Vie e Atlas, due festival sulla via Emilia / Verità, finzione, confini, immaginazione
Atlas of Transitions (Rossella Menna)
Quando Nadia Beugré, corpo nero e possente, una camiciola corta e polpacci turgidi su un paio di tacchi a spillo malfermi, è scesa dal palco e si è fatta largo tra noi accalcati intorno per implorarci di aiutarla, io mi sono paralizzata. “Aide-moi”. “Aiutami”. Si era incatenata tutta intera, mani e piedi, con il filo spesso del microfono con cui un momento prima stava cantando e danzando nella penombra di una luce blu. Quartiers libres della coreografa e danzatrice ivoriana funzionava appunto così: un corpo selvatico, forsennato, spostava blocchi di energia per circa un’ora, conquistando ora un palco ora l’altro nel teatro svuotato della platea del DamsLab di Bologna, cercando spazio in tutte le direzioni, lasciandosi mettere al muro per liberarsi un attimo dopo, fino a fasciarsi di un vestito di bottiglie, e soffocarsi con una busta infilata in bocca, come una crisalide di plastica. Noi spettatori, liberi di muoverci nell’arena, eravamo l’ostacolo, il contrappeso del suo esercizio di resistenza e rivolta. Beugré, insomma, stava chiaramente ingaggiando una lotta contro i tabù e gli impedimenti, contro ogni forma di colonizzazione, contro tutto ciò che opprime, preclude, vieta, blocca, e lo stava facendo in quanto donna africana, certamente, ma anche come donna in quanto donna, come sé in quanto sé e come essere umano e basta, senza genere e senza geografia. Prerogativa dell’arte, quest’ultima in particolare, eppure tanto spesso svilita, benché, proprio come in questo caso, consenta di misurare meglio di qualsiasi altro criterio la qualità del lavoro di un’artista. Lo ha spiegato molto bene Chiara Bersani, autrice-attrice, performer dal corpo ‘non conforme’ (come lei stessa lo definisce) quando durante la cerimonia di premiazione degli ultimi Premi Ubu ha chiesto al mondo del teatro di impegnarsi finalmente a «uscire dal pensiero narrativo-naturalistico per cui uno spettacolo contenente un attore appartenente ad una qualsiasi minoranza debba necessariamente affrontare tematiche relative ad essa». Le sue parole, infatti, hanno smascherato quell’insopportabile equivoco per il quale i corpi e le voci eccezionali guadagnerebbero la scena solo per rappresentarsi, per affermare il proprio diritto politico a stare su un palco, ovvero nella società, come se l’essere attori non significasse, da sempre, finanche dai tempi dei riti dionisiaci, la possibilità, per un corpo singolare, di farsi carico di un generale, ovvero di potersi fare simbolo non della propria presenza eccezionale, ma di una ferita universale.
E dunque, dicevo, quando Nadia ha sfiorato il mio corpo con il suo, sudato e legato, chiedendomi in un orecchio di aiutarla, non l’ho fatto. E non è stato perché mi sentissi superiore al patto di finzione. Non è stato come quando eludo le richieste degli attori che mi chiedono di fare cose dalla platea, di «partecipare». Se non l’ho fatto è stato per vigliaccheria, perché io le credevo eccome, lo sapevo, lo vedevo, che si era messa nella condizione di dover chiedere aiuto davvero. «Lo farà di sicuro qualcuno dopo di me» ho pensato, e la vergogna che mi è montata dentro per tutto il tempo, lungo e silenzioso, in cui la spettatrice accanto l’ha liberata con gesti delicati e amorevoli, con l’aiuto di un’altra donna, e poi di un’altra ancora, è diventata insostenibile quando la Beugré, libera, passandomi accanto per tornare in scena, ha gettato il filo che l’imprigionava ai piedi miei e di altri che come me si erano comportati meschinamente un momento prima. Credo, ma potrei aver avuto un’allucinazione, di averle sentito dire “tenetevi queste, voi”.
Ecco, credo di poter dire, senza suscitare l’indignazione di alcuno, che è molto difficile che un sentimento così preciso e doloroso sorga di fronte all’orrore quotidiano della vita fuori dalla scatola simbolica del teatro, poiché la vergogna è spesso più pensata, mimata (perfino intimamente) che vissuta. La compassione, il sentire come un altro e insieme a un altro, d’altronde, funziona così: per prossimità. Cosa ha fatto in fondo la performer di diverso da quanto forse nello stesso istante stavano facendo poco più in là persone che magari dibattevano intorno agli stessi temi toccati dall’opera? Ha creato un contatto sensibile tra noi e la sua ferita, e questa è una vicinanza che non nasce dal solo fatto di raccontare il vero, testimoniandolo con la propria stessa presenza, o di poter vedere da vicino un corpo che agonizza e sentirne finanche l’odore. Se così fosse sarebbe impossibile non tornare a casa distrutti ogni volta che s’incontra una persona che tende la mano all’angolo di una strada. No, la prossimità è un fatto di poesia, è la capacità di tradurre il reale in figura, ovvero di costruire un’immagine fatta di ritmo, luce, suono, che renda la realtà più ‘sensibile’ della realtà stessa. Lo diceva già Aristotele che il verosimile per lo spettatore risulta molto più vero del vero. Il sensibile cioè, come ha scritto di recente il filosofo Emanuele Coccia, “ha luogo solo perché oltre alle cose e alle menti v’è qualcosa che ha una natura intermedia”.
I confini di tutti i tipi, insomma, quando non diventano muri e guerre, non solo non uccidono, ma consentono di toccarsi, conoscersi, negoziare la propria identità peculiare attraverso la percezione degli altri. “Il confine limita e connette” leggiamo anche nel testo del Referendum indetto dall’artista e attivista cubana Tania Braguera, che ha invitato i cittadini di Bologna a votare sì o no alla domanda “I confini uccidono. Dovremmo abolire i confini?”. Lo scrutinio delle schede compilate nei venticinque seggi disseminati tra centro e periferia ha visto vincere il sì con 2030 voti contro i 489 del no, ma la lettura di questo risultato è legato a doppio filo alla provocazione su cui poggia tutta l’operazione, poiché, come ha specificato Piersandra Di Matteo durante un’intervista per “Teatro e Critica”, “il confine inteso come processo osmotico è ciò che consente veramente l’incontro con l’altro; la pelle è un confine, senza la pelle saremmo a nervi scoperti. Tania Bruguera ci ha detto che questo progetto ha in sé una matrice immaginifica: è un finto referendum, abolire realmente i confini sarebbe catastrofico. Ma occorre un ripensamento di che cos’è il confine e di che cosa esso mette in campo, lavorando in uno spazio di frizione”. Laddove l’oggettività non esiste, insomma, può esistere una lotta quotidiana tra sé e sé per corrodere continuamente le abitudini del proprio sguardo, e lavorarsi dentro per diseducarsi alla violenza con cui ci si rapporta a ciò che non ci assomiglia. Ora, costruire prossimità elaborando scene sensibili è compito precipuo dell’arte. Ed è appunto questa la facoltà che secondo me distingue chiaramente l’arte dall’attivismo, dalla dimensione discorsiva che precede e segue il gesto artistico, e dal contesto di militanza socio-politica in cui l’opera può (certo che può, fortunatamente) irradiare la propria efficacia. In altre parole, l’arte è útil e trasforma il mondo quando rimane arte, cioè gesto alchemico che traduce il reale in simbolo, racconto, mito – che presuppone o segue un discorso, senza mai esaurirsi in esso.
Di tutto questo, e di molto altro, ovvero del confine tra arte e attivismo, arte e politica, degli spazi liminali, degli equivoci, delle possibili contaminazioni, si è parlato e discusso ampiamente a Bologna grazie al secondo atto della Biennale di Atlas of Transitions, un progetto internazionale finanziato da Creative Europe, promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione con Cantieri Meticci e il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna, in partnership con Polonia, Belgio, Francia, Svezia, Albania e Grecia. Un festival unico in Italia, curato appunto da Piersandra di Matteo, che in dieci giorni ha portato a Bologna performer, coreografe e cantanti provenienti da Costa d’Avorio, Mali, Estonia, Ruanda, Siria, Palestina e Cuba. Dopo il Diritto alla città, in questa seconda edizione, intitolata Home il festival ha esplorato la nozione di casa, il senso del sentirsi o non sentirsi nello spazio protetto della cura domestica, provando a prescindere dall’abitudine alla mitizzazione, di qualsivoglia segno, dello straniero che abbandona il luogo dove è nato per andare altrove, come fosse una figura astratta, senza idiosincrasie. Compito difficile quanto ineludibile, almeno per chi intende discernere e ragionare senza avvitarsi in arringhe teoriche edificate su ideologie diverse ma comunque ottuse. Prendiamo per esempio proprio la questione delle migrazioni, dell’alterità, e in particolare dell’Africa, che oggi è al centro di un’attenzione eccezionale da parte di quasi tutti gli operatori politici, economici e culturali dell’occidente; nelle narrazioni più recenti, anche teatrali, da serbatoio di miserie, quel continente sta diventando oggi, sempre di più, il ventre caldo della rivoluzione mondiale. Il futuro è africano. Mentre l’Occidente continua a tramontare, cioè, pare che laggiù arti e pensieri fibrillino: si vocifera, si scrive, si racconta di idee e progetti strabilianti, frutto di una vitalità sorprendente che per noi è meno di un lontano ricordo. Ebbene, on Afrotopia, un testo molto agile che è già un piccolo cult, uscito di recente in italiano nella traduzione di Livia Apa per le Edizioni dell’Asino, il sociologo ed economista Felwine Sarr, ha evidenziato come elaborare un pensiero serio sull’Africa significhi fare faticosamente slalom tra la retorica dell’agonia e quella dell’euforia, perché – che se ne parli come di un continente sull’orlo della fine o di una nuova terra promessa – si rimane sempre impigliati in un pregiudizio che ci fa leggere le possibilità del futuro altrui con gli occhi, gli schemi e i limiti nostri.
Dispiegando una rete notevole di collaborazioni che ha coinvolto associazioni, istituzioni, centri culturali, collettivi artistici e politici, artisti provenienti da tutto il mondo, studenti, giovani comunicatori adolescenti italiani e stranieri richiedenti asilo, il festival bolognese ha letteralmente stravolto, anche logisticamente, gli spazi del DamsLab e creato, di fatto, una situazione di meticciato gioioso che prefigurava un futuro possibile e auspicabile già lì, seduti intorno ai tavolini da bar allestiti nel foyer, e in platea durante gli spettacoli. Insomma, mentre da un lato tematizzava e problematizzava, Home ha aperto varchi effettivi: e sembrava proprio possibile vivere così, parlando di politica, cantando, ballando, vedendo uno spettacolo con gente proveniente da tutto il mondo; e altrettanto possibile sembrava poter serenamente preferire di cenare con le patate peruviane invece che col riso marocchino, o viceversa, tra pouff rivestiti di stoffe africane, biscotti italiani e caffè, con ragazzine di seconda generazione come vicine di tavolo o di poltrona a teatro.
Il programma del festival comprendeva una miriade di appuntamenti di ogni tipo: workshop, masterclass, film, lectures, talks, dj-set, un convegno internazionale dedicato al tema del rapporto tra Performing Arts e migrazioni, tutto (o quasi) a cura di intellettuali, artiste e professioniste donne, come Annalisa Camilli, che abbiamo imparato a conoscere e stimare per i suoi reportage su Internazionale. E poi naturalmente una serie di spettacoli, tra cui spiccavano tre debutti nazionali di artiste provenienti dall’Africa sub-sahariana. Nadia Beugré, appunto, in scena anche accanto a un’altra protagonista del festival, Dorothée Munyaneza, coreografa, cantante e attrice, che a Teatri di Vita ha presentato il suo Samedi Détente, un racconto-recital in cui l’artista di origini ruandesi ha ripercorso, attingendo alla sua memoria di bambina e alla sua consapevolezza da donna adulta, i tragici cento giorni che a partire dal 6 aprile 1994 hanno visto morire oltre ottocentomila persone durante il genocidio dei tutsi. La terza performance di provenienza africana era invece Fatou t’as tout fait, breve e intensa opera della giovanissima coreografa maliana Fatoumata Bagayoko, che con danza e parole ha evocato, tra rabbia, furore e sangue, il momento della sua mutilazione genitale, quando anche lei ha subito la pratica di infibulazione a cui le donne della sua terra sono sottoposte in nome di una maledetta tradizione patriarcale.
Di pomeriggio, invece, senza muoverci dal DamsLab, siamo andati a scuola da membri di comunità diverse, per studiare mondi lontani e astratti nel nostro immaginario, attraverso la precisione e la vastità del dettaglio. Così, nelle dieci lezioni della School of Integration ideata sempre da Tania Bruguera abbiamo conosciuto la poesia orale eritrea mentre partecipavamo alla cerimonia del caffè officiata dalla poetessa Ribka Sibhatu, appreso i rudimenti dell’antica tecnica musicale persiana, ascoltato tamburi senegalesi per imparare che battere, sfregare, colpire ha a che fare con comunicare, curare, cacciare gli spiriti maligni, festeggiare e danzare; e poi abbiamo tagliato e cucito tessuti provenienti da Africa occidentale e Sub-Sahariana per scoprire i messaggi in codice nascosti nei coloratissimi pagne, e decorato uova durante un rito ucraino chiamato Pysanka; del Marocco abbiamo conosciuto musica popolare e Saharawi, il rito tradizionale del thè, mentre della Palestina la grammatica del ricamo degli abiti tradizionali; e poi abbiamo ascoltato la storia di transizione da un campo a una casa popolare raccontata da Vincenzo Spinelli, figlio di padre rom abruzzese e madre sinti emiliana, partecipato al divertente e trashissimo karaoke cinese con melodie italiane e scoperto che in Perù ci sono tremila varietà di patate. Abbiamo conosciuto artigianato, lingue, musica, tradizioni culinarie e immaginari pop come sineddochi di interi universi, esercizi di contrattazione, di misurazione della distanza, di curiosità, per educare le menti a capire pensieri e schemi diversi dai nostri senza il bisogno di accettarli o rifiutarli per forza. Dentro Home, insomma, arti e attivismo si sono incontrati nel segno di una convivenza miracolosamente ecologica, di un equilibrio intelligente, di volta in volta rinegoziato, che nella circolarità ha rafforzato entrambe le dimensioni, ricordandoci, senza farci lezioncine, che «non c’è posto per tutti in Italia» è solo un’enorme bugia a cui noi abbiamo deciso di credere per pigrizia, spirito di conservazione e scarsa curiosità verso la vita fuori dall’orticello allestito sul balcone di casa.
Vie Festival (Massimo Marino)
Due festival in uno, una sfida quasi insostenibile per lo spettatore, anche per quello appassionato o a di professione. Eppure Vie Festival e Atlas of Transitions sono stati dieci giorni di visioni, scosse di pensiero e di nervi, viaggi per strade sconosciute o inaspettate.
Vie, appuntamento ormai tradizionale di Emilia Romagna Teatro Fondazione, giunto alla 14.esima edizione, si è svolto come un viaggio lungo la via Emilia e dintorni, tra Carpi, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna e Cesena, le sedi di Ert, portando in un più ampio vagabondare sui territori di realtà, rappresentazione, falsificazione, verità. Il percorso si è svolto tra America Latina e vecchia Europa, affondando in scatole cinesi e macchine del tempo borgesiane e in nuove scritture ancora in parte in cerca di maturità, con l’emersione splendente di un vecchio classico come Sei personaggi in cerca di autore, in Sei rivissuto, rinnovato, asciugato con scabro dolore contemporaneo da Scimone e Sframeli e ri-visitazioni, ripetizioni e re-enactment , come si dice, di classici come Primo Levi grazie a Luigi De Angelis e Andrea Argentieri per Fanny & Alexander, senza dimenticare il padre Dante di Fedeli d’Amore di Marco Martinelli e Ermanna Montanari. E ancora si sono visti sprazzi performativi greci, concerti, incontri e molto altro che non siamo riusciti a seguire per l’iperbolica, bulimica diremmo, quantità dell’offerta.
Il primo spettacolo, Imitation of Life, ha confermato un maestro come l’ungherese Kornél Mondruczó, in uno spettacolo su quel nome e concetto smarginato e minaccioso che è “identità”. Questo lavoro usa stilemi ormai diffusi nel teatro continentale, l’uso del video con la riproposizione di frammenti da taglio documentaristico per esempio, fondendoli con una propria ispirazione cinematografica a mescolare i piani, con centro di gravità in una catastrofe centrale tradotta in un impressionate dispositivo scenico. Si inizia con una donna sfrattata, una rom scopriremo, probabilmente per razzismo, nell’Ungheria ultraconservatrice di Viktor Orbán. Viene intervistata e ripresa da colui che le intima di abbandonare l’appartamento: appare in video, secondo modi che Milo Rau e altri registi hanno reso marca distintiva di un teatro che si amplia a testimonianze presentate come “reali”. Racconta del marito morto, del figlio che rifiuta la sua origine e vive in una camera d’albergo facendo il prostituto… A un certo punto ha un mancamento, e dopo un tentativo di soccorso del suo carnefice tutto inizia a girare, la stanza, di 360 gradi, gli oggetti a precipitare, inesorabilmente, lentamente, un terremoto intimo, sociale, epocale. La seconda parte, con squarci onirici su schermi laterali, nubi, notti, fumi, si svolge nella casa squarciata, ingombra di rifiuti, di rottami, come la nostra società escludente, che tritura le persone, i passati, i ricordi, le esistenze. Una giovane madre e un figlio biondo prendono possesso dell’appartamento squassato. La madre ha un amante esterno, rifiutato, cercato, Abbandona il ragazzino addormentato. Appare un giovane, biondo anche lui, e si rispecchia nel bambino in un clima sospeso, mentre qualcosa ci fa sospettare che potrebbe essere il piccolo cresciuto e che forse quella donna era la vecchia sfatta dell’inizio da giovane, oppure che siamo in una storia che si ripete, ciclicamente, in un deserto di rovine… Il giovane tira fuori una spada giapponese e minaccia il piccolo, mentre una didascalia racconta di un assalto razzista di un giovane neonazi contro un adolescente rom in autobus e la scoperta che l’attentatore era di origine rom anche lui…
Verrebbe voglia di raccontarli tutti, precisamente, gli spettacoli, sapendo che non si possono esaurire tante storie in descrizioni, in parole. I due testi uruguayani, El bramido de Düsseldorf di Sergio Blanco, già affermato soprattutto in Francia, e Ex-esplodano gli attori di Gabriel Calderón, pubblicato con un altro testo dello stesso autore in un volume della nuova collana di Ert e Sossella editore “LineaExtra”, intrecciano piani, possibilità di storie in parte vissute, in parte rimosse, sfuggite, con esiti visivi differenti. Nella pièce di Blanco tutto appare candido, abbacinante, incalzante, ritmico, rock, esibito (e tutto si rivela ombroso, misterioso). Si tratta di un autore, lo stesso Blanco, ma interpretato da un altro attore, in una autofiction che racconta la morte del padre intrecciando verità e finzione, perché “l’autofinzione è il lato oscuro dell’autobiografia: in quest’ultima è presente un patto di verità, mentre nell’autofinzione un patto di falsità». Una falsità che diventa intreccio di possibilità di storie diverse, con diverse strade e esiti, per arrivare, con quel bramito del cervo prima di morire, alla verità della solitudine e del dolore, nascosta dietro l’illusione, l’invenzione, la mistificazione.
Sembra invece una commedia recitata da una filodrammatica, con ritmi comici perfetti e un apparato scenico e costumi poveri, casalinghi, il lavoro di Calderón (e nell’incalzare del parlato castigliano le didascalie, per altro poco contrastate e leggibili, qui come in Blanco si seguono male, facendo perdere molte sfumature). Pare una commedia demenziale che intrecci personaggi vissuti in epoche diverse, con l’espediente di un regalo di Natale alla compagna fatto da un giovane scienziato che ha inventato una macchina del tempo e richiama in vita famigliari, che a poco a poco capiamo essere morti. Il gioco teatrale dei tic, degli umori di personaggi che non si sopportano, che hanno interrotto i rapporti, che si odiano, riserva una sorpresa: quella della scoperta che dietro tutti i contrasti c’è la storia di un paese lacerato dalla dittatura, in cui alcuni – anche in una cerchia di parenti e affini – hanno denunciato, altri sono stati torturati, qualcuno ha fatto il delatore, molti sono morti o si sono spenti nella solitudine e nel disprezzo. Le risate si voltano in dolore.
Di molto altro bisognerebbe parlare, di True Copy, degli ammirati in altra edizione Berlin, che questa volta narrano la storia di un perfetto falsario di quadri, scoperto per caso, che gioca a mostrare a noi spettatori come possiamo sbagliarci nel guardalo, creando davanti ai nostri occhi una realtà simulata che ci fa credere (in realtà non troppo, il gioco questa volta è smaccato, tranne che per un colpo di scena finale) nella copia come vera e sembra dirci che l’importante non è la verità o la finzione ma credere in quello che stiamo vivendo, che abbiamo davanti. Ma forse lo sapevamo già: chi ha chiesto mai ad Amleto se fosse vero o falso, o a Lear? La finzione, l’arte, da sempre produce effetti di verità mentale, affettiva, estetica.
Potremmo parlare del nuovo testo di Davide Carnevali, ripetitivo, tautologico, un Menelao in cui il re di Sparta, tornato a casa dalla guerra, è annoiato di potenza e benessere e rimpiange di non aver acquistato una fama pari agli altri eroi. Un testo abbastanza spento, vivificato dalle invenzioni visive, maschere, sculture, marionette, fantocci, libri viventi di Teatrino Giullare. Come potremmo parlare dell’altro testo di questo autore, presentato alle scuole, Aristotele invita Velasquez a colazione e gli prepara uova e (Francis) Bacon, un tentativo di discutere di rappresentazione e realtà con i ragazzi usando testi di filosofi e alleggerimenti comici, che si esaurisce in esercizio in una lingua improbabile, un giovanilismo infantile infarcito di un sovrappiù di “wow, fico” e altre espressioni che non starebbero in bocca neppure a una caricatura di rapper tatuato con bermuda e cappellino da baseball alla rovescia.
I bolognesi Kepler-452 nel nuovissimo F. Perdere le cose giocano sul vuoto, sull’assenza, sull’impossibilità di mostrare il protagonista, un senza casa, senza lavoro, senza documenti, che perciò non può salire in palcoscenico e deve essere sostituito dalla sua voce fuori campo, da qualche video, dal peso della sua assenza, in uno spettacolo acerbo e delicatissimo, di forte spessore emozionale.
Ma tutti i discorsi tra presenza e mancanza, verità e rappresentazione è come se acquistassero smalto di evidenza nell’asciuttissimo, bellissimo Sei di Spiro Scimone con Francesco Sframeli e una compagnia di attori, per lo più giovani, di grande spessore. I Sei personaggi di Pirandello irrompono in un teatrino con palchetti disegnati su un fondale di cartone, oscurato da un improvviso cortocircuito. Raccontano la loro storia, con rancore e sofferenza, rimbeccandosi, isolandosi, volgendosi le spalle, tormentandosi, invecchiando a vista, guardati con sospetto dagli attori, fino a che la tragedia – senza clamori né patetismi – non coinvolge finzione e verità, personaggi e quelli che dovrebbero esserne gli interpreti. Il testo è asciugato, portato a una misura intima, profonda. Le parole, distillate, si incidono, manifestando come l’opera, l’arte, nel buio della coscienza scavi continenti di rivelazione. Senza video, telecamere, apparati, in un fragile teatrino di carta da spolvero dai colori sbiaditi (la bellissima scena è di Lino Fiorito), tra parole di finzione che diventano fragorose di umanità ferita più di ogni apparente realtà. Insomma, il vecchio Pirandello, interpretato con sensibilità e maestria inarrivabile tutta a sottrarre da Francesco Sframeli, un Padre rintanato in sé stesso, nell’errore, nella sofferenza, in un destino procurato, con il contraltare spudorato, ferino, ferito della giovane Figliastra di Zoe Pernici, una rivelazione di aggressività smarrita, in una compagnia perfetta nello stupore, nella brutale presa di coscienza che non sappiamo dove stia la recitazione e dove l’esibizione delle carni lacerate. Un capolavoro, finalmente.
L’ultima fotografia, di Michele Lapini, documenta i cartelloni del progetto urbano “Cheap” per “Referendum” di Tania Bruguera.