Santarcangelo 2022
Il trionfo della funzione (Rossella Menna)
A Santarcangelo si va sempre con una certezza: che il più antico festival italiano di arti performative è anche il più radicato nel presente assoluto; che l’aria che tira è la stessa, a volte perfino più estrema, che si respira in altre rassegne europee vocate al contemporaneo. A Santarcangelo si vede più che altrove dove sta andando, ovvero dove si è installata, l’ala radicale della performatività: non tanto dal punto di vista delle forme, ma proprio sul fronte dei valori, delle rivendicazioni culturali, della funzione che si attribuisce al fare artistico. Funzione, appunto, e non senso, eccoci subito al punto. In una serie di scritti pubblicati a partire dagli anni Novanta, riferiti in particolare al fenomeno dell’animazione teatrale, l’antropologo Piergiorgio Giacché denunciava una deriva che ai suoi occhi sembrava coinvolgere tutti i campi dell’arte: il crescente predominio della funzione sul senso.
Come un’ostinata Cassandra, Giacché è tornato sulla questione molte altre volte, motivando le ragioni della sua preoccupazione rispetto a una sempre più diffusa concezione dell’arte come strumento al servizio di qualcos’altro, per lo più delle politiche sociali. E come ogni Cassandra che si rispetti, Giacché aveva del tutto ragione. Nel giro di trent’anni il paradigma di un Realismo socialista 2.0, come l'ha definito in più occasioni Attilio Scarpellini, dell’arte come megafono del discorso politico o più spesso come supplente di una politica inadeguata, ha trovato terreno fertile ovunque, nelle pratiche artistiche ma anche nelle riflessioni teoriche, per non parlare (ma questo era scontato) dell’entusiasmo di sindaci, assessori e ministri.
Penso in particolare ai recentissimi L’art impossible di Geoffrey de Lagasnerie (Puf 2020), in cui il filosofo e sociologo francese insiste sulla “vergogna” che dovrebbe ribollire nella letteratura che non si confronta con le questioni urgenti del presente, e Artivismo di Vincenzo Trione (Einaudi 2022), in cui lo storico dell’arte disegna una mappa degli intrecci più significativi tra arte, politica e impegno. Ma penso anche al “New realism” teorizzato da Milo Rau (Realismo Globale, Cue Press 2019), il più illustre erede di una concezione del reale impregnata di quel materialismo-storico che anche grazie all’influenza di Bertolt Brecht (per quanto tradita, rinnegata o apparentemente superata) ha decisamente vinto la sua battaglia culturale: la realtà, infatti, anche nel discorso comune, è oggi qualche cosa che ha a che fare solo con le condizioni di vita materiali delle persone, coi processi produttivi, economici, non certo con lo spirito.
Intanto, nella più estrema solitudine, sull’altra sponda del dibattito siede uno dei più acuti intellettuali italiani, Walter Siti, che non a caso ha sentito l’esigenza di pubblicare una raccolta di saggi intitolata Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura (Rizzoli 2021), per mettere a fuoco i limiti di quell’engagement progressista assai in voga oggi che punta sul contenutismo, sulla scrittura come testimonianza e non come avventura conoscitiva di sé, sulla predeterminazione di temi e posizioni e su una funzione sociale, politica, terapeutica, educativa della scrittura letteraria – rinunciando alle stratificazioni della forma, le quali hanno invece la straordinaria potenzialità di rivelare, all’autore in primis, i non-detti, le contraddizioni e le possibili sorprese della coscienza.
Per tornare a noi, non c’è alcun dubbio che in questa edizione di Santarcangelo, proprio in quanto avamposto delle tendenze più diffuse dell’arte scenica contemporanea, trionfi l’arte come funzione, che vi si persegua una concezione di performatività che addita i disastri della società e che persegue l’empowerment degli individui per come sono e in particolare nella loro veste sociale, rinunciando a esplorarne i caratteri ambigui, metamorfici, contraddittori, magici, luminosi; che l’arte non serva ad allargare la propria coscienza andando a fondo delle sue complessità, ma piuttosto a svolgere temi d’attualità, perorare le cause dell’inclusione, dell’ambientalismo, dell’anticapitalismo, del superamento dell’antropocentrismo, della democrazia, del pacifismo.
Nei tre giorni in cui sono stata al festival ho assistito a due talk in cui si parlava del valore politico dei corpi e dell’arte come strumento per supportare i processi di resistenza, e visto molti spettacoli dedicati appunto a questioni d’attualità o di funzione “politica” dei corpi, come in La peaux entre les doigts di Catol Teixeira, performer di origini brasiliane che per circa mezz’ora abita uno spazio buio illuminato solo da neon rossi, in una dinamica che costringe il pubblico a scegliere se inseguire o allontanarsi dal suo corpo che transita, pulsa, sfugge, accoglie.
In Altamira 2024, l’artista brasiliana Gabriela Carneiro da Cunha denuncia invece i rischi ambientali e umanitari correlati alla costruzione della diga di Belo Monte sul fiume Xingu, nella foresta amazzonica brasiliana, con uno spettacolo ricco di dispositivi tecnologici (proiettori, tamburi, altoparlanti a led): una questione assai interessante, della quale tuttavia ho potuto sapere molto di più leggendo le note di regia che non vedendo lo spettacolo, del quale appunto conoscevo presupposti e approdi prima ancora di entrare in sala. E questo vale ancora di più per Ensaio para uma cartografia della portoghese Mónica Calle, in cui dodici attrici danzano nude, invero con un passo unico e reiterato per due ore, sulle note di Beethoven e del Bolero di Ravel.
Leggiamo nelle note che lo spettacolo traccia una mappa, una cartografia alternativa di Lisbona e del Portogallo che parla di vulnerabilità, resistenza, coraggio, resilienza, ma davvero sfido qualsiasi altro spettatore a testimoniare che lo spettacolo rivelasse un senso di questo tipo. Un discorso a parte merita invece Annamaria Ajmone, tra le migliori danzatrici e performar italiane, in scena al festival con il suo ultimo spettacolo, La notte è il mio giorno preferito, un tentativo di assumere la prospettiva animale per uscire da quella antropocentrica, in cui la performer agisce in una specie di bosco verticale di piumaggi, immersa in una atmosfera tribale notturna. I presupposti e gli esiti della drammaturgia dello spettacolo non sono sorprendenti, ma Ajmone ha una presenza e una qualità del movimento letteralmente magnetici.
Ora, visti i tempi che corrono, è bene specificare che qui non si sta contrapponendo un teatro d’impegno a uno di illusione, un teatro che lotta per un mondo migliore a un altro di psicologismo borghese. Né tantomeno si prova a dettare l’agenda dei temi e delle forme auspicabili (niente di più stupido per la critica!).
Sto parlando, piuttosto, della netta sensazione che nelle giornate trascorse a Santarcangelo (ma accade nella maggior parte dei festival dedicati alla ricerca, e in molti percorsi artistici emergenti in tutta Europa) l’esperienza estetica – che è poi autenticamente politica – stia arretrando sempre di più sotto il peso di un pugno di concetti declinati in vario modo che però non vanno oltre la dimensione del discorso, e sui cui fondamentali sappiamo già tutto grazie ad altri media deputati alla comunicazione. Sembra una banalità ribadire che il teatro può essere dionisiaco, apollineo, o tutto insieme, corpo che sussulta, emotivamente o intellettualmente, quello che ci pare, insomma: purché qualcosa accada. Ma forse non lo è, perché paradossalmente, proprio in un festival in cui si perseguono polifonie di corpi e voci, molte delle cose che ho avuto l’occasione di vedere erano fredde, lontane, intrappolate nell’unidimensionalità del tema e del suo svolgimento già previsto, anche laddove i corpi erano testimonianza viva di quello che si raccontava.
L’empatia, la compassione, il desiderio di avvicinarsi di più, la curiosità, l’infiammazione comune tra due esseri viventi non si producono di fronte alla nuda realtà, sono frutto di una traduzione, del rifare, denunciare, tradire o amare il reale attraverso altre immagini che lo straniano, lo sublimano, producendo deviazioni, sorpresa. Perché la realtà – spiegava il solito Siti nel 2013 (Il realismo è l’impossibile, Rizzoli) – non si dispiega ragionevolmente di fronte a noi, ma è frutto di uno scorcio, di un’allusione bene architettata che ci fa intravedere dietro un dettaglio un intero mondo da esplorare.
È giusto, anzi necessario ascoltare la voce di tutti e tutte (“Can you feel your own voice” è il claim di questa edizione) ma voci, corpi e identità, per quanto carichi di significati per la storia che si portano scritta addosso, non bastano da soli a sprigionare un senso che ci conquisti. C’è bisogno che quel sé faccia un salto, uno scarto. A produrre azione sulla scena non è mai uno statement, è sempre una tensione, una ricerca ancora in corso, l’effervescenza di uno sforzo. Dal mio punto di vista, ogni percorso e ogni posizionamento è lecito, ma non posso non constatare che se Santarcangelo è stato (e lo è stato davvero) un luogo “empatico, attento, generoso”, come nelle aspettative del neodirettore Tomasz Kireńczuk, non è stato merito degli spettacoli (almeno non di quelli che ho visto io), bensì di una cura generale e di uno sguardo aperto e inclusivo, che però ha ridotto il teatro quasi a un pretesto, rinunciando di fatto alle sue più verticali e perturbanti potenzialità.
Polverizzazione o ricerca di nuove direzioni? (Massimo Marino)
Santarcangelo dalle molte voci, Santarcangelo inclusiva, Santarcangelo della diversità, dell’attivismo. Santarcangelo 2022 è un festival che si caratterizza anche per atti concreti, di parola e di azione, come la tavola rotonda in piazza per dibattiti alla pari; come il bando Be Part (Beyond Partecipation), pratiche artistiche partecipative sostenute insieme a vari partner internazionali; come Bright Room, spazio di celebrazione queer, per ora rimasto allo stadio di progetto, da sviluppare.
Il primo anno di una nuova direzione artistica, quella di Tomasz Kireńczuk, non può che lanciare idee, che hanno tre anni per dispiegarsi. Per il momento è evidente che siamo appena all’inizio del cammino, con una linea conduttrice ben precisa: fare un festival molteplice. Assumendosi i rischi di una possibile dispersione.
L’apertura, il puntare su progettualità in divenire dà alle volte la sensazione di offrire tanti, troppi stimoli, e di indurre una frammentazione che non genera sintesi e salti intellettuali, facendo esaurire lo spettatore nella pura visione o condivisone di esperienza. Siamo davanti a una sorta di fenomenologico supermarket delle diversità, senza una linea guida che faccia fermentare il dibattito e l’immaginazione. Sembra di cogliere la convinzione, per ora, che il catalogo sia tutto. Certo, oggi più che mai bisogna dare aria a esperienze che magari rimarrebbero nascoste, sepolte.
Tra i tanti spettacoli, in un cartellone consapevolmente ‘bulimico’, vediamo ancora la danza sensibile di Echoes di Cristina Kristal Rizzo, in sintonia con la piazzetta sul colle dei Cappuccini, tra ulivi e campi, suoni sottili in controcanto al frinire delle cicale, in un presente assoluto di grazia coreografica che rimanda a una sua riedizione virtuale visibile attraverso le inquadrature parziali di una diretta Facebook. Sul social puoi seguire l’azione con altri tagli rispetto al totale dal vivo, con apparizioni in primo piano del performer o con la sua uscita dal quadro, con l’occhio dello spettatore che si proietta in una lieve sfasatura temporale.
Questo meccanismo appare una variante di procedimenti più volte esplorati dalla coreografa, un rimandare alla scomposizione e analisi dell’atto, con la sua enfatizzazione o sparizione, che richiama la critica brechtiana dell’illusione, la critica della società dello spettacolo, quella di Godard del linguaggio cinematografico, con un retrogusto, appena un retrogusto, di manierismo analitico, riscattato dalla levità delle figure di danza.
Ci spostiamo in uno spazio incredibile, un ex cementifico abbandonato, un impianto enorme in via di inesorabile deterioramento. Assistiamo a un racconto di vite ancora senza titolo (si chiama per ora New Creation), un progetto in divenire. È inscenato, senza alcuna mediazione o riflessione teatrale: la polacca Anna Karasinska mette di fila interventi di persone che raccontano memorie del cementificio, della guerra e del presente, delle migrazioni, della condizione dei neri sfruttati nelle nostre campagne. Storie non particolarmente esemplari, montate in modo piatto, tale da non aggiungere nulla a testimonianze già molte volte sentite, senza scatti. Alla fine ‘rumore’.
Tutto Brucia dei Motus è un rituale di lutto, un pianto su donne violate, su una civiltà distrutta, su bambini squartati, sulle ceneri che restano dalla violenza dei vincitori. Rilegge su una martellante colonna sonora, una sorta di speech rap di R.Y.F. (Francesca Morello), Le troiane di Euripide, la fine e la distruzione spietata dell’archetipica rocca di Ilio, con in scena Stefania Tansini e Silvia Calderoni a dare corpo e emozione alle vittime. Lo spettacolo, ricco di suggestioni, mira a colpire lo spettatore per suscitarne la reazione emotiva, compiacendosi in certi momenti eccessivamente degli effetti, proiettandosi in una perorazione di attivismo femminista che toglie sfumature allo sconsolato nichilista senso della devastazione portato dalla violenza contenuto nel testo originale.
Go Go Othello della sudafricana Ntando Cele, di studi olandesi e residenza svizzera, una produzione Manaka Empowerment, si pone varie domande sul razzismo percorrendo ruoli riservati a figure di artiste nere: a Josefine Baker e Nina Simone viene affiancato Othello, di solito interpretato da bianchi dipinti di nerofumo e non da neri. Lo spettacolo non ha la molteplicità di piani di riflessione ed emozione di Black Dick, di Alessandro Berti, un vero viaggio negli stereotipi del razzismo (si è visto a Santarcangelo due anni fa e in vari teatri): si risolve in una stand-up comedy che non va a fondo nelle questioni sollevate, che si accontenta della battuta, della dichiarazione, dell’inserto video accattivante.
La danzatrice argentina Marina Otero in Love Me rimane seduta per gran parte dello spettacolo su una sedia: dietro le scorre il testo dei suoi pensieri, fino a una scomposta, violenta danza finale, che sembrerebbe rompere le gabbie, sfuggendo le rifiniture della coreografia bella. La “non danza” qui apre panorami interiori, risolvendosi in un’egotica riflessione su di sé, sul proprio ruolo nel mondo, su amori falliti, per inadeguatezza propria o di altri.
Questa sembra, alla fine, la figura dominante in molte di queste polverizzate, disseminate visioni, frammenti che ritraggono un mondo senza fili: la concentrazione su di sé, specchio del narcisismo dominante dappertutto. Così nella danza queer di O samba do criolo Doido dei brasiliani Luiz de Abreu e Calixto Neto (il performer), su stivaloni a tacco alto, assistiamo a un’esibizione di virtuosismo muscolare, che alla fine libera il corpo dai vincoli, su uno sfondo di bandiere brasiliane. Il messaggio è elementare: affrancamento delle differenze dalle gabbie; quello che conta è come il performer ci arriva, facendo compiaciuta, muscolare esibizione di sé.
Notava Goffredo Fofi in un articolo del 1985, ripubblicato nel recente Son nato scemo e morirò cretino (minimum fax), riferendosi a un contesto italiano, che possiamo provare a estendere ora al mondo globalizzato: “l’omologazione è passata attraverso la differenziazione e le apparenze delle diversità”.
Certo, ci sono sguardi troppo appiattiti sulla funzione politica e di agitazione in questo festival. Ma anche momenti di assoluto compiacimento ‘fotografico’, che lasciano fuori fuoco il mondo e le sue complessità; mancano affondi capaci di rivelare un reale meno univoco e più magmatico, più ambiguo e psichicamente e artisticamente destabilizzante. Un doppio fallimento, o una via aperta per trovare una (o molte) più efficaci direzioni?
Le foto sono di Pietro Bertora
Nell’ultima immagine la tavola rotonda costruita in Piazza Ganganelli, fotografata durante lo spettacolo I difensori della Terra, esito finale del laboratorio della non-scuola/Teatro delle Albe.