Dalla parte di Philip

6 Febbraio 2014

Non si poteva essere fan di Philip Seymour Hoffman, non si poteva adorarlo come una star, non si andava al cinema per vedere lui, non era quasi mai il protagonista, non era un frontman e nemmeno il bassista del gruppo. Seymour Hoffman appariva ad un certo punto della storia, spesso camminando in avanti verso il lato della scena consigliando il protagonista, indicandogli la direzione giusta, le cose da fare e i pericoli da evitare.


Tuttavia spesso i suoi erano consigli sbagliati o indicazioni subdole. Eppure l’istinto era quello di stare dalla sua parte. Il piacere stava nell’incontrarlo per caso all’interno di un film come lo si sarebbe incontrato per strada, senza troppe cerimonie. Lui guardava fisso il suo interlocutore (che non era mai il pubblico) e poi buttava l’occhio un po’ in là verso la sala, ma di traverso come faceva quando incontrava i giornalisti durante i festival. I suoi occhi guardavano le persone sempre stando appollaiati sul suo profilo raffinato dai lineamenti sottili e affilati nonostante la sua prorompente massa critica.

 

 

 

 



Si stava dalla parte di Philip perché lui interpretava sempre e solo un personaggio, colui che avrebbe potuto essere, ma non ce l’aveva fatta. Era il mediocre accanto a noi, era la battuta stupida, lo sguardo attonito e magari anche un po’ tonto, le parole dette senza importanza che si stratificano sul fondo fino a impedire con il loro peso qualsiasi possibilità di slancio o volo. Ma soprattutto si stava dalla parte di Philip perché quando meno era pensabile aspettarselo, un lampo lo attraversava: il tono di voce, uno sguardo, un sorriso, la battuta perfetta detta nel modo perfetto, un gesto preciso e irripetibile. Quando meno ce lo si poteva aspettare lui si trasformava in Marlon Brando, in Bertolt Brecht, in Marcello Mastroianni, nella finale di Wimbledon del 1980 tra Björn Borg e John McEnroe, in David Gilmour, nello sciatore spericolato, in un abbraccio di quelli veri, in tutto un secolo e in quel tempo formidabile e assoluto che ognuno di noi almeno una volta ha conosciuto.

Si stava dalla parte di Philip perché quello che metteva in scena, non era un desiderio e tanto meno un sogno, ma una possibilità che anche il mediocre accanto a noi può rivelare, che anche il mediocre che siamo noi forse si è dimenticato di avere.

Philip Seymour Hoffman ha rivelato con straordinaria sensibilità attoriale quel mistero minimo che sembra interessare sempre meno, ma che è covato dalla maggioranza delle persone; rivelava un’identità sorprendente proprio per l’autenticità di cui riusciva a caricarla, non illudeva il suo pubblico con l’aura del sogno, di un mondo altro e irraggiungibile, li condannava piuttosto ai loro errori, ai loro difetti e alle loro insopportabili paure e angosce.

Ricordava con ogni suo personaggio che chiunque invece di affondare in se stesso avrebbe potuto emergere, invece che rispondere sì avrebbe potuto rispondere di no, invece che rincorrere avrebbe potuto anticipare.

 

Philip Seymour Hoffman non infiocchettava le cose, le cose erano quello che erano, non c’era spazio per aspettarsele, le cose arrivano e basta e non è detto che non ci si possa inventare qualcosa. Philip Seymour Hoffman è morto in un piccolo appartamento di New York adibito a studio, in quel giorno con lui molti altri sono mancati e ognuno di loro dovrebbe sapere che non è stata una perdita da meno.
 

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