Un nuovo volume della collana Riga / Kitsch Kitsch Kitsch, hurrah!

Silvia Bottani

 

Che cos’è il Kitsch? come potremmo definirlo? vira più verso il cattivo gusto (ossia un gusto differente che a noi non piace) o è semplicemente una mancanza di gusto (una indifferenza verso il gusto)? 

 

Il kitsch continua a evolversi nella forma ma mantiene il suo carattere originale.

Possiamo intenderlo come una menzogna che diventa una verità accettata e condivisa ma anche come una strategia di mimetizzazione e di sabotaggio messa in opera dallo scarto, da ciò che è fallato nei confronti di ciò che è compiuto, una forma di contaminazione che fonde high e low brow per creare un prodotto di massa. Possiamo ancora considerarlo come l'opposto speculare dell'arte? Forse no, almeno nei fatti, se una parte consistente di arte established ne è stata parassitata e se non esistono avanguardie. 

 

Si tratta di un fenomeno meramente estetico, o pseudo-estetico, o invade anche i territori dell’etica e della politica? Se sì, in che modo?

 

Invade certamente i territori dell'etica e della politica, portando in primo piano un approccio caratterizzato da sentimentalismo e ironia che influenzano e orientano il discorso pubblico e la comunicazione. Agendo in maniera performativa con il camp, il kitsch si manifesta come un carattere che investe i media, i linguaggi, la politica. Il kitsch è fluido, facile, immediato, muta forma a seconda delle stagioni che attraversa ma rimane sé stesso e conserva una spinta reazionaria. Possiamo definirlo una sindrome culturale a bassa intensità che si evolve nel tempo e che agisce da “facilitatore”e da lubrificante per le tensioni conservative.

 

La cultura attuale, che erode sempre più l’idea di comunicazioni di massa che istituiscono le forme profonde della socialità, sembra aver superato l’opposizione fra masscult e midcult, come anche quella tra arti d’élite e arti popolari. Che ne è del Kitsch in questo quadro? trova ancora un suo posto? e quale?

 

Penso che il kitsch sia l'arte che meglio risponda alle richieste del mercato, e in un'epoca che possiano definire Capitalocene, trovi un territorio ideale in cui proliferare. La specifica capacità del kitsch di essere resiliente e modellarsi a seconda delle culture che incontra, riuscendo a penetrarle, emula una modalità tipica del  neocapitalismo. Per il kitsch l'autenticità non è un valore, quindi si inserisce perfettamente in contesto globale in cui i codici di realtà e finzione sono crollati, dopo decenni di feticizzazione delle merci. Inoltre la richiesta di prodotti culturali e di intrattenimento sempre più massiccia, legata allo stato di benessere dei paesi occidentali ma anche di quelli in via di sviluppo, unita alla diffusione della rete e delle piattaforme sociali e di contenuti fa sì che il mercato abbia bisogno di produrre massicciamente prodotti di consumo culturale e il kitsch è la risposta ottimale, remunerativa e adeguata a tale richiesta. Il post moderno è stato totalmente kitsch e la nostra contemporaneità non sembra riuscire a liberarsi di tale forma, ormai completamente organica al sistema produttivo.

 

Spesso s’è detto che il K. va alla ricerca dell’effetto facile, dell’’effettaccio’, sul pubblico dell’arte e, in generale, della cultura. L’emergere della cultura in rete, nei blog, nei social (nel bene come nel male) come sposta il problema?

 

La preponderanza del kitsch e del camp ha marginalizzato il ruolo dell'arte, contribuendo ad alimentare una diffidenza del pubblico nei confronti di ciò che, in termini estetici, non è compromesso, alimentando una complessiva confusione dello spettatore nei confronti di ciò che è l'oggetto artistico e rispetto alla propria capacità critica di interpretare le opere. Il kitsch non è più percepito come brutto o come fallace e ha usurpato la scena dell'arte: come una  forma parassitaria ha occupato il corpo della sua vittima e l'ha zombizzata. Da una parte ha reso l'arte parte del mercato, dall'altra l'ha sterilizzata, rendendola innocua. La proliferazione di voci, di canali e piattaforme, il costante flusso di immagini e informazioni alimentato da blogger, influencer, autori, semplici utenti genera un magma indifferenziato in cui l'opera è destinata a transitare brevemente e sparire subito dopo, dimenticata. La critica, l'analisi, la produzione di testi subiscono la stessa dinamica di apparizione e scomparsa. L'arte si è in larga parte adeguata a questa forzata invisibilità, a questa irrilevanza, e il carattere specifico dei media sociali, che erodono qualsiasi forma di autorevolezza e pongono sullo stesso piano attori di peso differente, contribuisce a dare forza al kitsch, ad attestarlo come forma vincente. 

 

Altra classica definizione del K. è quella per la quale esso è una tecnica artistica, e comunicativa, che introduce frammenti d’arte alta per giustificare un’opera, invece, dalla facile, immediata ricezione. Una specie di citazionismo nascosto. Oggi Boldini è osannato come un artista, e da decenni il citazionismo è la regola. Tutto è diventato Kitsch?

 

Non necessariamente. Ciò che rimane fuori dal mercato ha possibilità di non esserlo, così come alcune pratiche non allineate o alcune forme di arte performativa. Il kitsch investe facilmente la pittura, i linguaggi plastici, la letteratura, il design, la musica e il cinema, proprio per la facilità con cui queste forme aderiscono al linguaggio popolare e per l'elevata potenzialità che presentano in termini di feticizzazione.

 

I souvenir, i gadget, i portacenere con il Papa, i nani da giardino fanno oggi tanto chic: uno chic, sembra, condiviso dai più. Il K. è altrove?

 

Si tratta di un grado zero del kitsch, il più riconoscibile e immediato, che oggi è diventato gradevole e apprezzato grazie allo sdoganamento attuato dall'ironia postmoderna. Il kitsch è rintracciabile in forme più o meno evidenti: la Lamborghini è kitsch, lo è Dubai e tutta la cultura del lusso urbano del medioriente arabo, lo sono  la Fondazione Vuitton di Parigi e le mostre in 3d, i video dei terroristi suprematisti e molti elementi della politica populista (e qui entra in gioco il camp), tra cui la demagogia e il moralismo di matrice tradizionalista, i reality show con gli chef , Facebook e le serie tv sul papa firmate da Sorrentino.

 

Queste palesi trasformazioni rispetto agli anni, per così dire, d’oro, del K. implicano un cambiamento nelle prassi artistiche, un cambiamento nelle nostre aspettative circa l’arte, i nostri gusti, i nostri valori? oppure quel che s’è sgretolato è l’idea stessa di un ‘nostro’, di un qualcosa che accomuni i soggetti implicati nel mondo dell’arte e della cultura? 

 

La frattura che polarizza la società contemporanea ha a che fare con un rifiuto verso una cultura “alta”, percepita come espressione di una società escludente e falsa. Il rancore manifestato da una larga porzione di società – un rancore che attraversa classi differente, con effetti differenti – mira a demolire lo stato delle cose e a dare voce a un'insoddisfazione collettiva che è la diretta conseguenza di una promessa mancata (la promessa del capitalismo) e la conseguente umiliazione di chi ha sentito questa promessa tradita. Interessante è che in parte oggi anche chi appartiene a classi economiche più agiate sia contagiato da un senso dilagante di rifiuto e di rancore. In questo senso il kitsch riesce a soddisfare le aspettative di tutte le tipologie di spettatori, sia di chi rifiuta un'arte ritenuta incomprensibile, frutto esclusivo di logiche di mercato e fine a sé stessa, e si rifugia in oggetti che sente accessibili, alla propria portata, sia di chi pur avendo più efficaci strumenti culturali non riesce più a distinguere tra ciò che è kitsch e ciò che non è e semplicemente, per consunzione o per una forma di seduzione messa in atto dagli oggetti, una rassicurazione, si abbandona al piacere del consumo.

 

Le migrazioni di massa, le diseguaglianze sociali, i disastri climatici e ambientali, i fondamentalismi religiosi e il terrorismo, i social network travalicano la quesitone del K. o lo assumono al loro interno?

 

Credo che lo assumano al loro interno. Greenberg evidenziava una relazione tra la stabilità sociale e la distanza esistente tra avanguardia e kitsch. Oggi l'avanguardia è scomparsa, ma il kitsch permane. Si può ipotizzare che oscilli indisturbato abbracciando un territorio più o meno ampio, senza antagonisti reali, a seconda della stabilità o meno della società. I fattori critici elencati sopra ne “nutrono” la produzione, a cui esso è legato a doppia mandata, e l'incapacità collettiva di progettare il futuro, dopo decenni di infantilizzazione seguiti al boom economico della seconda metà del Novecento, oggi trova una consolazione – seppure insoddisfacente – in una forma di edonismo del presente continuo, che il kitsch incarna nella sua capacità di rendere accessibile e utilizzabile un patrimonio di idee, concetti e forme semplificati, sempre disponibili.

La società borghese ha prodotto il kitsch, la sua disgregazione ne segna il trionfo. 

 

Ph di David LaChapelle.


Fulvio Carmagnola

 

Che cos’è il Kitsch? come potremmo definirlo? vira più verso il cattivo gusto (ossia un gusto differente che a noi non piace) o è semplicemente una mancanza di gusto (una indifferenza verso il gusto)? 

 

Il kitsch è una categoria del Moderno. Visto da fuori presuppone una differenza percepibile tra buon gusto e cattivo gusto e si può definire in negativo come l’incapacità di discernere questa differenza intuitivamente, ictu oculi. Non solo: il kitsch sarebbe un cattivo gusto a tal punto inconsapevole, da essere convinto del contrario – mentre l’esercizio consapevole del cattivo gusto ne sarebbe distante (Warhol che metteva sempre le stesse giacche sdrucite). 

Ora, se assumiamo, come pare abbia affermato Montesquieu, che il gusto sia in origine  “una capacità pronta e squisita di cui non si sa fornire la ragione” o “un sapere che non sa di se stesso” (Agamben) dovremmo anche dire che “oggi” le cose sembrano cambiate. L’espressione società di massa o cultura di massa pare poco pertinente, si direbbe piuttosto che oggi viviamo in un’epoca di anticonformismo di massa, immersi in un oceano di differenze indifferenti, un unico terreno vago vistoso e insieme banale. Il kitsch è un non sapere che non sa di non sapere, a un livello mai prima d’ora così generalizzato e imponente.

 

Si può pensare allora che il kitsch non sia più soltanto quello, in fondo innocuo perché facilmente decifrabile, del piattino con l’effigie di Padre Pio o della madonna di Lourdes sul comodino, dei centro-tavola e dei pizzi sul comò, come notava beffardamente Baudrillard. Assume piuttosto le vesti di una coazione alla distinzione, sotto la seduzione dei sistemi del sentire (Fashion, Design, la stessa Arte). A Parigi in Place des Vosges mi è capitato di vedere in una vetrina (era una galleria d’arte o un negozio di cianfrusaglie?) un quasi-Koons e un quasi-Pollock. Se appartenga all’’Arte o al Design o all’ornamento “spiritoso” non so dire, ma del suo carattere kitsch sono sicuro anche se mi riesce difficile fornirne una ragione, una spiegazione. 

Pare allora che una sorta di etica del gusto come capacità di discriminazione e di scelta si eserciti in modo più difficile e delicato, per forza di levare: capacità o disposizione (hexis, habitus) minima e essenziale che riesce a preservare una singolarità o a mostrare uno stile attraverso un esercizio di understatement, di sottrazione rispetto al troppo-pieno della macchina del sentire (ciò che Perniola definiva “il già-sentito”) e alle sue ingiunzioni.

Si potrebbe dire: il kitsch è una provincia del già-sentito, particolarmente insidiosa perché quasi indistinguibile.

 

Si tratta di un fenomeno meramente estetico, o pseudo-estetico, o invade anche i territori dell’etica e della politica? Se sì, in che modo?

 

Il kitsch è un fenomeno che invade certamente la politica e i comportamenti pubblici e pone una domanda etica: come reagire? Come cavarsela?  Penso per esempio al kitsch vagamente reazionario e alla sua evoluzione da Amici miei a Maledetti amici miei. Il primo, il film di Monicelli del 1975, era ambiguo ma divertente. La sua smaccata cover di queste ultime settimane è imbarazzante, direi ignobile. Così, una sola parolaccia ben detta (ma rara) può essere acuta, un discorso pieno di parolacce e espressioni volgari è non solo una catastrofe estetica (come Cacciari ebbe dire a proposito di Berlusconi) ma un pericolo etico perché è infinitamente replicabile e legittimato implicitamente dall’abitudine.

Credo che si possa dire così: è un fenomeno che si mostra sul piano percettivo (estetico) e che diventa attualmente il sintomo di una sorta di indifferenza etica. Questa sembra essere la diversità tra il kitsch attuale e quello “classico” studiato da Dorfles e da altri. Al cospetto della sguaiata oratoria televisiva degli attuali leader, ci viene da rimpiangere l’aplomb dei vecchi democristiani o la severità quasi protestante di Berlinguer…

 

La cultura attuale, che erode sempre più l’idea di comunicazioni di massa che istituiscono le forme profonde della socialità, sembra aver superato l’opposizione fra masscult e midcult, come anche quella tra arti d’élite e arti popolari. Che ne è del Kitsch in questo quadro? trova ancora un suo posto? e quale?

 

E’ un bel pezzo che questo è avvenuto, Umberto Eco ne è stato uno dei responsabili. Si potrebbe forse dire: il kitsch non ha un “posto” preciso perché tutto – ovvero la situazione culturale complessiva – è legittimato nel suo essere kitsch senza consapevolezza. Diario minimo o i libri di Queneau avevano un potenziale dirompente rispetto al conformismo narrativo e comunicativo, proprio perché utilizzavano il linguaggio comune in contrasto con il linguaggio ingessato della cultura “alta”, ma oggi mantenere questo potenziale è diventato molto difficile, c’è una gara a “spararle grosse” e ciò che era avanguardia appare normalizzato. Carlo Emilio Gadda era dirompente, Camilleri, come dicono i miei amici italianisti, è subito “lessicalizzato”. Don Ciccio Ingravallo e il suo gliuommero dialettale e volgare costituivano una forte innovazione linguistica rispetto al conformismo della cultura media, dei cabbasisi di Montalbano se ne può chiacchierare al bar. 

 

E tuttavia, per questo dobbiamo arricciare il naso? E con quale diritto? E’ lecita una posizione di arrocco aristocratico come quella, per esempio, di Adorno? Forse la questione andrebbe posta così: si può ancora giocare con il kitsch e con la potenza dei suoi dispositivi impliciti, dei suoi sistemi informali? Mendini, per fare un esempio nel campo del design, a mio parere giocava ironicamente con il suo stesso atteggiamento pop o kitsch, ma i suoi eredi ahimè si prendono sul serio. Se i ragazzi che si laureano, dopo la cerimonia indossano con piacere le coroncine di finto lauro o il tocco, senza sapere da dove vengono, che dobbiamo fare? La stessa cerimonia di proclamazione di laurea, con le sue solennità, non è altro che la replica immaginaria e un po' imbarazzante di un rito simbolico di cui si è perso il senso. 

 

Spesso s’è detto che il K. va alla ricerca dell’effetto facile, dell’’effettaccio’, sul pubblico dell’arte e, in generale, della cultura. L’emergere della cultura in rete, nei blog, nei social (nel bene come nel male) come sposta il problema?

 

Mi pare che l’emergere della cultura in rete moltiplichi l’effetto di conformismo e dell’effetto facile, insomma della scorciatoia. Non sono le singole immagini che sono kitsch, è l’abitudine o l’impossibilità di farne-a-meno, che lo è. Qualche anno fa Agamben scriveva molto duramente che bisogna dis-attivare i dispositivi, questa posizione farebbe pensare che siano i dispositivi che inducono il kitsch come forma di risposta semiautomatica, compulsiva, non riflessiva, priva di distanza.

Mi pare che grosso modo l’alternativa sia questa: disattivare, mettere fuori gioco, o giocare entro gli spazi che questa situazione dà. Credo che Mendini facesse questo, come faceva questo il gruppo olandese di designer che lavoravano sotto il nome collettivo di Droog. Ora si può pensare a un artista coma Banksy, che riesce (ma per quanto?) a mantenere una distanza di gioco rispetto all’istituzionalizzazione della trasgressione.

 

Ph di David LaChapelle.


Altra classica definizione del K. è quella per la quale esso è una tecnica artistica, e comunicativa, che introduce frammenti d’arte alta per giustificare un’opera, invece, dalla facile, immediata ricezione. Una specie di citazionismo nascosto. Oggi Boldini è osannato come un artista, e da decenni il citazionismo è la regola. Tutto è diventato Kitsch?

 

Mi pare di avere implicitamente risposto a questa domanda.

 

I souvenir, i gadget, i portacenere con il Papa, i nani da giardino fanno oggi tanto chic: uno chic, sembra, condiviso dai più. Il K. è altrove?

 

Se partiamo dall’idea che il kitsch si sia normalizzato, sdoganato, cioè sia tendenzialmente dappertutto, allora si perdono i confini. Philippe Starck (i nani da giardino) lo aveva capito ma aveva fatto un’operazione “differenziale” molto vistosa, che oggi non si può più fare, questa stessa operazione (lo scandalo) è riassorbita, lessicalizzata, diventata banale: le persone vanno in visita a vedere la mano mozza di Cattelan in Piazza della Borsa e la vivono come spettacolo, curiosità. Il potenziale contrappositivo dell’arte contemporanea, l’effetto-Duchamp, si è appunto normalizzato.

Ciò che si può dire è che i fenomeni di questo tipo sono instabili, passano di moda facilmente e vengono rimpiazzati da altri dello stesso tipo: a me pare che i nani da giardino siano fuori moda e abbiano una posizione più bassa, banale, rispetto all’enfasi di qualche anno fa. Il che fa pensare che esistano, per così dire, vari “strati” di kitsch. Forse una mossa di gusto (e il gusto è sempre una questione etica, come mostrava Dorfles) consisterebbe nel conservare una differenza, nel non caderci dentro. 

 

Queste palesi trasformazioni rispetto agli anni, per così dire, d’oro, del K. implicano un cambiamento nelle prassi artistiche, un cambiamento nelle nostre aspettative circa l’arte, i nostri gusti, i nostri valori? oppure quel che s’è sgretolato è l’idea stessa di un ‘nostro’, di un qualcosa che accomuni i soggetti implicati nel mondo dell’arte e della cultura?

 

Per me vale la seconda ipotesi: l’idea di un “nostro” o di una “comunità” estetica risale all’illuminismo, Kant parlava della presenza virtuale di un Gemein-sinn, di un senso che tutti abbiamo in comune e che “deve” essere presupposto (in questo senso aveva una posizione trascendentale). In termini lacaniani chiamerei questo “il Simbolico” o la condizione di “efficienza simbolica” (Zizek). Ma evidentemente questa condizione di efficienza simbolica si è sgretolata. A questo punto, nel mutato “regime di finzione” (Augé) un immaginario out of joint induce o se-duce comportamenti in cui la differenza proclamata diventa conformismo.  

 

Credo che sia necessario mettere in mora la stessa idea di comunità. Le comunità hanno oggi un carattere immaginario, non simbolico, e la legittima appartenenza a una eventuale comunità è gestita da agenzie che sono diverse dalle istituzioni culturali del Moderno. 

C’è una frase di Michel Foucault, che riguarda il rapporto tra sapere e potere, che mi ha sempre colpito. Cito a memoria: si può sempre dire il vero nello spazio di un’esteriorità selvaggia, ma si è nel vero solo a certe condizioni – e queste condizioni sono stabilite dall’istituzione che decide della conformità o della “grammaticalità” di situazioni, dottrine, comportamenti e così via. 

A me pare che questa situazione possa essere estesa dal campo dei saperi al campo del sentire o delle percezioni e dunque del gusto: che cos’è oggi la grammaticalità, quale istanza decide o suggerisce i comportamenti, le scelte? In assenza di un’autorità, riconosciuta e accettata, nel caso del gusto prevalgono i rapporti di forza comunicativi. 

Un punto che mi pare importante è questo: come facciamo a distinguere la soglia quando l’intero sistema della comunicazione mediale - compresi i nuovi media – non pone più questa distinzione? Quando le vere agenzie di legittimazione culturale sono diventate le trasmissioni di Fabio Fazio o i Festival? Come faccio a distinguere, poniamo, Michele Mari da Silvia Avallone o da Margaret Mazzantini quando stanno sullo stesso scaffale della libreria e vengono proposti entrambi come “scrittori”? e come fanno i ragazzi che indossano la coroncina di lauro in plastica a rendersi conto che “è kitsch” quando “si fa così”? 

La medialità è un potente strumento di parificazione e un potente suggeritore.

 

Le migrazioni di massa, le diseguaglianze sociali, i disastri climatici e ambientali, i fondamentalismi religiosi e il terrorismo, i social network travalicano la quesitone del K. o lo assumono al loro interno?

 

Questa domanda mi suscita un certo imbarazzo perché mi pare accomunare differenti ordini di accadimenti proponendo di assumerli eventualmente sotto la stessa categoria del kitsch. Certo, ancora una volta: se parto dall’ipotesi che tutto possa diventare kitsch e in determinate condizioni, allora la barbarie può diventare e in effetti diventa, passando attraverso il regime mediale e mediatico, qualcosa di simile al kitsch. Conservare la capacità di provare vere emozioni etiche richiede un’alta dose di consapevolezza.

Ma faccio fatica a mettere sullo stesso piano le guerre, i migranti morti in mare, gli homeless, e l’attività dei social network. Il naufragio con spettatore può essere kitsch o è semplicemente una manifestazione di falsa pietas, di morbosa curiosità, come quando si formano le file in autostrada per vedere da vicino l’incidente stradale? avvenimenti di questo tipo – è l’ipotesi che mi viene in mente – diventerebbero qualcosa di simile al cattivo gusto se venissero percepiti unicamente in chiave estetica. Ma a questo punto si tratterebbe di qualcosa di più e di peggio del kitsch: mai come oggi la questione del gusto ha assunto una rilevanza specificamente etica.

 

Prendiamo un esempio macroscopico, l’attentato alle Twin Towers. C’è stato, fra molti, un modo etico di reagire, gli undici film sull’Undici Settembre girati da undici autori: una testimonianza etica (Mahmalbaf e altri, 2002). E c’è stato il modo inaccettabile di un intellettuale tedesco di intendere la cosa come la più grande manifestazione di arte nel nostro tempo. 

Certo è vero che l’attività dei social network è in grado di kitschizzare (sit venia verbis) qualunque accadimento, visto che sono implicati in un enorme processo di semplificazione e banalizzazione che ha in effetti ricadute sul cattivo gusto. Ma i social network non sono, di per se stessi, kitsch, si può usare il più elementare di questi – per esempio Wikipedia – per iniziare una ricerca su un argomento di cui non si conoscono i termini, altra cosa è se ci si ferma lì, se ci si accontenta della patina superficiale di sapere che i media offrono e la si vende come “sapere”.

 

Forse possiamo ricorrere a una riflessione sull’evento: che cos’è, oggi, un evento? Si danno a mio parere due specie di evento. La prima la conosciamo, è l’evento progettato la cui partecipazione è suggerita dal motto performativo “enjoy!”. Una sorta di godimento coatto, pre-scritto o appunto pre-sentito (M. Senaldi). L’altro è una reale discontinuità che ci segna e che contiene una domanda etica: e adesso che farai? Sarai all’altezza di ciò che accade se ciò che accade ti ha toccato? 

Quando i social network, come si dice, “coprono l’evento”, lo rendono kitsch? O sono essi stessi kitsch? spetta a noi chiederci come reagire: la ripetizione mediatica dell’evento anche indicibile, ma visibile (le Twin Towers) tende a trasformare l’evento in spettacolo e a smorzare, eludere, evitare la domanda etica che l’evento porta con sé, a trasformare l’emozione in abitudine. Non so se questo si possa chiamare kitsch, so che questo è il rischio che la copertura mediatica produce, l’effetto “ancora una volta”, o l’effetto “beh in fondo è sempre la stessa cosa…”.

Ma a proposito di social network, c’è anche di peggio. Ci sono dei limiti oltre i quali il kitsch se c’è, si trasforma in infamia: come è stato possibile che alcuni ragazzi abbiano costruito un sito internet in cui le atrocità naziste diventano occasione di godimento? O anche: l’indifferenza etica verso il kitsch può diventare esempio di male radicale? E con questo intendo: un male cercato come occasione di godimento.  E tuttavia, “essi lo fanno, ma non lo sanno” (Marx).

 

Ph di David LaChapelle.


Stefano Catucci

 

Che cos’è il Kitsch? come potremmo definirlo? vira più verso il cattivo gusto (ossia un gusto differente che a noi non piace) o è semplicemente una mancanza di gusto (una indifferenza verso il gusto)?

 

Come molti altri termini ormai storicizzati, anche il Kitsch non è più lo stesso di una volta. Tutto quel che lo caratterizzava al principio — l’accumulo di stili differenti, il citazionismo, la serialità, l’indifferenza per l’autenticità, la menzogna esplicita, il fascino del brutto — è entrato a far parte di codici estetici che ne hanno modificato profondamente i confini originari. Basti pensare a quanto del vecchio Kitsch è entrato nelle poetiche del post-moderno: basterbbe citare gli scritti su Las Vegas o sull’architettura Pop di autori che hanno avuto una vasta influenza internazionale a partire dagli anni Settanta come Robert Venturi e Denise Scott-Brown. Il risultato è stato un assorbimento del concetto storico di Kitsch in forme estetiche che non hanno più bisogno di attribuirgli una connotazione squalificante o di rivendicarlo rovesciando. Oggi il Kitsch si trova più nelle pratiche di autorappresentazione che in quelle artistiche, cioè più nel modo in cui si definisce e si comunica la propria immagine che non in questioni relative al gusto. Quel che mantiene del suo carattere storico è probabilmente il rapporto con un “eccesso” che tuttavia, per essere compreso, deve essere attentamente ricontestualizzato.

 

È Kitsch, in questo senso, la tomba di Silvio Berlusconi raccontata da Curzio Maltese, una specie di grande ufficio di marmo che riproduce quello da cui si presentò in politica, sono Kitsch il trono e l’arredamento dei Casamonica, sono pateticamente Kitsch le fotografie che mostrano il premier Giuseppe Conte all’interno di quella residenza appena sequestrata, mentre si aggira nelle stanze e sfiora gli oggetti con un senso di rispetto museale, sono Kitsch le felpe della polizia indossate da Salvini e così via. Il Kitsch, insomma, sta oggi in una dismisura tra valore e immagine che denuncia involontariamente non tanto un gusto o uno stile, ma una posizione incongrua rispetto ai contesti nei quali ci si presenta. L’aspetto derisorio del Kitsch, in casi come questi, viene ignorato, ma è come se si vendicasse con effetto di retroazione, coprendo di ridicolo quel che voleva essere solenne.  

 

Si tratta di un fenomeno meramente estetico, o pseudo-estetico, o invade anche i territori dell’etica e della politica? Se sì, in che modo?

 

Proprio perché appartiene al campo della comunicazione, e in particolare alle pratiche di autorappresentazione, il Kitsch è entrato di prepotenza nei campi dell’etica e della politica. D’altra parte, essendo questi ultimi a loro volta interessati da un fenomeno crescente di estetizzazione, mantiene un legame essenziale con la dimensione estetica, anche se questa si presenta più sotto la forma del cortocircuito che non sotto quella di uno stile. In presenza di una scelta artistica, per quanto eccessiva o banale possa essere, non si parla più di Kitsch: tutto è legittimo e tutto può trovare una sua ragione d’essere, dal teschio tempestato di diamanti di Damien Hirst (For the Love of God, 2007) al gabinetto d’oro America di Maurizio Cattelan (2016), il cui furto nel settembre 2019 ha oltretutto mostrato molto chiaramente come l’aspetto del suo valore materiale potesse essere separato da quello simbolico (e prevalere). L’eccesso del Kitsch attuale si genera invece a partire da un attrito, da uno scarto fra le immagini scelte per rappresentare se stessi nella sfera pubblica e il ruolo che in quella sfera si ricopre, a qualunque livello. Il confine è estremamente sottile, ma può essere individuato e si colloca precisamente sul versante etico-politico. Non solo con riferimento a chi ricopre ruoli politici nel senso tradizionale del termine, per esempio incarichi istituzionali, ma anche a chi si rivolge a comunità più ristrette, come avviene nello spazio dei social media, oppure a chi, come un’azienda, ha il carattere di un soggetto impersonale. 

 

La cultura attuale, che erode sempre più l’idea di comunicazioni di massa che istituiscono le forme profonde della socialità, sembra aver superato l’opposizione fra masscult e midcult, come anche quella tra arti d’élite e arti popolari. Che ne è del Kitsch in questo quadro? trova ancora un suo posto? e quale?

 

Il Kitsch ha smesso di essere una discriminante estetica proprio attraverso l’incontro fra arte di ricerca e arte popolare o, per usare una terminologia che ancora incombe sul giudizio accademico, arte commerciale. I travestimenti di David Bowie, per fare un esempio, sarebbero stati Kitsch in altri contesti storici, negli anni Settanta sono diventati glamour e sono stati uno dei fulcri della sua ricerca, prosciugandosi fino alla rappresentazione del proprio incontro imminente con la morte nel potentissimo video di Lazarus (2015). Lo stesso si può dire dei travestimenti di Sun Ra, la cui mistica cosmico-egiziana aveva un effetto perturbante molto diverso dal Kitsch storicizzato, e persino delle scenografie spettacolarmente improntate all’eccesso di musicisti come George Clinton, con i Parliament Funkadelic, o di gruppi come Earth Wind and Fire, con le loro navi spaziali sul palco, i fumi e i colori accesissimi dei loro costumi. Alle spalle di questi fenomeni c’è probabilmente, insieme a una rivendicazione identitaria della cultura nera, anche l’eredità del circo, che com’è noto ha rappresentato per l’arte, nel passaggio fra l’Otto e il Novecento, una fonte di ispirazione niente affatto equiparata al Kitsch. Più che scomparire, il Kitsch ha cambiato pelle spostandosi dal campo dell’arte a quello comunicazione sociale. In questo senso non sono le cose a essere Kitsch, ma l’uso che se ne fa in rapporto alla manifestazione del senso di sé, spesso in modo inconsapevole. Una felpa della Polizia di Stato, in sé, non è Kitsch, ma indossata da un Ministro della Repubblica lo diventa proprio perché denuncia un cortocircuito nella rappresentazione pubblica della sua immagine. Un orologio d’oro, in sé, non è Kitsch, ma lo diventa se lo si indossa come un segno leggibile di potere, così come lo è per lo stesso motivo l’arredamento dei Casamonica nella villa loro sequestrata a Roma e ancor più le immagini di un Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che si muove in quelle stanze con un rispetto museale, riconoscendo implicitamente il valore assegnato dai proprietari a quegli oggetti. Il problema del gusto, in questi casi, è fuori questione, mentre al centro è il rapporto tra il ruolo che si ricopre pubblicamente e l’immagine di sé che si vuole comunicare: il Ministro diventa poliziotto, il criminale re, il Presidente un intenditore. 

 

Spesso s’è detto che il K. va alla ricerca dell’effetto facile, dell’’effettaccio’, sul pubblico dell’arte e, in generale, della cultura. L’emergere della cultura in rete, nei blog, nei social (nel bene come nel male) come sposta il problema?

 

Nell’epoca dei social media si trova molto Kitsch spontaneo, per così dire, anche nelle pagine web con le quali si costruisce la rappresentazione di se stessi. La posa arricciata della bocca di un’attrice in fotografia può essere giudicata sexy o volgare, di buono o di cattivo gusto, non importa, ma si può considerare coerente con il suo ruolo pubblico, un’osservazione che si può trasferire anche all’esibizione dei muscoli scolpiti di un atleta. Le persone che nei selfie imitano quella posa e la riproducono serialmente, trasformandola in una Pathosformel contemporanea della seduttività, aprono invece la porta al Kitsch: non per la posa come tale, ma per la sproporzione tra questa e l’immagine di sé che costruiscono. Nella lotta per la visibilità, una delle più profonde ragioni di conflitto che le nostre società hanno conosciuto in un periodo di lunghissima durata, l’imitazione è senza dubbio un’arma, un mezzo di autopromozione, ma quando lascia intravedere uno scarto fra quello che si è e il modo in cui ci si presenta diventa Kitsch, ribaltando gli effetti che ci si era ripromessi di ottenere.

 

Altra classica definizione del K. è quella per la quale esso è una tecnica artistica, e comunicativa, che introduce frammenti d’arte alta per giustificare un’opera, invece, dalla facile, immediata ricezione. Una specie di citazionismo nascosto. Oggi Boldini è osannato come un artista, e da decenni il citazionismo è la regola. Tutto è diventato Kitsch?

 

Direi piuttosto che niente, nell’arte, è più Kitsch. Dal punto di vista estetico il Kitsch è oggi una categoria che afferra qualcosa di significativo solo se lo si declina sul piano di un’estetica del sé proiettata nella sfera della comunicazione, dell’etica e della politica. 

 

I souvenir, i gadget, i portacenere con il Papa, i nani da giardino fanno oggi tanto chic: uno chic, sembra, condiviso dai più. Il K. è altrove?

 

Tra le etimologie che sono state proposte per la parola “Kitsch” una, forse la meno accreditata, la riconduce all’inglese “sketch”, termine usato fra l’altro per indicare le scene di mercanteggiamento tra venditore e acquirente per decidere il prezzo di un oggetto. Per quanto discutibile, confesso che mi piace questo riferimento a una dimensione teatrale e narrativa che, come una messa in scena, accompagna il rapporto con quanto consideriamo di cattivo gusto. L’esempio di souvenir e gadget è perfetto: raramente li si acquista perché piacciono, molto più spesso per la storia che possiamo raccontare e raccontarci attraverso di loro, e questo anche quando finiamo per pentirci di averli portati a casa. Se possono transitare verso lo chic, oltretutto, è proprio a causa di questa potenzialità narrativa che assume per lo più un tratto ironico e divertito. L’oggetto allora non vale non di per sé, ma per le storie che genera e per il senso di gioco che suscita. Fra l’altro potrebbe essere interessante approfondire un aspetto della produzione contemporanea di accessori, specialmente per la casa, che privilegia proprio l’accostamento con il giocattolo, come se si riferisse a una dimensione dell’adulto di oggi profondamente radicata in un’infanzia da cui non vuole o non riesce a staccarsi. Anche in questo, il Kitsch si trasforma in un vettore di memoria e di narrazione che non riporta più alla sola dimensione del gusto. 

 

Queste palesi trasformazioni rispetto agli anni, per così dire, d’oro, del K. implicano un cambiamento nelle prassi artistiche, un cambiamento nelle nostre aspettative circa l’arte, i nostri gusti, i nostri valori? oppure quel che s’è sgretolato è l’idea stessa di un ‘nostro’, di un qualcosa che accomuni i soggetti implicati nel mondo dell’arte e della cultura?

 

Il momento in cui il vecchio Kitsch è entrato fra i materiali della ricerca artistica coincide con l’affermazione della cultura di massa e con il primo emergere dei fenomeni di globalizzazione. Sullo sfondo di questa maggiore complessità diventa molto più difficile isolare i valori della cultura tradizionale, e al tempo stesso sembra inevitabile che il senso del “nostro” si sia molto modificato. Karlheinz Stockhausen parlava, negli anni Sessanta, di un Museo della Terra ideale nel quale rifluisce tutto ciò che gli esseri umani hanno prodotto nel tempo e nelle loro diversità geografiche. Per lui la tecnologia rappresentava il medium omogeneo in cui tutti i materiali di quel Museo, dai più nobili ai più degradati, trovavano uguale diritto di cittadinanza. Ma questa varietà di patrimoni, oggi decisamente più accessibile rispetto a cinquant’anni fa, doveva per lui ampliare il senso del “nostro”, non farlo sgretolare. L’assorbimento del Kitsch nelle variabili dell’espressione artistica, e quindi la sua scomparsa come segnale del “cattivo gusto”, è forse un sintomo di questo ampliamento, mentre il suo incistarsi nel terreno etico-politico è forse il riflesso del senso di smarrimento che deriva dalla perdita di quanto in passato consideravamo “nostro”.

 

Le migrazioni di massa, le diseguaglianze sociali, i disastri climatici e ambientali, i fondamentalismi religiosi e il terrorismo, i social network travalicano la questione del K. o lo assumono al loro interno?

 

Sono fenomeni molto diversi, ma che si possono ricondurre a unità probabilmente, almeno in riferimento al tema del Kitsch, laddove li si riconducano alle loro forme di comunicazione. Da questo punto di vista è il modo di affrontare questi problemi che può assumere i connotati del Kitsch, laddove la negazione di un fenomeno, per esempio quello dei disastri ambientali, venga legata alla rappresentazione di sé di un uomo politico, di un tecnico o di uno scienziato, oppure l’enfatizzazione di un altro, per esempio il fondamentalismo religioso, venga riferito alla rappresentazione di sé di un’identità collettiva. Un altro esempio potrebbe essere il modo in cui i trafficanti di droga, di grande o di piccolissimo calibro, tendono ad adeguarsi all’immagine offerta loro dalle serie televisive che li raccontano. Il Kitsch prende posto in questa dinamica della comunicazione pubblica. Ciò che mantiene, in continuità con il passato, è la sua forza critica basata sulle risorse dell’estetica. In passato il suo concetto serviva a porre in rilievo i limiti dell’arte o del gusto. Oggi la sua nuova configurazione può servire a denunciare i limiti di un’etica e di una politica sottoposte a processi intensivi di estetizzazione.

 

Esce oggi, a cura di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone, il nuovo volume della collana Riga. Qui l'indice. 

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