Speciale
Scuola post shock
Si può riflettere di formazione scolastica, oggi, come si faceva prima della crisi del Covid-19, con gli stessi termini, gli stessi dati, le stesse prospettive? Possiamo ancora chiederci se sia giusto che chi si occupa di educazione faccia bene i conti con l’universo del digitale, le sue lusinghe e le sue insidie, come prima, e ricorra alle ‘evidenze fattuali’ per avere e dare indicazioni convincenti sull’uso dei dispositivi tecnologici?
La mia risposta è negativa.
Muove infatti da una prospettiva necessariamente più ampia di quella di cui molto si discute nell’attuale frangente, cioè del come e in quali condizioni materiali garantire la ripresa delle attività consuete. Nelle classi certo si tornerà, le lezioni prima o poi riprenderanno, via via si stabilirà, in un modo o nell’altro, un’accettabile o comunque accettata normalità. Non fa problema. Né lo fa la previsione di dover far ricorso ancora all’online, malgrado la gran quantità di riserve manifestate.
Piuttosto, resterà, come problema aperto, imprevedibile nei suoi esiti, lo shock provato con l’interruzione delle pratiche scolastiche usuali: agirà in profondità e verrà a galla nelle situazioni critiche, che non mancheranno. Non sarà facile superarlo, a meno che non si arrivi a porre altre domande, più impegnative di quelle fronteggiate nel periodo dell’emergenza.
Ritengo che dovremo abituarci a considerare quel ch’è avvenuto nei mesi del lockdown alla stregua di uno spartiacque storico più che cronologico, e che questa cesura richiederà, per essere elaborata e messa a frutto, un adeguato impegno di concettualizzazione, o, meglio, di riconcettualizzazione dell’intera faccenda dell’educare, considerata in tutte le sue differenti manifestazioni, dalle più alle meno formali. In gioco, insomma, andranno messe non tanto le idee, nuove o vecchie che siano, quanto i parametri con cui farle nascere, riprendere, giudicare, attuare, secondo prospettive di innovazione dell’intero comparto formativo che provino la loro validità non solo e non tanto per gli assetti interni alle istituzioni formative, scuola e università, quanto e soprattutto per il tipo di rapporto, di fiducia o no, che queste intrattengono col mondo circostante: un rapporto che non potrà non cambiare, o che forse era già cambiato, prima ancora dello stop, senza che ce ne accorgessimo.
Il distanziamento della didattica realizzato tramite l’adozione di soluzioni di matrice digitale, soprattutto e talora solo a livello di infrastrutture (piattaforme e dispositivi vari), provando tecnologie più che tecniche, e investendo dunque più su macchine che su procedure per usarle, tutto questo, che è andato sotto l’etichetta della didattica a distanza, ha comunque prodotto, in ragione della natura stessa delle condizioni con cui è avvenuto, un diverso sguardo nei confronti della didattica stessa, quella scolastica e, sia pure in misura meno evidente, anche l’accademica. Avere sotto gli occhi, in una condizione di prossimità teoricamente impensabile, una riproduzione di pratiche al di fuori del loro ‘contesto naturale’, ha consentito a tutti, e in primo luogo agli stessi attori, di cogliere meglio topologia e pragmatica di quel ‘fare comunicativo’ che da sempre, si direbbe, e con limitate variazioni interne, è stato attuato nel chiuso delle aule: cattedra, banchi, lavagna, lezione, libro, valutazione. Come definire questo assetto se non nei termini di una ‘tecnologia’, di una ‘infrastruttura tecnologica’? Non la si vedeva, prima, e non solo perché c’erano le mura a proteggerla. La si vede meglio ora che, dislocata fuori, viene accolta e parzialmente tollerata da un’infrastruttura tecnologica di diversa matrice. Finché si parla una sola lingua quella è ‘la lingua’, quando si inizia a parlare una seconda lingua quella di partenza diventa ‘una lingua’.
In questo senso, il Coronavirus ci sta insegnando, lo vogliamo o no, che anche i termini che designano le attività di insegnamento e apprendimento vanno usati al plurale.
Il fatto è che la didattica non è mai neutra rispetto alle strumentazioni che adotta. Al contrario, in quanto apparato teorico e tecnico di mediazione del sapere non può fare a meno di servirsi di supporti che ne agevolino l’esercizio, né può evitare che i mediatori della mediazione che adotta incidano sulla sua stessa identità. C’è una topologia dell’aula e, in diretta corrispondenza con questa, opera una topologia cognitiva del libro: l’una richiama l’altra e tutte e due rispondono a un modello di comunicazione unidirezionale, quella che va da un centro univoco a una periferia teoricamente omologata. Altra cosa è la comunicazione multidirezionale che caratterizza le attività di una comunità di apprendimento operante in rete. Non è necessariamente migliore o peggiore, è semplicemente altra, sul piano della natura e dunque della topologia materiale e cognitiva dell’esperienza.
Questo per dire che una didattica centrata sullo studio riproduttivo di un sapere già dato tenderà ad assumere una figura e a darsi un compito tendenzialmente differenti da quelli di una didattica fondata sulla ricerca produttiva di un sapere in costruzione. Dunque, il libro come sapere fisso e solido e la rete come sapere mobile e liquido fungono, in termini di principio, da condizioni diverse per la costituzione e lo sviluppo di didattiche diverse; l’una, quella praticata e ‘consacrata’ dalla scuola, appare più subordinata alle logiche dell’insegnamento, l’altra, operante in chiave educativa perlopiù fuori dei recinti istituzionali, almeno fin qui, figura come più orientata alla promozione delle logiche dell’apprendimento.
In ballo, allora, non c’è solo il bisogno di capire se, assunto un determinato ordinamento della didattica, che poi è quello che vige da centosessant’anni, si possano introdurvi legittimamente ed efficacemente delle iniezioni di digitale, c’è invece, ora dovremmo capirlo meglio, l’esigenza di misurarsi con la determinazione tecnologica, ossia libresca, dell’ordinamento ereditato e degli eventuali limiti che questo assetto presenta rispetto ai tempi che viviamo. Appurato questo, potremmo accettare che si imbastisca un confronto fra due modelli di didattica, e che questo sia alla pari.
Attenzione, però. Quella che sto ponendo è una questione che non si lega all’uso di determinati supporti, il libro o il web, e tanto meno trova risposta nell’impegno ad ammodernare le dotazioni materiali delle scuole, degli insegnanti come degli allievi (con distribuzioni di tablet, per esempio), ma che investe la natura stessa dei saperi di cui la didattica (sia essa una o bina o trina, cioè testuale, reticolare, o anche mista) costituisce mediazione.
Qualunque misura si voglia adottare, oggi, per organizzare gli insegnamenti o gestire gli apprendimenti, non si dovrebbe evitare di porre, assieme ad una questione pedagogica, una questione epistemologica: non solo con che cosa formare, ma anche e soprattutto su che cosa e a che cosa formare. Non è, non dovrebbe essere, questo, un problema di materie o discipline da aggiungere: se lo si pensasse in questi termini, si sarebbe ancora vincolati al modello che fa della scuola un apparato di mediazione di testi. Ritengo, e forse ottimisticamente immagino che di qui in poi esso possa figurare, a tutti i livelli, dunque non solo per i più piccoli, come un problema di articolazione, aggregazione e integrazione delle aree dell’esperienza, prefigurando un modello che fa della scuola un apparato di mediazione differente e reciproca sia di testi (saperi oggettivati e stabili) sia di reti (saperi in costruzione e dunque mobili). Auspico insomma la nascita di una scuola anfibia, capace di muoversi e far muovere ad un tempo (e con pari consapevolezza) sulle conoscenze solide e sul quelle liquide.
lI cambio di paradigma di cui sto dicendo e che ritengo sia assolutamente necessario effettuare, deriva appunto da un bisogno che non potrà più essere inteso come istanza locale e settoriale (affidato ad amministrazione, insegnanti, editori), ma dovrà in un qualche modo figurare come la risultanza di un progetto complessivo, della società tutta: quello di far maturare una coraggiosa revisione della qualità e della quantità dei saperi scolastici ereditati dalla tradizione e attuati, in verità piuttosto passivamente, sulla scorta di assunzioni generali mai sottoposte a pubblica discussione.
Dire che il mondo attorno alle istituzioni formative è cambiato enormemente da quando quelle istituzioni hanno assunto la forma che ancora conosciamo e che pochissimo è cambiato di quella stessa forma potrebbe essere fuorviante se non preludesse, appunto, alla posizione di interrogativi sulla legittimità di determinate scelte di fondo.
Di fatto, la geografia sociale della scuola e dell’università italiane è incomparabilmente diversa rispetto a quella delle loro origini ottocentesche. Ma non altrettanto diversi sono il modo e lo spirito del pensare e fare didattica, a tutti i livelli: per via di un imperante immobilismo concettuale che ha assunto via via giustificazioni politiche diverse, non s’è sentito mai, seriamente, il bisogno di revisionare i contenuti e le tecniche cognitive della formazione istituzionale, di agire insomma sui saperi e sulla loro stessa ‘organatura’ (per dirla gramscianamente), al fine di rendere l’insieme della formazione più adeguato ad popolazione interna ed un mondo esterno che andavano via via rigenerandosi, anche profondamente. Accusare il paese Italia, e la sua identità culturale, di aver mantenuto fedeltà, nel secolo e mezzo e più di vita, al suo originario impianto elitario ed aristocratico sarebbe assurdo. Non lo è invece accusare il sistema formativo di aver mantenuto inalterato, al suo interno, il nucleo di un’antica vocazione elitaria ed aristocratica. Che si sia discusso per trent’anni di latino, a proposito della riforma della scuola media, e che la soluzione maturata sia sentita tuttora da non poche anime belle come un vulnus la dice lunga.
Le volte che ancora oggi viene sollevato un simile tema, il nucleo elitario e aristocratico di cui sto dicendo viene etichettato come ‘gentiliano’, ma si dimentica che, per volontà dello stesso Gentile, solo in parte ridimensionata poi dal ‘tradimento’ operato dalla pedagogia fascista, quella riforma rispondeva ad un’opera di restaurazione della filosofia inerente all’atto stesso di fondazione della scuola nazionale. Due erano i capisaldi, gli stessi che tuttora in un qualche modo resistono, e non solo nell’inconscio pedagogico: essenzialità e marginalità di una formazione primaria di tipo strumentale, centralità di una formazione secondaria organizzata attorno al valore superiore attribuito ai saperi umanistici, di stampo prioritariamente letterario, rispetto al significato pratico attribuito ai saperi scientifico/tecnici.
Si potrà obiettare che un problema di tale profondità non nasce adesso e che impegnarci a rivedere l’epistemologia del fare scuola, proprio ora, presi come siamo da problemi materiali di un arduo funzionamento quotidiano, equivarrebbe a concederci un lusso non solo immeritato ma anche controproducente.
Una risposta l’ho già data. Il lockdown ha reso trasparente ciò che avveniva all’interno degli edifici, ha reso visibile la didattica agli stessi attori, e al mondo circostante. Ciò che era vissuto come ‘naturale’ e ‘normale’ è stato messo in luce dall’anormalità dell’artificiale. E comunque la figura di quella ‘normalità’ dovrà essere modificata, alla riapertura degli edifici, per i residui di un’emergenza sanitaria che è stata e non smetterà di essere anche educativa. Lo sfaldamento di quel modello, per l’esposizione che ha subito, ha avuto inizio. Certo, non sempre gli osservatori esterni alla scuola sono stati attenti a cogliere i segni di questa crisi, ma dentro la si è sentita, ed è indubbio che i suoi effetti troveranno eco nella quotidianità.
La seconda risposta è di tipo più generale, e si lega alle prospettive della ripresa che ci attende, difficile da tutti i punti di vista, non ultimo quello economico. Occorrerà fare sacrifici, lo sappiamo. Li si dovrà fare anche in ambito educativo. A qualcosa occorrerà dunque rinunciare. Ecco, sarebbe importante che rinunciassimo a pensare che sia giusto, per le dotazioni culturali di base, continuare a marginalizzare i linguaggi sonori e quelli visivi subordinandone il valore ai linguaggi scrittori, e, per quelle più avanzate, rinunciassimo ad intestardirci nel confermare una rappresentazione divisiva più che aggregativa di sapere, dove scienza e tecnologia non dialogano con l’area dei saperi sociali, e viceversa. Gli strumenti per uscire da questi vincoli oggi li abbiamo: quelli materiali concretamente, quelli concettuali potenzialmente. Si tratta di mettere a frutto gli uni e gli altri, e dunque di provvedere, anche dentro le scuole, anche dentro le università, a costituire delle zone franche per la didattica ‘altra’, dove mettere in campo, liberamente, al di fuori dei vincoli consueti, pensieri e pratiche più rispondenti alla natura dialogica, costruttiva, collaborativa di un sapere reticolare, aggregativo, costruttivo, partecipativo: di un esperire, un conoscere e un fare, tra l’altro, più rispondenti alla matrice storica, ma anche all’attuale rappresentazione a livello internazionale della cultura italiana, fatta di suoni, immagini, manualità, di innumerevoli territori ‘indisciplinati’.
Al di là delle resistenze, delle improvvisazioni e delle rigidità, la didattica a distanza ha comportato una grandiosa opera di iniziazione collettiva ad esperienze, condotte e cognizioni di cui la gran massa dei docenti e pure degli studenti non aveva sentore, tanto meno coscienza. Sarebbe importante investire su questa vicenda del tutto anomala, non relegarla dunque dentro i vincoli di un’emergenza da archiviare al più presto, e far sì che l’autonomia e la flessibilità di cui non si potrà fare a meno, fin dal prossimo difficile anno della ripresa, possa esercitarsi anche sul nobile e colpevolmente ignorato tema di ciò che si impara e si insegna nelle scuole.