Istanbul/Milano / Orhan Pamuk. Città come autobiografia

22 Ottobre 2017

Siamo tutti esuli dalla nostra infanzia, quel luogo mitico, leggendario, magico, perso per sempre, quel luogo in cui le parole assunsero un senso per la prima volta, i gusti presero il loro spessore, quella concretezza fatta di rumori, odori, quel terreno sicuro – anche se non sempre felice – a cui la nostra intera esistenza è ancorata come un naufrago a un relitto. È sempre con una certa tristezza che ci volgiamo alla nostra infanzia, una tristezza lieve e densa insieme che accompagna il libro autobiografico di Orhan Pamuk, Istanbul.

 

Un capitolo intero del libro, il decimo capitolo, è interamente dedicato alla tristezza, alla sua dimensione fisica, diversa da una pura condizione dell’anima come la malinconia. Una tristezza più spessa e più diffusa, una sensazione che emana da certe immagini, una specie di filtro tra noi e le cose. Pamuk descrive la tristezza dell’infanzia come il vapore sui vetri della finestra della cucina di casa o sul finestrino dell’automobile durante i lunghi viaggi d’inverno. Quei vetri opachi sui quali si disegna un cuore o un sorriso per distrarsi dalla noia sono la metafora perfetta della tristezza infantile o della tristezza che accompagna la rievocazione dell’infanzia. È un mondo che è là, intatto, eppure lontano, circondato da una sorta di nebbia di fumo, lo stesso che filtrava le nostre esperienze infantili inevitabilmente deformate dai sensi non ancora maturi, fatti per assorbire il mondo intorno a noi e non ancora per osservarlo o comprenderlo. Il vapore sul vetro è anche la tristezza del nostro sguardo di oggi sull’infanzia, la distanza impossibile da colmare tra i nostri ego adulti e le piccole abitudini, le gioie minuscole che fanno la geografia dei primi anni della nostra vita. 

 

Nel 2006 usciva l’edizione italiana di Istanbul in Italia, da Einaudi, proprio mentre stavo terminando la mia autobiografia dedicata a Milano, la città in cui sono nata e cresciuta, che uscì da Nottetempo due anni dopo, nel 2008 con il titolo: La figlia della gallina nera. Scritta sotto forma di un dizionario delle parole della mia infanzia, una sorta di lessico familiare che ogni famiglia possiede e che cristallizza in qualche espressione le atmosfere, i pregiudizi, le ambizioni e le delusioni di un’epoca, di una città e un ambiente sociale, quel libro era stato per me un modo di sottopormi a un’autoterapia attraverso le parole. Il gioco dell’ “idioletto milanese” era cominciato su un blog che avevo creato per raccogliere le espressioni che a lungo mi erano sembrate appartenere alla lingua italiana per rendermi conto, dopo tanti anni passati all’estero e l’inevitabile distanza che avevo accumulato con la mia lingua madre, che appartenevano solo al mio italiano, a quello di mia sorella, di mia nonna e, soprattutto, di mia madre, figura tutelare della mia educazione di ragazza per bene milanese, uccisa da un cancro quando avevo diciotto anni. Ricostruire tutto ciò attraverso questa specie di dizionario mi aveva permesso un accesso al mio passato nuovo, filtrato dalla lingua italiana dalla quale lentamente e inesorabilmente mi allontanavo.

 

La distanza linguistica che sentivo aumentare tra me e l’italiano cominciava a manifestarsi in piccole incertezze, esitazioni sulle parole, una mancanza di spontaneità che gli ormai tanti anni all’estero facevano pesare sulle mie frasi. Le parole dell’italiano non erano più al “primo ordine”, naturali, spontanee, com’erano sempre state: diventavano come quelle del francese, dell’inglese, o delle altre lingue che studio, parole al secondo ordine, le sentivo nella testa come se fossero tra virgolette e avessero bisogno di essere interpretate. Questo distacco semantico si era compiuto dopo un lungo soggiorno a New York nel 2005, durante il quale avevo migliorato molto il mio inglese, una lingua con la quale avevo da tanto tempo una relazione intellettuale molto profonda, più del francese sotto molti aspetti. Il ritorno d’estate in Italia, passando per la Francia, dove abito da più di vent’anni, era stato brusco: il mio italiano non si accordava più con quello degli altri, la lingua era evoluta in tanti anni, mentre la mia era rimasta immobile, sempre la stessa, come il mondo della mia infanzia che mi voltavo a guardare per la prima volta.

 

 

Proprio in quel momento lessi Istanbul. Pamuk non ha mai lasciato Istanbul, ha vissuto fino a trent’anni nella stessa casa. Il libro emana un’intimità con la città che certo io non posso più pretendere di avere dopo tanti anni di assenza. Così la sua autobiografia si confonde con quella della città, la sua tristezza di bambino si dipinge sugli angoli delle strette viuzze di certi quartieri di Istanbul o sui gabbiani immobili sotto la pioggia, sulle barche incrostate di alghe e di cozze nel golfo del Bosforo. La sua storia e la geografia della città diventano un tutt’uno come se ogni dettaglio architettonico, ogni muro, ogni piccolo negozio nella via del palazzo di famiglia, parlassero la lingua della sua infanzia. Un’esperienza molto diversa da quella di un’emigrata come me, per la quale l’intimità con la città natale non è che un’utopia, la consolazione di un luogo intatto al quale tornare un giorno e che ci accoglierà come il figliol prodigo. 

Era dunque ancora più sorprendente ritrovarmi nel libro di Pamuk, ritrovare la mia infanzia nei dettagli della sua. La mia unica visita a Instanbul risale ormai a quasi quarant’anni fa, in crociera con mia nonna. E ora mi ritrovavo comodamente nell’intimità dell’infanzia di Orhan Pamuk, come se conoscessi i suoi genitori, la casa di famiglia, come se li avessi accompagnati anche io nelle loro passeggiate sul Bosforo.

 

Il sovrapporsi di corrispondenze tra le nostre infanzie era quasi inquietante: la vestaglia della madre a fiori cremisi l’immaginavo identica a quella che indossava mia nonna all’ospedale gli ultimi giorni della sua vita. Mi ricordo che mi chiese di andare a cercarle un’altra vestaglia a casa, di seta chiara, perché non le sembrava decoroso morire indossando una vestaglia a fiori rossi: non si addiceva all’occasione.

L’antagonismo con il fratello maggiore, le continue liti, le lotte furibonde mi ricordavano le zuffe e i battibecchi tra me e mia sorella, i combattimenti selvaggi per terra nella sua camera, i morsi, i graffi e i capelli tirati. Pamuk descrive un dettaglio delle litigate tra fratelli che mi colpisce per la precisione: benché estremamente violente e fisicamente estenuanti, quelle lotte fratricide potevano fermarsi in un istante all’apparire di un adulto, o se qualcuno suonava alla porta, come se quel rituale feroce non fosse in fondo nient’altro che un gioco di complicità. Era la stessa cosa tra me e mia sorella: eravamo capaci di interrompere i combattimenti all’istante per aprire educatamente la porta a un ospite e ricominciare di lì a poco a picchiarci con la stessa selvaggeria.

 

Le gite in macchina sulle rive del Bosforo – madre e padre davanti e i due fratelli dietro – le litigate tra i genitori come se i figli, seduti dietro ammutoliti, non esistessero, mi ricordavano i nostri viaggi ogni week-end in campagna nella piccola Cinquecento di mia madre. I miei genitori si bisticciavano mentre io e mia sorella guardavamo attraverso il vetro posteriore dell’auto le targhe delle altre macchine cercando di imparare a memoria i numeri di targa.

Le “scenate” della madre al padre, le minacce di “buttarsi dalla finestra” – un’espressione che fa parte del lessico familiare della mia famiglia e che utilizziamo ancora oggi ironicamente – la scomparsa ogni tanto della madre o del padre, le dichiarazioni dei nonni, o delle domestiche: “Vostro padre è in viaggio d’affari” oppure “Vostra madre è ammalata”, questo modo di gestire le crisi familiari era identico a casa mia e lasciava me e mia sorella nell’inquietudine di quei misteri familiari, in parte rivelati nelle scenate tra i nostri genitori e in parte nascosti.

 

L’anno del divorzio dei miei genitori, mia madre scomparve tutta l’estate e noi restammo in vacanza in Versilia con la nonna – dove passavamo tutte le nostre estati – con l’ansia di sapere se la mamma sarebbe tornata un giorno. Nostro padre non era invece mai “ammalato”: era in viaggio d’affari. Fu lui alla fine che ebbe il coraggio di dirci la verità sulla loro separazione. Ci invitò una sera dell’autunno che seguì l’estate delle sparizioni alternate di mamma e papà nel suo nuovo appartamento a Milano, dove due grandi fotografie, quelle di una donna e di una bambina dell’età di mia sorella, ci presentavano senza bisogno di troppe spiegazioni ciò che sarebbe diventata la nostra nuova famiglia.

L’atmosfera di una famiglia di Istanbul negli Anni Cinquanta e quella di una famiglia milanese degli Anni Settanta stranamente si assomigliano. Come Pamuk, la frase che ho sentito più spesso nella mia infanzia è: “Spegnete la luce!”.

 

Anche la mia famiglia era benestante, borghese nei modi, con una vera e propria venerazione per la cultura, i buoni libri e il buon gusto e un disprezzo per la religione e tutte le forme di folklore culturale, considerate appannaggio della povera gente e degli ignoranti. Adolescente, mia madre mi aveva pregato di non farmi forare i lobi delle orecchie per non assomigliare alle “contadine cattoliche”. La religione non era criticata in sé: non mi ricordo di dibattiti accesi da piccola sull’esistenza di Dio. Era lo stile religioso, il mondo retrogrado e ignorante dei cattolici, il loro modo di vestire, le loro letture viete, i giudizi da “benpensanti” che i miei genitori non potevano sopportare. Così come i Pamuk erano occidentalizzati, noi eravamo “moderni”, il che voleva dire più o meno la stessa cosa. Mio padre ascoltava musica jazz (facendo finta di suonare il sassofono, un po’ come il padre di Orhan che ascoltava i dischi di musica classica occidentale facendo finta di dirigere l’orchestra), noi ragazze potevamo bere all’aperitivo il Ginger Ale, bevanda alla moda all’epoca che faceva sognare l’Inghilterra. Mio padre si faceva fare camicie su misura in tessuto Oxford, e giacche di tweed per il week-end, durante il quale si andava tutti a giocare a golf. La nostra sicurezza sociale non veniva tanto dal denaro, benché la mia infanzia fu sicuramente agiata, ma dalla “modernità” dei nostri costumi.

 

Eravamo laici, una famiglia di divorziati, ascoltavamo musica moderna, andavamo a teatro a vedere Giorgio Gaber e Dario Fo, leggevamo tre o quattro quotidiani… si trattava insomma di un ambiente di élite culturale più che economica: i nostri privilegi provenivano più dal capitale simbolico della famiglia che da quello economico. I nuovi ricchi che invasero Milano negli Anni Ottanta non fecero infatti grande impressione ai miei genitori. Non erano “come noi” secondo mia madre: non si vestivano bene, parlavano male l’italiano, non utilizzavano i congiuntivi e guardavano gli spettacoli di varietà alla televisione, quelli che mio padre ci vietava categoricamente di guardare.

Il viavai di zie, zii, domestiche, governanti, era caratteristico della casa di mia nonna così come di Palazzo Pamuk, dove la famiglia abitava durante l’infanzia di Orhan. La noia dell’infanzia, i pomeriggi interminabili, i giochi inventati con mia sorella che finivano sempre in lite, tutto questo, scoprivo leggendo Istanbul, era identico a casa Pamuk.

 

L’atmosfera di due città così distanti, così differenti, filtrata dalla tristezza infantile, diventava simile: come per incanto, una città del Nord Italia, senza fiume né mare, e Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente, punto d’incontro tra Oriente e Occidente, città magica, sognata, esotica, potevano somigliarsi nel rumore dei tram che le attraversano, nella nebbia mattutina e i colori scuri dei muri, nella tristezza così tipica delle città del Mediterraneo, che crollano sotto il peso del loro passato, che non possono andare avanti se non al prezzo di perdere se stesse.

La tensione tra modernità e tradizione che schiaccia le città italiane è presente anche nell’urbanismo di Istanbul. Tutto è perdita: le case e i palazzi in legno bruciati, le nuove costruzioni che cambiano il paesaggio. La geografia di queste città non può andare avanti senza perdere qualcosa, come la nostra vita, che va avanti al prezzo di perdere la nostra infanzia.

 

Architetto e disegnatore, Pamuk è un osservatore minuzioso della sua città, che ci dipinge anche grazie allo sguardo che le hanno rivolto altri scrittori. È secondo lui più facile scrivere di una città quando non la si abita, quando si è di passaggio. In effetti pochi sono i libri sulle città scritti dai loro abitanti: le descrizioni delle città italiane di Stendhal, il viaggio in Sicilia di Maupassant, quello a Costantinopoli di De Amicis, o l’Egitto di Flaubert, sono a volte più eloquenti dei racconti degli abitanti. La città si “presenta” al viaggiatore che la scruta, l’interpreta, la decodifica, mentre si “rappresenta” ai suoi abitanti che la vivono tutti i giorni, l’attraversano, l’assorbono nelle proprie emozioni, ne sono parte. Eppure, questo sguardo osmotico sulla propria città ne fa un teatro dell’anima. 

C’è molto da scrivere su Istanbul-Bisanzio-Costantinopoli, c’è poco da dire su Milano, ma entrambe trasfigurate in teatri dell’anima dei loro abitanti esse diventano simili, accompagnano un’infanzia, un’educazione, sono il luogo delle nostre prime esperienze che porteranno in sé per sempre i loro colori e i loro odori.

 

Come la nostra vita, i luoghi della nostra infanzia ci sono familiari ed estranei al tempo stesso. Assomigliamo a noi stessi ma non siamo più la stessa persona che eravamo a venti o a dieci anni. È un sentimento di familiarità che si confonde con l’amarezza della perdita, un po’ come quando incontriamo un vecchio amante con il quale abbiamo vissuto una grande intimità e che non conta più nulla nella nostra vita. Questi luoghi familiari sono sempre là, le prime passeggiate, i giardini, i muretti dei primi baci, ma non ci appartengono più veramente. Ci accompagnano, ci guardano, si confondono con noi, ma non ci possono più proteggere dal distacco fondamentale che ogni vita porta con sé. Quel luogo magico dell’infanzia è così vicino, intimo, dentro di noi e tuttavia perso per sempre.

 

Il testo originale francese è apparso nel recentissimo Cahier de l’Herne Pamuk, éditions de l’Herne, Paris 2017.

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