Lo specchio e il suo doppio: Muna Mussie
Il lavoro performativo di Muna Mussie, artista eritrea naturalizzata italiana e residente a Bruxelles, si fonda su una formalizzazione minuta dell’atto scenico. Sempre a un passo da una impressione di non-costruito o costruito troppo, nelle sue performance l’eccesso di struttura e il difetto di dinamica drammatica sono la condizione per creare un senso-della-misura che fa della scena uno spazio dell’intimità. Elementi ricorrenti della sua ricerca sono la dimensione del gioco (infantile), una componente implicitamente politica connessa al suo specifico portato autobiografico – segnato da “una doppia identità culturale per provenienza e per adozione” –, il tema di una timida femminilità, il nocciolo duro del riconoscimento nella relazione con l’altro.
I suoi esordi, segnati da un’essenziale nettezza di gesti e da una certa bidimensionalità dell’impaginazione visiva, sono giocati su una consapevole drammaturgia d’oggetti (palline bianche, corde elastiche, fazzoletti), su una combinazione di gesti usuali/inusuali ridotti all’osso (salti, camminate, oscillazioni delle anche, inseguimenti), su frasi in prestito dal quotidiano più spicciolo e su presenze singolari e mai generiche (lei stessa/bambini/giovani donne/il fratello). Rivelano, inoltre, una tensione a fare della performance la creazione di un luogo d’interiorità esteriorizzata, in una topografia provvisoria che mostrando di liberarsi – con una certa coraggiosa ostinazione – da un’idea di efficacia scenica finisce per rendere problematico lo spazio della rappresentazione. Così, se la performance Madrepatria (2006) toccava il nodo delle sue origini come pretesto per circoscrivere un’idea d’identità come fuori luogo, Più che piccola, media (2007) e Con Permesso (2008), pur nella sostanziale diversità di formato, rivelavano una comune tensione a delimitare uno spazio e una durata dove collocare il “proprio” mondo invaso dal desiderio dell’altro.
Il discorso si amplia in Ti ho sognato, ma non eri il protagonista (2009), performance vincitrice del Premio Gai/Mondo 2010, che si colloca sulla superficie di una trasparenza esecutiva, millimetricamente calcolata, e indaga, attraverso una confusione percettiva tra presenza fisica, uso live del video e sonorizzazioni di oggetti, un possibile fuori della scena. Dal gioco tra il frame filmico e l’azione che si intravede da dietro il muro, si tematizza un’idea di durata in cui flash forward e flash back coincidono, si allerta l’aspettativa e il tradimento dell’aspettativa dello spettatore.
Monkey see, Monkey do (2012) –primo momento della nuova fase di ricerca sviluppata con il supporto di workspacebrussels – è stata presentata nella Palestra delle Scuole Guinizzelli di Bologna nella cornice Sporting ideata da Xing, realtà che sostiene da sempre l’artista. In questo lavoro in corso di sviluppo, Muna Mussie si sottrae dalla scena e matura l’abbandono del piano più strettamente autobiografico per investigare le stesse ossessioni di sempre attraverso un impaginato scenico tenuto al minimo per effetto di una sensibile costruzione della durata. In scena, dunque, le performer svizzere Giorgia e Muriel Del Don, gemelle omozigote.
Sin dal titolo Monkey see, Monkey do adombra il tema di un a-due inteso come figura specchiante guardata e guardante. Il doppio – scampato alla facile declinazione della materia gemellare – vale qui come specchio deformato di un’alterità irriducibile, che s’insinua nell’osservazione delle minime discordanze tra i due corpi e i loro movimenti. Quello che Giorgia e Muriel – t-shirt blu, cuffietta e canotta nera, jeans, mocassini mogano – fanno è essenzialmente camminare. La loro retorica pedestre è circolare. Ridondante, ma non montante. La sequenza-camminata, inscritta nel verde-blu della palestra, si ripete uguale/simile/differente fino alla fine. Il loro incedere è un perdersi e incontrarsi in un continuo déjà vu, scandito dal ritmo di un clap registrato da un gioco a quattro mani. Il cruciverba sonoro di questa sequenza-in-battiti è il mantra sincopato che si stende su tutta la performance, incorniciata della filastrocca “Digue dondaine digue dondaine”. Il primo ascolto, quello che inaugura l’azione, è la registrazione di due voci (le gemelle, che sentiremo pronunciare solo “Miao”, “Bau”?). Il secondo, quello della fine – presentato come un ironico e falso doppio “gran finale” – è l’originale tratto dall’ultima scena del film Mais ne nous délivrez pas du mal di Joel Séria, in cui due sorelle (indemoniate?) recitano la cantilena, in una sorta di saggio scolastico, fino a darsi fuoco.
Dentro questa cornice, Monkey see, Monkey do dà spazioad accadimenti semplici, che trattengono una tensione al costante, senza scosse, fino al rischio della noia. Le due figure sono una di fianco all’altra, quando una voce registrata elenca le parti del corpo. Vicendevolmente, l’una evidenzia una parte indicata nel corpo dell’altra (con una mano guantata). L’atto “dimostrativo” di questo corp morcélé è tenuto compatto dalla nominalistica identificazione delle parti come immagine di sé nel proprio simile (la gemella) e torna indietro allo spettatore come un invito a pensare al proprio corpo (per segmenti), alla “forma” della propria immagine che si rivela un’identità a sé, altra. Questo cortocircuito iniziale informa tutte le azioni successive soggette a una dinamica di reiterazione circolare.
Significativo è il senso di intromissione prodotto da un audio, prelevato con tutta evidenza dalla rete, che amplifica le voci della Storia (Hitler, Mussolini, Papa Giovanni Paolo II). I discorsi sono labiati da una gemella in una posa ridicolmente plastica, da pantomima, come se si trattasse di rivelare un pettegolezzo all’orecchio dell’altra. I materiali, dichiaratamente dozzinali, valgono come un moto di declassamento di una memoria maggiore, inscritti nella tessitura generale della performance, e finiscono per dare valore a un’idea di prossimità, di dedica, di femminile. Il richiamo alla storia, alla guerra, alla religione come residuo di materiali-a-casaccio – in un’ironia di fondo – ri(con)duce la pronuncia al brusio che anima la riaffermazione di un surplus identitario tutto al maschile.
A un certo punto le gemelle si sfilano la cuffia che uniformava il loro aspetto. Aprono le due tende bianche del fondo della palestra. Una parete riflettente vi campeggia. In essa sono inquadrati gli spettatori e l’autrice dietro la consolle di regia. La scena è qui al contempo guardata e guardante al suo massimo grado. Doppia se stessa, e rende lo spettatore parte del quadro e sguardo dell’altro. Questa esperienza di riflessi (in)condizionati tra l’io e l’altro sarà, per Muna Mussie, terreno d’indagine a venire.