Speciale
Pensiero divergente / Svezia e Corea: due modelli
Cosa può insegnarci il modello Svedese? di Simone D'Alessandro
La spinta gentile contro la cultura dell’autoreclusione sorvegliata
Quando è scoppiata l’emergenza Covid-19 in occidente, le nazioni Europee hanno preso strade differenti, condizionate dai propri riferimenti etici, valoriali e culturali: paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia – successivamente Francia, Danimarca, Norvegia e Finlandia – hanno deciso di fare il cosiddetto lockdown, consistente nel chiudere gran parte delle attività economiche e isolare i focolai, invitando la popolazione a restare a casa, optando per un approccio morale deontologico universalista. Si è deciso di seguire la massima universale: tratta le altre persone come fini in sé e mai come mezzi per un fine, perché ogni vita è unica e merita di essere salvata. Nel fare questo le nazioni sono state evidentemente influenzate dal dettato costituzionale, derivato dal retaggio culturale cristiano e dalla teoria morale deontologica kantiana, consistente nella volontà di prendersi cura di tutti, prescindendo da età e condizioni di salute pregresse.
Al contrario il Regno Unito ha, inizialmente, optato per un modello basato sull’analisi costi/benefici, seguendo la tradizione utilitaristica fondata su un approccio morale consequenzialista.
Il suo primo ministro, ha parlato esplicitamente di immunità di gregge. La scelta dell’immunità di gregge prevede un laissez faire alla pervasività del virus e implica un numero notevole di morti e la contaminazione di almeno il 60% della popolazione britannica prima che si raggiunga l’obiettivo di immunizzazione totale. In tal modo, si baratta il funzionamento del sistema economico – che non si arresta – con la salute dei cittadini. Weber avrebbe valutato questa scelta come coerente con l’etica protestante e calvinista alla base dello spirito capitalista. Questo tentativo anglosassone è stato repentinamente abbandonato, perché non accettato dalla collettività.
La Svezia, invece, ha proposto un modello divergente e sostanzialmente condiviso dalla cittadinanza. Ha avuto la capacità di non tornare indietro nelle sue scelte, confidando nel comportamento virtuoso dei suoi cittadini, dando indicazioni su come evitare comportamenti rischiosi, senza arrestare le attività sociali ed economiche, partendo dal presupposto che con il virus si dovrà convivere per molto tempo. Questo non significa che il governo svedese non abbia adottato misure per il contenimento dei contagi: ha chiuso le scuole da 16 anni in su e le Università (che in parte hanno continuato a funzionare con l’e-learning); ha disposto un divieto di assembramento superiore a 50 persone (con previsione di multe e persino reclusione); ha raccomandato il distanziamento sociale dagli anziani (niente visite negli ospizi) e il rispetto di distanze minime nei supermercati e in altri luoghi al chiuso. Le altre attività economiche e ricreative sono rimaste aperte.
La Svezia ha potuto permettersi di agire in contro tendenza, per una serie di motivazioni di carattere culturale, sociale e territoriale: a) quasi il 50 percento della popolazione svedese è monofamiliare; b) l’opinione pubblica è più disponibile ad accettare un diverso rapporto di rischi/benefici nelle scelte strategiche; c) i cittadini hanno una visione dell’indipendenza e un rapporto con la solitudine che li agevola quando la distanza sociale diventa la norma; d) il territorio presenta una bassa densità di popolazione; e) in Svezia vi è un rapporto equilibrato tra città e campagna, tra spazi vitali per la persona e spazi lavorativi, tra città medie e borghi; f) lo stato ha costruito, nel tempo, un rapporto altamente fiduciario con i propri cittadini che sono responsabili a prescindere dalle prescrizioni; g) la strategia di comunicazione istituzionale ha ridimensionato l’emergenza per evitare isterie e psicosi, contrastando l’allarmismo mediatico ed evitando incrementi ingiustificati di ricoveri che concretamente amplificano i contagi, come è accaduto in altre nazioni; h) il pool scientifico di supporto alle decisioni dello stato svedese, è partito dal presupposto che non ci siano prove sul fatto che costringere tutti a stare a casa possa fare la differenza, essendo l’epidemiologia una scienza sociale; ciò è stato anche ispirato dalla storia: nell’epidemia di colera del 1830, la Svezia aveva optato per la quarantena, con la febbre spagnola del 1919 ha cambiato strategia e ha superato la pandemia con cifre meno devastati di molte altre nazioni; i) è nella tradizione svedese essere pioniere di scelte divergenti che successivamente vengono accettate anche dagli altri paesi scandinavi (si consideri che la Danimarca osserva con interesse le scelte del governo svedese).
Un insegnamento fra tutti emerge da questa esperienza: mentre altre nazioni hanno la necessità di utilizzare la paura e le sanzioni per obbligare la collettività a un comportamento responsabile, il governo svedese ottiene fiducia a prescindere dalle norme e anche in situazioni di normalità. Una strategia che ha funzionato per tanti altri temi come, ad esempio, la vaccinazione. In Svezia non vi è una legge che obbliga i genitori a vaccinare i figli contro le note malattie epidemiche, eppure il tasso di copertura vaccinale raggiunge quasi il 99% (in Italia, pur in presenza di obblighi normativi, i tassi variano tra il 93 ed il 94%).
Tra l’altro un recentissimo studio (pubblicato il 20 Aprile 2020 qui), guidato da un team internazionale di epidemiologi italiani, spagnoli e tedeschi, ha sviluppato un modello previsionale sull’andamento del Covid-19, confrontando i dati reali e quelli attesi di Italia, Germania e Svezia. Dalle curve si deduce che i tempi e la portata di diffusione del morbo sono praticamente gli stessi ovunque, indipendentemente dalle misure adottate (ovviamente se la curva resta identica nella forma, il valore assoluto dipende dalla portata dell’infezione all’inizio del ciclo). Di conseguenza, secondo la tesi del team di scienziati: contano solo le regole di base (ossia di distanziamento) e non le misure più o meno restrittive.
Un risultato che mostra la bontà dell’approccio svedese basato sul circolo fiducia/ libertà /senso della responsabilità individuale. Si tratta di una variante dell’utilitarismo negativo, definito utilitarismo della regola che tenta di combinare i migliori aspetti dell’utilitarismo con i migliori aspetti dell’etica deontologica. Si adottano regole generali che producono maggiori benefici per tutti o per il maggior numero di persone, lasciandole libere di scegliere. I governanti svedesi ritengono che i propri cittadini possano rispondere meglio alle raccomandazioni che agli obblighi.
Potremmo definirla una spinta gentile – come teorizzata dal premio Nobel ed esponente dell’economia comportamentale Richard Thaler – che ha già dato i suoi frutti: le aziende hanno deciso autonomamente di riorganizzarsi con lo smart working e le famiglie hanno deciso liberamente se uscire o rimanere in casa, se continuare a portare i figli a scuola o seguire le lezioni in remoto. Infine, il modello svedese costituisce un esempio di resistenza contro l’attitudine al controllo pervasivo degli spostamenti dei cittadini attraverso app di contact tracing.
Ha ragione Yuval Noah Harari quando sostiene che i provvedimenti d’emergenza a breve termine, diventano parti costitutive della quotidianità, poiché è la natura stessa delle emergenze a determinare un’accelerazione dei processi storici, allora si corre il rischio di creare patologici modelli sociali a partire da condizioni di vita del tutto eccezionali e temporanee. Per questo la Svezia ha deciso di rispondere alla crisi con la normalità.
La modernità, dall’illuminismo ad oggi, ha consolidato le sue strategie di controllo bio-politico e di contenimento sociale, come ampiamente mostrato dalle ricerche di Foucault, attraverso la cultura dell’emergenza. Dobbiamo fare attenzione a queste raffinate forme di ‘democratura’: stiamo avverando le profezie distopiche del capitalismo della sorveglianza, come ci ricorda Shoshana Zuboff. Non possiamo arrenderci all’idea di evolvere in Hikikomori tracciati da un dispositivo di sorveglianza. Vivere significa: con-vivere con il pericolo e il senso della morte.
Un palestinese, un israeliano, un afgano, un libico – e la lista potrebbe continuare – sanno che ogni giorno potrebbero essere ammazzati da una bomba o da un cecchino mentre fanno la spesa, o accompagnando un figlio a scuola, ma non decidono di fermarsi. Cambiano, semmai, strategie comportamentali, incrementando il pensiero strategico e l’azione cauta.
La cultura della sicurezza totale, sta generando una ‘Società in remoto’ costituita da individui passivi e psicotici che decidono di auto segregarsi in attesa della morte, come nel Deserto dei Tartari di Buzzati. L’esempio Svedese ci ricorda che è sempre possibile un pensiero divergente, perché la socialità è relazione e appartiene alla libertà di agire responsabilmente nei mondi vitali.
Un italiano in Corea, di Federico Pianzola
Covid-19, democratici coreani e app
È notizia di questi giorni che il partito democratico coreano, a cui appartiene il presidente in carica Moon Jae-in, ha vinto la maggioranza dei seggi parlamentari. Le motivazioni sono varie e, fra queste, il modo in cui il Governo ha risposto alla diffusione del virus Covid-19 senz’altro ha avuto il suo peso. A fine gennaio in Corea c’erano solo 6 casi confermati e la risposta delle autorità è stata immediata, seguita da quella unita e solidale dei cittadini. A Seul, in metropolitana c’erano annunci a ripetizione in 4 lingue diverse che informavano sulle caratteristiche del virus, su consigli igienici di prevenzione e sui numeri di emergenza da chiamare. Ad oggi, nonostante il numero dei casi sia drasticamente aumentato a febbraio, per colpa del comportamento degli appartenenti ad una setta religiosa, nel Paese non c’è mai stato un vero e proprio lockdown, la metropolitana è sempre piena di persone, in una città con 10 milioni abitanti. Dettagli tecnici sulle misure di contenimento, test e cura implementate possono essere trovate altrove, qui vorrei far conoscere un fattore determinante che difficilmente può essere replicato nei Paesi occidentali: il senso di responsabilità sociale.
In Corea, ma anche in altri Paesi asiatici, indossare una mascherina è pratica comune in molte occasioni, è diventa un imperativo morale quando si è ammalati, anche per un semplice raffreddore. Il motivo: si vuole evitare di contagiare altre persone. Spesso sono mascherine in tessuto e lavabili, ma quando è in corso un’epidemia è più igienico usare quelle usa e getta. Certo, con una richiesta nell’ordine delle decine di milioni è facile che l’approvvigionamento diventi problematico o che i prezzi salgano in modo furioso, come è avvenuto in Italia per l’Amuchina. Sono bastate poche settimane al Governo per prendere il controllo della distribuzione, garantendo una fornitura costante alle farmacie e limitando le modalità di acquisto: presentando il proprio codice fiscale, in base all’anno di nascita si può acquistare solo in uno specifico giorno della settimana (o nel fine settimana) massimo due mascherine per persona. Il prezzo: circa 1 euro al pezzo.
Comunicazione e trasparenza sono i principi guida dell’amministrazione di Moon Jae-in, dopo anni di corruzione, scandali e accordi segreti del partito conservatore. In questo caso significa rendere pubblicamente accessibili i dati sulla diffusione del virus. Non solo il numero dei contagi per città, ma anche i loro spostamenti nei 14 giorni precedenti l’infezione, procedendo alla disinfezione di strade, ristoranti e negozi visitati. Sono informazioni che vengono richieste a tutti i pazienti confermati positivi, quelli negativi vengono invece adeguatamente informati sulle misure di prevenzione necessarie per evitare il contagio. Accanto alla trasparenza, uno degli aspetti che contraddistinguono la politica di Moon Jae-in è l’aumento degli interventi di welfare, soprattutto a sostegno dei più indigenti. In Corea la sanità è principalmente gestita da privati, ma tutte le spese di ospedalizzazione, cura e sepoltura dei pazienti Covid-19 sono coperte dallo Stato, eliminando così il deterrente economico che potrebbe portare alcune persone potenzialmente infette a non andare in ospedale per paura dei costi.
In questo contesto, i coreani non sono stati certi a guardare, ognuno ha fatto la sua parte: ovunque si trovano erogatori di gel disinfettante, in ogni singolo locale o ascensore pubblico della città; e invece di aspettare un bando e soldi pubblici, uno studente universitario ha creato gratuitamente una app che mostra i luoghi visitati dalle persone contagiate, con indicazione della data. Rappresentare i dati in forma visuale su una mappa è un modo più efficace che fornire semplici numeri per orientare il comportamento delle persone: se vedi che nel tuo quartiere è passata una persona infetta, uscirai di meno e sicuramente eviterai i luoghi in cui è stata. Oltre a Coronamap sono state create altre app in brevissimo tempo, addirittura con la possibilità di ricevere una notifica se si entra nel raggio di 100 metri di un luogo visitato da una persona infetta.
Il numero dei nuovi casi è ormai in declino da alcune settimane e ci si sta già organizzando per costruire la “nuova normalità” che è necessaria, perché è impensabile gestire luoghi pubblici o di lavoro nello stesso modo di prima. Sempre per il senso di responsabilità sociale, la risposta di molti commercianti è quella di aumentare le distanze fra clienti riconfigurando gli spazi dei locali, se necessario anche rimuovendo alcuni tavoli. Il contrario della follia delle cabine di plexiglass in spiaggia, un’idea guidata dalla ricerca del profitto ad ogni costo.
Nonostante la situazione sembri ormai sotto controllo, i coreani sono ben lontani dal pensare che sia tutto finito e si possa tornare a fare la vita di prima. La situazione è difficile per molte persone, soprattutto per chi aveva caffè o negozi e ha dovuto chiudere per mancanza di clienti. Inoltre, ci sono pazienti guariti che sono stati nuovamente contagiati, quindi l’immunizzazione sembra essere critica per questo virus e la possibilità di una “seconda ondata” di contagi è sempre più reale. Una delle espressioni caratterizzanti lo stile di vita dei coreani è “ppalli ppalli”, “in fretta, in fretta”, ma nessuno ha fretta di allentare le misure cautelative e dire che i coreani sono stati veloci nel superare la crisi. Trovo dissennati gli annunci che sento provenire all’Italia e dagli Stati Uniti di possibili riaperture delle attività prima dell’estate. Credo che questa volta dovremmo imparare dai coreani ad essere pazienti e uniti. Non è facile stare in casa, lo so, benessere psicologico e violenze domestiche sono gli aspetti più problematici della reclusione (chissà se ce ne ricorderemo la prossima volta che dovremo affrontare la questione carceri), ma è un sacrificio necessario per il benessere di tutti. Ogni esigenza personale dovrebbe essere messa da parte in favore della sopravvivenza collettiva.