazione non profit. Siamo in tanti a fare così. Vado anche in un forno ad aiutare a cuocere il pane. Poi esco in giro per le strade e fotografo persone e facce, senza idee preordinate”.
La scelta di Anna Golubovskaja è anche una forma di resistenza importantissima, perché ha trovato, con la complicità dell’amico d’infanzia, lo scrittore milanese-russo Eugenio Alberti Schatz, una sponda e una collaborazione letteraria che le ha permesso di far conoscere in Italia (sulle pagine di “Doppiozero”) le sue intense foto in bianco e nero della sua amata città assediata. Eugenio Alberti Schatz ci ha messo del suo, traducendo dal russo l’amica e scrivendo bellissimi testi di accompagnamento, innervati da storie e notizie poco conosciute: “Anna è molto attiva su facebook, pubblica anche fotografie di colleghi e maestri della fotografia, è un piacere seguirla.
Un giorno, guardando le fotografie che ha iniziato a scattare dopo l’inizio della guerra, ho intravisto una possibilità: far conoscere in Italia il racconto della guerra negli occhi degli abitanti di Odessa, raccontare la guerra non degli obici, dei crateri e dei cadaveri, ma di una città in bilico, in attesa – c’è stato il lampo, ora verrà il tuono – spaventata ma dignitosa e coriacea, un po’ spavalda e anche fatalista, quel lasciarsi levigare dalla vita, il senso del tempo che si deposita sulle facciate e sui volti come una fuliggine trasparente, una sorta di rassegnazione sardonica, come una sprezzatura. Le ho telefonato, si è commossa. Poi ho scritto a ‘Doppiozero’, e dopo mezz’ora mi hanno detto di sì. La guerra è anche questo: accelerazione”.
A partire dal 7 aprile, Qui Odessa è diventato l’appuntamento settimanale fotografico-letterario sull’Ucraina più importante del web italiano (assieme ai materiali documentari di Francesca Mannocchi dalle zone di guerra): una selezione di cinque fotografie, accompagnate da una doppia narrazione testuale (il commento attorno alle foto, alla storia e all’immaginario di Odessa di Alberti Schatz, e il racconto della Golubovskaja sui contesti in cui sono state scattate le immagini). Un modo molto originale ed efficace di far vedere e raccontare la guerra, e soprattutto la vita, ricco di tagli e suggestioni poetiche, informazioni necessarie, riflessioni mai scontate.
Ora, in pochi mesi, una parte delle fotografie, accompagnate sempre da brevi testi di Eugenio e Anna, è diventata una mostra: Qui Odessa. Cronache da una città che trattiene il respiro (Fondazione Stelline, Milano, 14-31 luglio), accompagnata dalla suggestiva musica di Steve Piccolo. Appese alle pareti, quelle foto appaiono ancora più belle e cariche di una malinconica verità. C’è una grande attenzione ai volti umani (come quelli profondamente segnati del giornalista Felix Kochricht con la moglie Tatiana Verbitzkaja, ritratti nella loro abitazione affollata di quadri, o quello di Irina San, la “Madonna di Odessa”, che abbraccia forte il suo bambino piccolo, o quello, tormentosamente sereno del padre di Anna, Evgenij Golubovskij, con in braccio la nera cagnetta Afina, o quello del soldato, che compare nella locandina della mostra, seminascosto dall’elmetto troppo largo e dalla sciarpa); agli animali tristi; a scorci laterali della città nei quali, attraverso i mucchi di sacchetti di sabbia o le transenne, si intuisce la guerra che è minacciosamente vicina.
Golubovskaja tiene molto a mostrare e sottolineare che la vita quotidiana, nonostante tutto, continua. A partire dall’inizio, come l’episodio numero 4 (La fabbrica della vita), uno dei più lontani dalla morte della guerra e allo stesso tempo triste e ricco di ostinata speranza, ambientato in una clinica dove nascono i bambini: “Sono andata in una delle cliniche di ostetricia più antiche della città, nella via Portofrankovskaja, e ho chiesto di poter fotografare le nascite. Maksim Golubenko, che in trent’anni deve aver fatto nascere qualcosa come diecimila bambini, mi ha ascoltato e ha detto di sì”. Vi spicca la foto del volto di una donna che sta per partorire, con i capelli raccolti in una cuffietta di plastica, e due occhi immensi, le labbra serrate: il tempo della vita sospeso in uno sguardo.
Si rimane soprattutto colpiti dalla tristezza degli animali: un cane solitario con sullo sfondo un monumento in un gioco raffinato di ombre riflesse sulla pavimentazione bagnata; un gatto che vaga in cerca di cibo nel deserto di un parco giochi per bambini in riva al mare; cigni ignari delle mine nel mare; tanti cavalli maestosi come statue, calmi sul limitare della spiaggia, le zampe nell’acqua; infine, il leone bianco, salvato miracolosamente dall’incendio in seguito al bombardamento dello zoo di Charkiv (Karkov) e ora rinchiuso col suo compagno nel museo di Odessa, non in una gabbia, ma in una arrugginita voliera per uccelli: “Un gigantesco leone bianco, macilento, con uno sguardo umano. Le piaghe per la gabbia troppo stretta, le ferite per le schegge di bombe, le costole a vista. È così che è ritratto nelle mie foto – il re degli animali in esilio. Ma questo succedeva in aprile. A fine giugno i leoni hanno ripreso forze, e sono ritornati ad avere il loro aspetto regale nella norma. Stanno bene a Odessa”. Quella foto del leone raro, ancora magro e ferito, lo sguardo immensamente triste di un cane bastonato, fa capire perfettamente la tragica insensatezza di tutto ciò che sta accadendo e la giustezza dell’intuizione di colei che lo ha fotografato: “Gli animali sono anche portatori di segni che dovranno essere annunciati e capiti, latori di messaggi arcani”.
Nel dialogo a distanza tra la fotografa e lo scrittore c’è anche spazio per considerazioni su cosa significhi fotografare in quelle condizioni a Odessa: Anna racconta di aver bisogno continuo di acqua ossigenata per sviluppare in camera oscura le pellicole e di aver bruciato un intero rullino avendo agguantato ingenuamente, a una pompa di benzina, del liquido tergicristalli pensando fosse acqua ossigenata. Eugenio descrive la situazione, riflette sul lavoro del fotografo e i complicati passaggi che porteranno alla mostra: “Mi racconti di come sviluppi i negativi in cucina, appendendo le pellicole ad asciugare sullo scolapiatti. Non è poi così diverso che fare il pane. Ci vuole un pizzico di follia, come alzarsi di notte quando gli altri dormono, vuol dire vivere con un leggero delay che ti fa vedere le cose da un altro punto di vista.
Il fotografo non si limita a vivere, vuole vedere la vita leggermente discosto: per vedere se c’è dell’altro. E mi parli del tuo amico Andrej, ogni sua stampa è come un uovo Fabergé. Gli hai spedito la carta fotografica comprata in Germania da tua figlia per la mostra che faremo a Milano. È arrivata via Bucarest, grazie a Maja, mia cugina, ora aspettiamo che arrivi a Charkiv (Karkov), e poi aspettiamo ancora, le poste pare funzionino. Guardo le tue foto e mi chiedo quello che si chiedono tutti i profani: ma quanta fortuna hai avuto per aver colto il blink, l’attimo fuggente”.