Immagini come sabbia negli occhi / Rabih Mroué, Sand in The Eyes

22 Maggio 2020

“La pittura, per quanto silenziosa su una parete, è in grado di parlare e di recare grandissimo giovamento”. Così scriveva nel IV secolo Gregorio Nisseno alludendo a un rapporto fra arte e didattica, che, visto da una prospettiva diversa, meno ingenua o forse meno fiduciosa rispetto agli intenti dell’apparato ecclesiastico, può essere letto come relazione fra arte e propaganda politica, fra arte – in definitiva – e potere. Che l'immagine sia veicolo di propaganda e quindi rechi in sé dinamiche di potere e di violenza appare evidente anche nelle ultime settimane, quando la fotografia e il video di Silvia Romano scesa dall'aereo in abiti islamici ha creato reazioni diverse, a prima vista inspiegabili, piegate in molti casi a scopi abusanti di propaganda. L'immagine, che pare essere qualcosa di opaco e oggettivo, vuole invece parlare, dice qualcosa, esprime un messaggio veicolato che dobbiamo saper decifrare se vogliamo essere fruitori attenti e consapevoli. 

 

Per questo è interessante e suscita interrogativi ancora aperti e quanto mai attuali Sand in the Eyes, lo spettacolo-conferenza che il regista, attore e drammaturgo libanese Rabih Mroué ha proposto lo scorso autunno al FIT (Festival internazionale di teatro) di Lugano, una narrazione che parte da un elemento di fiction: Mroué, che si occupa di teatro dagli anni novanta, spaziando dall'istallazione all'arte visuale, racconta di aver trovato un giorno, nella sua casella postale, una chiavetta USB contenente il video di una decapitazione messa in atto da un terrorista dell’ISIS. Ci crediamo? Non ci crediamo? Trattasi molto probabilmente di una trovata scenica che pone le basi per lo sviluppo del meccanismo narrativo, volto in primis a svelare, attraverso immagini e filmati, le ricostruzioni e le mistificazioni di cui è impastata la propaganda anti-Isis. Scopo di Mroué è farci riflettere sui meccanismi che pervadono l’universo della comunicazione oggidiana e che si avvalgono, per far passare un determinato messaggio, proprio dell’arte più vicina al teatro: il cinema. Lo spettacolo.

 

Focalizziamoci dapprima sul video della decapitazione, che Mroué decide di non mostrare, alludendo alla responsabilità dello sguardo (chi guarda si fa partecipe del male, lo mette in opera), ricordando fra le altre cose che mostrare quelle immagini di violenza a un pubblico è un’azione perseguibile penalmente. Ebbene, pur non avendo visto il filmato in questione, e magari non avendo mai avuto la voglia e il coraggio di assistere, seppure attraverso uno schermo, a una decapitazione, è facile immaginarne la portata violenta, e quindi assestarsi su un no. Non ci stiamo, come è logico che sia, un meccanismo che invece non scatta, o scatta più lentamente (e più raramente) di fronte ai video che mostrano i bombardamenti aerei messi in atto dai militari americani, che diventano il contraltare di quel video non visto, chiuso nella chiavetta USB. Perché – si chiede Mroué – mostrarli davanti a un pubblico non è illegale? 

 

Durante il Secondo Reich Otto von Bismarck, per rafforzare l’egemonia tedesca in campo internazionale, si chiedeva se fosse possibile “reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà”, in modo da indebolire l’immagine pubblica del nemico e poterlo attaccare – magari demolendolo – con il consenso dell’opinione pubblica. È il meccanismo alla base della PsyWar, ottimamente descritto da Domenico Losurdo in uno dei suoi ultimi libri, La sinistra assente (Carocci editore, 2014), che ha il merito di sottolineare il rapporto fra potere e società dello spettacolo – una relazione già indagata da Guy Debord in un libro culto degli anni Sessanta, La società dello spettacolo. La forza delle immagini a livello di contro-propaganda, del resto, è stata sperimentata in casa USA proprio in quegli anni: il movimento di protesta giovanile nasce nel 1964 a Berkeley, in California, proprio come reazione indignata di fronte alla guerra del Vietnam. E non a caso: per la prima volta l’opinione pubblica è messa di fronte alle immagini devastanti del conflitto, portate in madrepatria dal lavoro dei giornalisti impegnati sul fronte. Perché, quindi, non usare il meccanismo a proprio vantaggio? Una democrazia ha bisogno del consenso dell’opinione pubblica, e per ottenerlo vale la pena tornare a far parlare le immagini, come nel Medioevo, utilizzandole come mezzo di propaganda per indebolire il nemico ed esporlo a pubblico ludibrio. Cito Debord: “Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tecnica spettacolare non ha dissipato le nubi religiose, in cui gli uomini avevano collocato i propri poteri distaccati da sé stessi: essa le ha semplicemente ricongiunte a una vita terrena (…). Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei poteri umani in un al di là: la scissione realizzata all’interno dell’uomo” (La società dello spettacolo, tesi 20). 

 

Per liberarsi dalla propaganda occorre riunire tutti i tasselli, far combaciare immagini che vengono normalmente (e strumentalmente) tenute separate. È quello che propone Mroué in Sand in the Eyes, dove a un certo punto i due video – quello della decapitazione e quello del bombardamento aereo – sono accostati, e se il campo è costituito ancora dal terrorista Isis che sgozza la vittima occidentale, il regista si chiede quale possa essere il controcampo: la risposta è chiara, trattasi dell’attacco firmato USA. Solo riunendo le due parti, amalgamandole in una sola immagine, possiamo decostruire la macchina propagandistica, che vorrebbe dicotomicamente il Bene tutto da una parte e il Male confinato nell’altra. Come nei western, che non a caso il regista cita nel suo spettacolo, dove l’eroe americano, che polarizza, ça va sans dire, tutti gli attributi positivi legati alla bontà, deve sconfiggere il male, il nemico, l’estraneo: un elemento che fonda la cultura hollywoodiana, come sottolinea il filmato “Campo-controcampo” dell’avanguardista austriaco Peter Tscherkassky, mostrato a fine spettacolo per rafforzare la tesi portata avanti dal regista libanese.

 

 

Torniamo a una domanda cruciale, che lo stesso Mroué pone al pubblico a metà spettacolo: perché mostrare i video dei bombardamenti aerei non costituisce un reato? Il problema è proprio, come rileva lui stesso, quello della distanza: noi non vediamo chi compie l’azione di uccidere, non sappiamo quale sia il volto di chi lavora dietro le quinte. Possiamo immaginare che dietro ci siano soldati reclutati, e dietro di essi, forse, ci può apparire l’immagine dello zio Tom, quello disegnato da James Montgomery Flagg, che esortava a partire per la guerra proprio coloro che meno ne avrebbero cavato vantaggio: gli strati sociali meno abbienti, comoda carne da macello. A ogni modo la violenza è allontanata, l’obiettivo sfuocato. Possiamo guardare il filmato mentre ceniamo, con i televisori accesi, possiamo mostrarlo ai nostri figli. La violenza è indiretta, è altrove: non vi partecipiamo. Ma proprio questo non partecipare ci rende ancora più partecipi. Perché partecipiamo inconsciamente, come da una zona tremula che non mette a fuoco: è su questo che fa leva l’immagine quando è usata a livello propagandistico. I video dell’Isis, invece, accorciano le distanze, ci rendono partecipi. Quella fra i due video, a prima vista, potrebbe sembrare la stessa differenza che intercorre fra cinema e teatro, ma trattasi a ben vedere di un errore interpretativo. In entrambi i casi siamo nel territorio del video, che può allontanare e avvicinare, creare, appunto, campo, controcampo, primo piano, figure primarie e secondarie, in base alla necessità imposta dal messaggio. E il messaggio è un messaggio propagandistico: di potere. Imperialista, possiamo anche dirlo. Il messaggio vuole far passare gli attacchi dell’Isis come atti estemporanei, istigati dall’odio, vuole cancellare la dialettica.

 

Ma c’è ancora un dato su cui riflettere: anche noi partecipiamo alla costruzione del messaggio, sia quando agiamo da spettatori più o meno consapevoli, ovvero guardiamo, e guardando assorbiamo il messaggio, lo mettiamo in qualche modo in atto, sia quando costruiamo direttamente l’immagine come folla di presenti. Perché il contesto deve essere verosimile, affinché il messaggio possa svolgere fino in fondo la sua azione propagandistica: e la verosimiglianza, Mroué l’ha spiegato bene nella sua dissertazione-spettacolo, si ottiene attraverso le comparse. Ovvero noi. Questo è il ruolo che ci è stato affidato: siamo continuamente fotografati e inseriti in questo teatro vuoto, in questo specchio in cui fingiamo di credere di poter giocare un ruolo protagonista. Il potere, per mantenere la sua posizione di privilegio, ha bisogno della nostra presenza, della nostra partecipazione, seppur indiretta e inconsapevole. Ma guardando davvero dentro il meccanismo, non possiamo non vedere il gioco illusionistico e percepire una sorta di fallimento.

 

Falliamo. Falliamo ogni volta che veniamo fotografati e taggati su Facebook, a nostra insaputa, falliamo collaborando all’accrescimento di un luogo virtuale – i social – che tende a polarizzare le posizioni, a ribadire la nostra posizione di comparse, erodendo gli ultimi residui di quel grosso progetto che chiamo “cittadinanza”. Quindi partecipazione, incontro di corpi. Corpi che portano con sé diritti e desideri. Questo è quello che si propone di fare il teatro: nella cornice della finzione – quindi dell’immagine – fare spazio a qualcosa di vero. Che sia intriso di relazione con la verità. L’altro spettacolo, invece, è una finzione truffaldina, che fa di tutto per nascondere il suo apparato di fiction, dando un’illusione di realtà e di verità. Anche la regia non si dichiara, è nascosta, è lo zio Tom, sono le banche, i poteri forti… 

Ma: tutto questo esiste veramente? Di cosa parliamo quando parliamo di potere? Chi tiene in piedi il sistema? È il sistema stesso che, in quanto organismo, ha come scopo il mantenimento delle sue funzioni vitali? Questa volontà è umana o ultraumana, macchinica? E noi, che guardiamo le immagini alla tv, ci indigniamo, postiamo su Facebook, che ruolo abbiamo? Pensiamo o sogniamo? Mi piace citare di nuovo Debord e il suo profetico libro: “Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che costituì pure una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere (…). Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. È la vita concreta di tutti che si è degradata in un universo speculativo. Più la necessità viene a essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il desiderio di dormire” (tesi 19-21). Lo spettacolo di Mroué ha il merito di riaprire tutta una serie di questioni, ricordandoci che un'immagine non è mai un piano bidimensionale, ma va guardata in profondità, esplorata. Non dobbiamo mai stancarci di cercare la regia e di distinguere campo e controcampo quando un'immagine determina una narrazione forte. Soprattutto se intendiamo tornare ad essere cittadini, abbandonando il ruolo di comparse. 

 

Il testo più o meno nella forma proposta è stato inserito nell'ultimo Quaderno del FIT, un'iniziativa nata in seno al Festival internazionale di teatro e ideata da Carmelo Rifici e Paola Tripoli. Si accompagna ad altri importanti interventi a firma di Christian Raimo, Renato Palazzi, Attilio Scarpellini, Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti, Giovanni Boccia Artieri e Laura Gemini.

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