Milo Rau e gli altri / Teatro svizzero: realtà, invenzione, identità

28 Marzo 2019

Le filosofie che ruotano attorno al concetto di postmoderno ritengono che sia labile non solo il concetto di verità, ma anche quello di realtà, perché anche quest’ultima parrebbe essere la proiezione allucinata di un io franto e scisso. Niente meglio del teatro può ragionare su queste fratture, dal momento in cui l’io attore è sempre sdoppiato fra persona e ruolo da interpretare, e la persona e il personaggio sono a loro volta franti, costituiti da parti diverse e talvolta antifrastiche, in lotta fra loro. 

 

Come ricostruire questi frammenti e dar loro un’unità, una coerenza? In un’intervista concessa a Enrico Pastore, Milo Rau, uno dei più grandi interpreti del teatro contemporaneo svizzero, ha confessato di aver esaurito ogni interesse verso il tema della decostruzione, tradendo quindi quanto gli era stato insegnato in Accademia, dove la critica e la pars destruens avevano la meglio sulla pars costruens. “Ho sempre pensato al mio lavoro come a una risposta al teatro postmoderno che si interessa a decostruire la realtà e a dire che la rappresentazione è impossibile”, spiega il regista. “Ecco, io mi ritengo profondamente conservatore. Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale. Non un tentativo di rappresentare qualche cosa che è assente, ma un tentativo di creare un qualcosa di poetico”. La sua posizione sembra essere vicina a quella del filosofo torinese Maurizio Ferraris, che individua nella caduta delle Torri Gemelle un punto di svolta capace di mettere in scacco il pensiero debole, un evento con una forza tale da spingere letterati e pensatori a tornare a fare i conti con la realtà e con la storia. Ferraris parla di “Nuovo realismo” ed entro questa etichetta si potrebbero inserire alcune ricerche volte a dare valore al dato fattuale, alla documentaristica. È il caso di molta ricerca teatrale svizzera. 

 

Milo Rau, “Five Easy Pièces”, ph. Phile Deprez.


La ricerca di Milo Rau

 

Il regista, nato nel 1977, si è fatto conoscere in Europa con lavori su temi disparati, come lo spettacolo su Ceausescu, quello sulle Pussyriot, o ancora quello sul genocidio in Rwanda. Lavora molto sul tema della biografia ma tenendosi al riparo dalle cadute semplicistiche, che banalmente ripercorrono e ripropongono allo spettatore o alla spettatrice le tappe di un percorso storico, come per esempio può avvenire nel teatro di narrazione italiano che pure ha una sua forza di impatto e una sua coerenza. Al contrario la forza del teatro di Milo Rau consiste nella capacità di coniugare la linea Brecht alla linea Artaud, che sono le matrici di molta ricerca teatrale contemporanea. Se analizziamo per esempio uno spettacolo come Five Pieces, (ne ha già ampiamente scritto su Doppiozero Attilio Scarpellini) basato sul personaggio di Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle, responsabile di delitti a sfondo sessuale a danno di bambine e ragazze a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, registriamo sin da subito l'effetto di straniamento di derivazione brechtiana, dovuto al fatto che tutti i personaggi, compresi gli adulti, sono interpretati da attori-bambini. Ma il dato più interessante è probabilmente questo: in scena non ci sono solo le biografie dei personaggi, bensì quelle degli attori stessi. Nella prima parte dello spettacolo si svolgono le audizioni, il momento in cui i bambini raccontano chi sono e chi vorrebbero essere da grandi, pungolati da un regista il cui volto è ripreso da una telecamera e proiettato su uno schermo alle spalle dei piccoli attori. Quando parte la rappresentazione vera e propria e i bambini interpretano le varie parti, ecco che il registro cambia: il regista stesso si comporta come un aguzzino e chiede ai suoi piccoli attori che cosa sarebbero disposti a fare per la scena, puntualizzando spesso che il teatro, ovvero la vita, è crudele. Il processo di crescita stesso avviene infatti attraverso una serie di operazioni crudeli che gli adulti mettono in atto nei confronti dei più piccoli: è grazie a questa crudeltà che i bambini, uscendo dal rapporto simbiotico con la madre e in generale con la coppia genitoriale, intraprendono la strada verso la maturità. 

Ma il regista fa di più: a un certo punto chiede a una bambina (in scena per interpretare la parte di colei che è stata rapita da Dutroux e da lui violentata) di spogliarsi, riproponendo seppur attenuandola la violenza che l’assassino belga destinò alle proprie vittime. Il messaggio è in fondo questo: per incarnare un personaggio bisogna operare una violenza su se stessi. 

 

Milo Rau, “Empire”, ph. Marc Stephan.


Negli spettacoli di Milo Rau è sempre presente il tema del potere, quello degli adulti verso i bambini, ma anche quello dei Paesi forti verso quelli svantaggiati: non a caso lo spettacolo ripercorre, per bocca del padre di Dutroux che aveva vissuto in Congo con la sua famiglia – si erano trasferiti in Belgio più avanti – il processo di decolonizzazione avvenuto in Congo e il famoso discorso di Patrice Lumumba. È lì che si inocula il seme del male in Marc Dutroux? Il padre confessa che quando un bianco desiderava una donna africana, la prendeva senza troppi complimenti. L'abilità di Milo Rau consiste nell’inserire i destini personali all'interno della storia con la “S” maiuscola, di mostrare le connessioni, avvalendosi di materiali vari: articoli, documenti, ricerche storiche.

Tornando al quesito iniziale, possiamo affermare che il teatro di Milo Rau sia realista? Non proprio. Come già scriveva Roberta Ferarresi proprio su Doppiozero il teatro di Milo Rau non è mai fino in fondo teatro-documentario o teatro-verità, ma un lavoro che si situa in quegli “interstizi fra realtà e finzione” volto a “smascherare i dispositivi della rappresentazione e mettere in discussione le prospettive date per assodate”. Quello che viene ricreato in scena quindi non è un realismo ingenuo, ma una sorta di realtà potenziata dove tutti gli elementi normalmente sono distanti uno dall'altro vengono concentrati in uno spazio unico. Anche in questo senso il teatro di Milo Rau è artaudiano, per la sua tendenza a portare in una zona comune elementi normalmente distanti, comprimendoli e quindi aumentandone la portata veritativa. Il male rimane un mistero da sondare, ma Milo Rau ha costruito degli indizi che collegano il destino del singolo a qualcosa di più ampio.

 

Daniel Hellman, “Traumboy”.


Addio al personaggio

 

In questo solco si muove molta ricerca teatrale svizzera, che, nell’analizzare il tema della rappresentazione, decide di eliminare del tutto il personaggio. Un caso eclatante e allo stesso tempo dirompente è quello di Daniel Hellman, nato nel 1985, che in Traumboy racconta la sua doppia vita, prima da cantante lirico e poi da performer, cui si intreccia quella da sex worker. La domanda da porsi è: teatro e prostituzione possono presentare aspetti in comune? In entrambi i casi si interpreta un personaggio – nel suo caso, quando si prostituisce non si fa chiamare dai suoi clienti Daniel, ma Phil o Antonio, barando anche sulle sue origini – in entrambi i casi c’è chi offre un servizio e chi paga, in entrambi i casi si mette in atto una ritualità che poco lascia al caso, proprio per rendere più realistica una situazione che è smaccatamente artificiale: per questo nel “testo” vengono inseriti appuntamenti precisi, tempistiche da rispettare. Daniel nello spettacolo racconta di come abbia scelto di essere sex worker per non precludere nulla alla domanda sulla propria identità, sul chi sono, nemmeno quando le diverse risposte a questa domanda suonano come contraddittorie. Traumboy è sicuramente uno spettacolo spiazzante e straniante. Inizialmente confesso di essermi chiesta se Daniel stesse recitando oppure no, se quello che raccontava avesse davvero a che fare con la sua biografia. 

In questa zona confusa, liminale, dove le identità fra attore e personaggio si mescolano lavora anche Boris Nikitin, nato nel 1979, che ha fondato e dirige a Basilea “It’s the real thing”, festival sul documentario e la performance. In Hamlet, che affronta la tematica queer e quindi accosto con facilità a Traumboy, ci troviamo davanti alla biografia-finzione all’attore Julian Meding, che ha un atteggiamento smaccatamente provocatorio, quasi di sfida nei confronti del pubblico. In questo spettacolo a essere messa in discussione – e forse relativamente a questo particolare aspetto Nikitin che è un regista molto raffinato riesce a superare Hellmann – non è la biografia dell’attore: a quella crediamo senza problemi. Ma fino a che punto questo atteggiamento cinico nei confronti delle cose rappresenta la sua verità interiore (ammesso che ne esista una)? Fino a che punto è sincero quando racconta con occhio asciutto e senza emozione il dolore che ha visto nei pazienti che condividevano la sua stessa sorte in ospedale? Lo stesso clima confuso ed enigmatico regge lo spettacolo Imitation of Life: due attori, un uomo e una donna raccontano le loro storie, che talvolta sono talmente assurde e inverosimili da porre allo spettatore o alla spettatrice la domanda sulla loro autenticità. In F for Fake a inizio performance veniamo messi di fronte alla classica figura del nerd, ma poi il personaggio cresce, racconta le sue imprese e l’idea che ci eravamo fatti di lui muta radicalmente. Quello che interessa a Nikitin è rappresentare in scena la costruzione dell’identità, smascherare le bugie che stanno dietro a questa impalcatura ed evidenziare come l’identità, lungi dall’essere qualcosa di monolitico, è qualcosa che si forma nel tempo. 

 

Boris Nikitin, “Hamlet”.


In effetti, nelle ricerche teatrali prese in esame, il tema della biografia è fortemente intrecciato al tema dell’identità e diventa un modo per indagare il rapporto attore/personaggio, dove la finzione che il teatro mette in atto (nel momento in cui un attore interpreta un personaggio in un certo senso muore) viene lavorata in direzione del suo annullamento. Ma la finzione non può essere eliminata del tutto, quando l’attore interpreta sé stesso finge a ogni modo: perché l’identità implica una scelta di campo, impone delle rinunce e si costruisce nel tempo. Nel momento in cui viene cristallizzata, la sua verità si sfrangia. 

 

L’ultima fotografia, di Gianmarco Bresadola, ritrae una scena dello spettacolo Compassion di Milo Rau.

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