Sky and the Family Stone / Storie di parentela secondo ZimmerFrei

24 Novembre 2016

“Non farò figli per questo Paese”. Quarantatré giovani, una dopo l’altra, pronunciano questa frase in primo piano. È Stop Kidding, la video-installazione che ZimmerFrei presenta al padiglione dei giovani artisti italiani della Biennale di Venezia 2003, quando sono passati poco più di tre anni dall’apparizione sulla scena italiana del collettivo composto da Massimo Carozzi, Anna de Manincor e Anna Rispoli. Un filo teso congiunge quella pronuncia netta e frontale che mirava a “spaccare la membrana protettiva tra corpo singolo e corpo sociale” e il progetto Family Affair che ZimmerFrei sta sviluppando da più di un anno in diverse città europee (Lille, Valenciennes, Varsavia, Budapest, Torres Novas, Milano, Losanna), sperimentando un formato partecipativo che tiene uniti video, archivio sonoro e performance dal vivo. 

Qui è la famiglia contemporanea, questo monstrum esploso e non ben definito, a esser il nucleo da cui prendono avvio nuove possibili narrazioni sul progettarsi delle esistenze, gettando una luce di volta in volta diversa su aspetti distintivi, come l’essere figli, la maternità e il maternage, i padri single, l’eredità e la trasmissione generazionale inscritta nel mutamento culturale dei rapporti tra genitori e figli, la sorellanza/fratellanza.

 

Torres Novas, ph Zimmer Frei.

 

Nessuna geopatologia dello spazio domestico anima il progetto prodotto dal network europeo Open Latitudes. Con Family Affair – sostiene Anna de Manincor – si tratta di costruire un “archivio vivente, una documentario live, in cui la famiglia diviene sorgente di un epos contemporaneo. Si tratta in definitiva di porsi una domanda tanto sincera quanto imbarazzante: come viviamo? come si tessono le nostre relazioni nel tempo in cui vita e lavoro sono completamente e biopoliticamente sovrapposti?”.

 

Milano, ph Michela Di Savinio.

 

Rispondendo a una chiamata pubblica, le sette famiglie (biologiche, acquisite, di elezione) della tappa milanese, hanno lavorato per poco più di due settimane in residenza al TeatroLaCucina, grazie alla collaborazione con Olinda, per presentare il loro family affair nella cornice di Danae Festival. La performance inizia con il suono. Sono i rumori di casa. Al buio. Passi, stoviglie, sospiri, bisbigli. Questo incipit, concepito come un aniconico environment sonoro, appare subito come una dichiarazione di intenti: si tratta di dismettere da subito ogni abito voyeuristico. Tutti i membri delle varie famiglie sono semplicemente seduti nello spazio, bagnati da una luce diffusa. Su un grande schermo appaiono, l’uno dopo l’altro, i vari partecipanti. Sono ritratti nelle loro case, seduti a occhi chiusi. Indossano gli stessi vestiti che hanno in scena (si allude a una sovrapponibilità tra ripresa e scena?). Al centro dello spazio, dei microfoni. Questo è il minimal setting da cui prendono avvio le storie raccontate. Sono verbalizzate da un altro membro della propria famiglia che, doppiando in cuffia parti di discorsi precedentemente raccolti in sessioni di interviste, finiscono per comporre un patrimonio di esperienze in cui è sospesa ogni urgenza di autorappresentazione. Nel gioco del doppiaggio in presa diretta nessuno rende ragione degli esatti vincoli di parentela. Nessuno entra o esce, semplicemente sub-entra in questo microcosmo dove nulla è esposto, ma neppure qualcosa è davvero celato. La propria voce restituisce il dettato dell’altro, lasciando scorrere una corrente affettiva che passa nelle esitazioni, nei tic vocali, nella simulazione involontaria delle cadenze ritmiche. Liberata l’esecuzione dall’ansia della prestazione, si taglia fuori ogni sentimentalismo, ogni esercizio narcisistico di autoespressione, convocando una presa in carico del discorso dell’altro. Nel farsi portavoce si opera in definitiva un sottile collasso tra affettività e racconto oggettivato. 

 

Milano still da video.

 

Questo dispositivo a domino è un modo per sfiorare le storie di famiglia, per alludere alle cose senza farle essere nel loro peso reale, e forse proprio per questo ancora più reali. È un modo particolare di far brillare in un dettaglio un intero mondo, senza gli effetti carichi di compiacenza che ogni racconto di sé comporta. Qui la narrazione e la sua emancipazione dall’autobiografia si tengono sul filo sdrucito di un montaggio drammaturgico, sapientemente giocato su contrappunti, composto di frasi sottratte da un racconto avvenuto altrove, e stanno lì per evocare, alludere, far balenare senza far vedere. È l’introduzione di un’altra dimensione di scala, dove fantasmi e storie reali, esercizi di riscrittura e di memoria, patrimoni individuali e collettivi sono mescolati in una scrittura che sonda il limite tra realtà e reinvenzione. Si suggeriscono un ambiente e una situazione familiare mediante pochi elementi essenziali: una concentrazione del molteplice nel semplice, una composizione elementare che procede per successioni di quadri, che contempla finanche qualche slabbratura ritmica. Questi nuclei scomposti non hanno nulla del reso-conto, giacché ciò che conta qui è il travaso testuale che vive nell’indecidibilità di fondo tra il vero, il simulato, il verosimile, come nella conferenza finale dove a turno tutti i partecipanti pronunciano randomicamente le risposte tratte dal questionario di partenza (domande 6, 7, 9, 12). In mezzo prendono spazio le connessione immaginarie degli spettatori che hanno il compito di giocare con le lacune, provando a ristabilire i nessi recisi: chi racconta cosa? chi è figlio / padre / madre/ sorella / amico di? chi dà la sua voce a?

 

Milano, ph Michela Di Savinio.

 

Il momento “Statistiche” entra come una raggelata e ilare cascata numerica che informa su aspettativa di vita media di uomini e donne, tasso di disoccupazione, bambini inferiori a 3 anni affidati ai nonni o altri membri della famiglia, differenza annuale tra il numero di nascite e di decessi, mentre “Antropologia” cuce insieme le riflessioni della sociologa Chiara Saraceno con le ricerche dell’antropologo americano Marshall Sahlins. Questi passaggi, letti dai partecipanti, non sono lì a legittimare una tesi. Nei loro richiami etnografici, balena una pura e semplice intuizione che illumina i legami familiari, vale a dire l’idea che la parentela non è solo un fatto biologico ma la trama di altre “invenzioni del quotidiano” come la commensalità, la residenza comune, la memoria condivisa, il lavorare insieme, il patto di fratellanza, l’adozione, l’amicizia, le sofferenze condivise. Ogni volta, di tappa in tappa, si compone così un tessuto stratificato e vivo di relazioni che, pur nella fissità modulabile di uno stesso impianto strutturale, sfuma in tonalità differenti, strettamente legate alla geografia antropica e politica del luogo, come a Torres Novas, parte del distretto provinciale di Santarém, perno della tappa portoghese sviluppata in collaborazione con il festival Materiais Diversos. Qui la storia di Carla che lascia i figli in Portogallo per andare a insegnare in Angola fa sbalzare in primo piano il fenomeno dei “retornados” e la storia colonialista del Paese. Si danza sui tappeti provenienti dalle botteghe artigiane e dalle industrie tessili di Minde, unico indotto economico del territorio. L’apparizione di Fátima, nel racconto di un amico di famiglia, non è altro che l’aurora boreale con la sua gamma di forme e bande luminose.

 

Milano, ph Michela Di Savinio.

 

A Torres Novas la corrente narrativa si innestava su una palpabile complicità tra i diversi nuclei familiari, diventando un tassello essenziale di quell’Exceptionally Common, che la direttrice artistica Elisabete Paiva ha disegnato per l’ottava edizione del festival. In questo territorio periferico e rurale, Family Affair diventa “capace di investire sul senso di comunità – confessa Paiva – con una modalità assolutamente inedita in Portogallo, dove negli ultimi anni sembra esistere un’idea canonica su cosa sia un buon progetto partecipativo. Il lavoro di ZimmerFrei si fonda su una modalità costruttiva, i cui diversi elementi non sono organizzati per cercare il consenso, designano semmai una mappa di equilibri in cui le persone coinvolte possono trovare un luogo proprio, lavorando di concerto con gli altri, e gli spettatori sentirsi parte in causa”.

 

Milano, ph Michela Di Savinio.

 

Dopo aver assistito all’episodio portoghese e a quello milanese, la famiglia – vera o immaginaria fa poca differenza – ci appare come l’esoscheletro per uno storytelling in cui questa costruzione sociale, legale e normativa – colta nello snodo tangibile dei suoi più imprevisti cambiamenti, vale a dire nel seno del suo vivo declinarsi – appare come il vero punto cieco del lavoro, si svela come un luogo intrattabile. Ciò che conta è il gioco che si consuma nell’asimmetrica prossemica dei corpi, nei territori di interscambio affettivo in cui la voce diventa veicolo di narrazione, nel rifiuto o nell’adesione a presunte regole di reciprocazione. 

Quello che più emerge infine da questi “affari di famiglia”, che si guardano bene dall’occhieggiare alla consolatoria effusività del dolore dell’altro, è ogni volta un ritratto di città, (forse di un Paese?). “Città temporanee” non dissimili da quelle che compongono Temporary Cities, film-documentari realizzati da ZimmerFrei dal 2010, girati circoscrivendo piccole aree – vetrine di negozi e pubblici esercizi, un quartiere o anche solo una piazza, una collina artificiale, lotti deserti senza destinazione d’uso – di alcune città europee (Bruxelles, Copenaghen, Budapest, Mutonia/Santarcangelo di Romagna, Marsiglia, Terschelling, Chalon-sur-Saône). Interstizi, zone di invisibilità, patti esoterici di comunanza contro le prescrizioni che disciplinano le singolarità, registri vocali e path acustici, modelli sociali, usi culturali, coefficienti personali e coni d’ombra sono il terreno su cui si dispiega una “spazialità antropologica” dove le esistenze si progettano, producono divenire, si trasformano, descrivendo ecosistemi variati.

 

Torres Novas, ph Zimmer Frei.

 

La città – vera o immaginaria fa poca differenza – diventa uno scenario crudele ed eccezionale per attraversamenti ritmici, percorsi su cui agire uno “sguardo contropelo”, rigoroso e benevolo, capace di catturare i sintomi sfuggenti, i lapsus o le epifanie del quotidiano, i modi e i tempi dell’abitare, nelle quali si rinnova l’appartenenza al presente. La ripresa time-lapse di Panorama (Roma, Bologna, Atene, Harburg) che comprime in pochi minuti l’arco intero di una giornata, dislocando micro-drammaturgie, non è un modo per suggerire, in una vertigine temporale fuori e dentro il campo scopico, le dinamiche relazionali in cui si scrivono le vite? 

 

Torres Novas, ph Zimmer Frei Teresa.

 

Una tattica precisa allora emerge nelle pratiche artistiche di ZimmerFrei: è il movimento. Un movimento di città in città, con Bologna e Bruxelles come stazioni di partenza e arrivo. Come a rivelare che il loro orizzonte linguistico multidimensionale, in cui ricerca filmica, performativa e musicale negoziano un discorso in-comune, è tale perché cospira con le forme dello spostamento e dello spaesamento. Prossimità, distanza, e il moto sismico che ne determina i gradi di intensità, sono metri per investire la relazione (il loro stesso vincolo parentale?) nel più ampio spettro di senso. Qui campo largo (non a caso era il titolo della personale curata da Stefano Chiodi al Mambo di Bologna nel 2011) e primissimo piano finiscono per essere modi per operare colpi di mano nell’ordine del visibile, modi per restare attaccati all’esperienza – vera o immaginaria fa poca differenza.

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