Stile e realtà / Murakami. L’assassinio del Commendatore

24 Dicembre 2018

«Dire che è un lavoro solitario parrà banale, ma è proprio così: scrivere un romanzo, soprattutto un romanzo lungo, è qualcosa che si fa in solitudine. A volte ho l’impressione di stare seduto in fondo a un pozzo». È con queste parole che Murakami Haruki, nel settimo capitolo del Mestiere dello scrittore (2015), rappresenta la condizione del narratore immerso nella solitudine e nella profondità del comporre. La stessa solitudine riguarda i personaggi dei suoi romanzi più famosi, da Norwegian Wood a Kafka sulla spiaggia e 1Q84, che danno l’impressione di vivere in una bolla che galleggia nel tempo e nello spazio, persa in una dimensione incerta tra fantasia e realtà, presente e distopia. Le riflessioni di Murakami sulla scrittura fanno perciò sospettare che le sue storie siano spesso anche allegorie del comporre romanzi, o meglio variazioni sul tema della solitudine nella quale lo scrittore si astrae per dar corpo ai suoi fantasmi. 

Non fa eccezione l’ultima opera, L’assassinio del Commendatore, nel quale anzi l’allegoria sembra ancora più esplicita che nei romanzi precedenti. La stessa metafora del pozzo trova qui un equivalente letterale nella caverna sotterranea da cui il protagonista, che è anche il narratore del racconto, sente arrivare di notte il flebile suono di una campanella. Da quel luogo affiora una misteriosa creatura, presenza bizzarra e inquietante che vuol farsi chiamare «idea» e che solo il protagonista è in grado di vedere e sentire: «Comunque, per tornare alla domanda che mi avete posto prima, sono io un fantasma? No, no, non è così signore. Non sono un fantasma. Sono una pura e semplice “idea”» (p. 287).

 

 

Proprio Idee che affiorano è il titolo del Libro primo del romanzo, pubblicato in Giappone l’anno scorso e da poco uscito in Italia per Einaudi nella traduzione di Antonietta Pastore. La strategia editoriale è dunque la stessa già adottata per 1Q84, finora il lavoro più ampio e complesso dello scrittore, diviso in tre libri e uscito da noi in due volumi, tra il 2011 e il 2012. Il nuovo romanzo per molti versi gli somiglia; i tratti in comune, del resto frequenti nella narrativa di Murakami, sono appunto la condizione del protagonista, ‘postuma’ rispetto a un’esistenza rievocata come in sogno, e il conseguente inevitabile trapasso tra reale e surreale. Il punto di riferimento è ancora Kafka, citato qui nel titolo del capitolo ventottesimo (Franz Kafka amava i pendii) e forse già richiamato nel Prologo, da accostare all’incipit della Metamorfosi kafkiana: «Oggi, svegliandomi da un breve sonno pomeridiano, davanti a me ho trovato l’uomo senza volto» (p. 4). Ma il risveglio del protagonista dell’Assassinio del Commendatore è diverso da quello di Gregor Samsa: il perturbante kafkiano consiste infatti nel mantenere inalterata la realtà che circonda la condizione eccezionale del protagonista, mentre in Murakami è la realtà stessa ad accogliere l’impossibile, secondo i modi del fantastico. Così, nel finale del Prologo, il personaggio si trova alle prese con la tipica esitazione tra sogno e veglia provocata dall’apparizione o, in questo caso, dalla scomparsa di un oggetto mediatore: 

 

«Si è dissolto nell’aria, come nebbia soffiata via da un’improvvisa folata di vento. Restavano soltanto la sedia vuota e il tavolino. Sul ripiano di vetro il pinguino portafortuna non c’era più. 

Che fosse stato un sogno, un breve e fugace sogno? No, sapevo bene che non lo era. Perché in tal caso tutto, tutto sarebbe stato solo un sogno: anche il mondo in cui vivevo. 

Un giorno sarò forse capace di ritrarre il nulla. Così come un giorno un pittore era riuscito a dipingere un quadro intitolato L’assassinio del Commendatore. Però ho bisogno di tempo.

Me lo devo fare amico il tempo.» (p. 5)

 


Il romanzo ha lo stesso titolo del quadro, a conferma della corrispondenza tra il processo della scrittura e la trama dell’opera. Un nesso consolidato da ulteriori parallelismi con ciò che Murakami scrive nei suoi saggi. Basti dire che un altro capitolo del suo libro sul lavoro del romanziere s’intitola proprio Considerare il tempo amico: scrivere un romanzo lungo. “Farsi amico il tempo” è perciò un’aspirazione condivisa dall’autore e dal suo personaggio. 

In quello stesso capitolo del saggio, Murakami osserva: «Per quanto lungo sia un romanzo, per quanto complicata la struttura, non faccio mai un piano all’inizio, procedo improvvisando come mi viene, senza sapere né come si svilupperà né come finirà». In effetti, le vicende che si sviluppano nei romanzi di Murakami sembrano crescere l’una dentro l’altra, come fossero corpi aggiunti a un edificio o quartieri costruiti sulle fondamenta di una città preesistente. Di qui anche l’intreccio di storie e coincidenze, che assomigliano a passaggi e cunicoli fra un settore e l’altro di un territorio che nessuna mappa può riprodurre e circoscrivere. È questa una delle ragioni per cui, quando si legge Murakami, sembra di caderci dentro: insieme allo scrittore e ai suoi personaggi anche noi lettori ci ritroviamo in fondo al pozzo delle idee. Il fascino dei suoi romanzi deriva in gran parte da questo coinvolgimento straniante, dalla tensione mai sciolta tra l’abbandono al caos e la ricerca di un senso totale, di una spiegazione ultima. 

Di opera in opera, però, Murakami ha dato sempre più l’impressione di volgere quell’ambivalenza in maniera; occorrerà attendere la seconda parte per dare un giudizio definitivo, ma già questo Libro primo sembra sfruttare pienamente le risorse della fiction, nella gestione degli stereotipi romanzeschi e nell’organizzazione di una struttura tendenzialmente seriale, in cui le ripetizioni ‘segnaletiche’ per il lettore si alternano alla tecnica del cliffhanger, cioè alla chiusura dei capitoli su colpi di scena ed effetti di suspense. 

 

I limiti che si possono legittimamente attribuire al libro sono dunque di natura narrativa; meno motivabile è invece il giudizio negativo basato su elementi culturali: Murakami infatti è stato spesso accusato di essere uno scrittore troppo ‘globale’, che avrebbe cioè tradito la propria cultura e la tradizione letteraria del suo paese per adottare modelli e stereotipi occidentali. Ne sarebbero una prova i continui riferimenti tanto all’arte europea quanto ai marchi industriali, molto frequenti anche nell’ultimo romanzo, che hanno fatto pensare all’espediente del name o title dropping tipico delle narrazioni postmoderne. Il confronto è attendibile, ma adottarlo in chiave critica è meno accettabile, per due motivi. Il primo è un’obiezione di fondo: è difficile oggi definire la letteratura o perfino la cultura ‘occidentale’, contrapponendola in chiave essenzialista a una letteratura ‘orientale’ o specificamente giapponese. Il secondo motivo, legato al primo, dipende dalla conoscenza approssimativa, e spesso dalla visione stereotipica, del Giappone dalla prospettiva del cosiddetto Occidente. L’orientalismo contemporaneo può far credere inautentici modelli e situazioni in realtà perfettamente plausibili e realistici. È istruttivo leggere quanto ha osservato la traduttrice di Murakami, Antonietta Pastore, in un suo articolo del 2013:

 

 

«Ora, tradurre Murakami a me piace. Mi piace perché racconta il Giappone quale l’ho conosciuto io, parla di persone come quelle che ho incontrato durante i sedici anni che ho trascorso in quel paese e fra le quali mi sono fatta degli amici, descrive la vita d’ogni giorno; e in questo modo avvicina il lettore italiano a un popolo in apparenza tanto lontano, gli permette di scoprire che i Giapponesi fanno più o meno le stesse cose che la gente fa in Italia e ovunque nel mondo industrializzato, che comprano più o meno gli stessi prodotti, ascoltano la stessa musica, addirittura mangiano spesso le stesse cose. E hanno lo stesso nostro bisogno di evadere con la fantasia dalla routine quotidiana. Perché è questo che Murakami permette al lettore di fare: lo introduce in un’atmosfera in apparenza banale, nella vita di un personaggio anonimo che potrebbe essere ognuno di noi − un vicino di casa, un collega di lavoro −, e lo porta a poco a poco in una dimensione fantastica.»

 

Se c’è un elemento cruciale nell’Assassinio del Commendatore è proprio il tema della fusione di stili e culture nell’opera d’arte. Si direbbe che Murakami abbia deciso di replicare alle critiche mettendo al centro del romanzo la questione dell’influenza e della responsabilità dell’Occidente non solo rispetto alla storia del Giappone (come aveva già fatto in particolare in Kafka sulla spiaggia) ma anche nei confronti dell’arte e dunque, per allegoria, della sua stessa scrittura. 

Tutto ruota intorno al quadro eponimo, scoperto dal protagonista nella casa dove è andato ad abitare dopo la separazione dalla moglie. L’amico che gliel’ha prestato è figlio di un famoso pittore, Amada Tomohiko, che in quella casa aveva vissuto. Quando il protagonista trova in soffitta L’assassinio del Commendatore capisce subito che è opera del Maestro e si mette a studiarla con l’occhio dell’esperto: anche lui infatti dipinge, di mestiere fa il ritrattista. Gran parte del libro, in effetti, è dedicata all’incontro tra il narratore e un uomo ricchissimo dal passato ambiguo, Menshiki (un nome parlante, se è vero che in giapponese «si scrive con gli ideogrammi di “sfuggire” e “colore”», p. 98), che gli commissiona il proprio ritratto. La ricerca dello stile per dipingere il volto di Menshiki e coglierne l’essenza si sovrappone così all’inchiesta sul vero soggetto raffigurato nell’Assassinio del Commendatore. Il quadro ha qualcosa d’incongruo e terribile: da un lato, vi si rintraccia lo stile dell’arte nihonga, ispirata ai modi della tradizione giapponese; dall’altro, i canoni di serena formalità tipici di quella maniera vengono rovesciati dalla violenza del soggetto rappresentato: 

 

«In quel quadro […] scorreva il sangue. Fiumi di sangue. Due uomini si affrontavano con pesanti spade di foggia antica. In un duello si sarebbe detto. Uno era giovane, l’altro era vecchio. Il primo aveva affondato la spada nel petto del secondo. […] Il rivale doveva avergli trafitto l’aorta, perché dal suo petto il sangue sgorgava abbondante. E macchiava di rosso il suo abito bianco. La sofferenza gli deformava la bocca. Gli occhi erano spalancati e guardavano con tristezza nel vuoto. Capiva di essere stato sconfitto. Ma il vero dolore non era ancora arrivato.

Negli occhi del giovane, che fissava il suo avversario dritto in faccia, c’era un’espressione gelida. Non il minimo barlume di rimpianto, perplessità o compassione.» (p. 81) 

 

La scena allude forse all’uccisione del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart, come il narratore crede di intuire? O ha a che fare con il passato dello stesso Amada Tomohiko, che aveva vissuto a Vienna all’epoca dell’Anschluss e ne era stato bruscamente espulso in seguito a un omicidio? In questo caso, con un significativo cortocircuito di epoca e costumi, il Commendatore potrebbe rappresentare un alto ufficiale nazista. Oppure, ancora, quel duello prefigura un conflitto tra il protagonista e il più anziano Menshiki? Se vi è una soluzione a questa sorta di giallo semiotico, la si troverà nella seconda parte, ancora inedita in Italia. Ma, al di là dello svolgimento fattuale della trama e dei suoi punti di contatto con la letteratura di genere, ciò che caratterizza il romanzo resta la riflessione sullo stile come ri-creazione della realtà attraverso la fusione, attraverso l’ibridazione tra modi e temi che mettono in rapporto diverse culture, specchiandosi nella Storia. È un programma ambizioso e non sempre l’opera ne regge il peso; ma se si vuol leggere e capire Murakami, al di là del ricorso a categorie e opinioni superficiali, bisogna partire da qui. 

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