Martin Amis: la vita della scrittura 

25 Luglio 2023

Non sai mai da dove arrivi la voce che parla nei libri di Martin Amis (1949-2023), non capisci cioè da quale luogo e soprattutto da quale tempo provenga. Succede in racconti suoi come Gli immortali (nei Mostri di Einstein, 1988), o in romanzi come La freccia del tempo (1991), in cui la macchina della storia è mossa proprio dai paradossi del tempo narrativo: nel primo, il narratore si presenta appunto come «l’Immortale», e assiste (fantascienza o allucinazione?) al trascorrere delle epoche fino alla prossima fine del genere umano; nel secondo, la storia va al contrario, e insieme alla catena temporale s’invertono anche i rapporti causa e effetto e la polarità morale di bene e male (allegoria del mondo alla rovescia del Lager). In quei casi, la dissonanza temporale è il riflesso della condizione patologica di narratori inattendibili o immorali; la perturbazione del cronotopo è una caratteristica del loro ambiente psicologico e etico, prima che un affascinante e complesso dispositivo strutturale. Ma la stessa voce disambientata risuona anche nell’ultimo libro di Amis, La storia da dentro. Come scrivere (‘Inside Story’, 2020) e l’effetto è ancora più straniante, per due ragioni. 

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La prima è che stavolta il personaggio-narratore è, o pretende di essere, lo stesso Amis, dato lo sfondo dichiaratamente autobiografico dell’opera. Lo spaesamento in questo caso è più forte perché il lettore si attenderebbe un protagonista molto vicino se non proprio aderente all’autore, alla sua vita e appunto al suo tempo e ai suoi spazi. Invece non è così, non del tutto: senza mai tradire la verosimiglianza biografica o farsi cogliere in flagranza di menzogna, e senza mai allontanarsi dal modo realistico, Amis adotta più sottili strategie di sabotaggio del patto autobiografico. Una di queste consiste nell’accentuare i tratti romanzeschi, come accade nelle sequenze che hanno per protagonista un personaggio femminile, chiamato Phoebe: la trama famigliare e amorale in cui la donna è coinvolta adombra anche un’allegoria della nascita letteraria di Amis, fra il padre Kinsgley e l’amico di famiglia Larkin. Un’altra tecnica di elusione dell’autobiografia fa sì che la narrazione sfumi di frequente nel saggio; un’altra ancora si attua inframmezzando la storia principale con racconti indipendenti (nell’Interludio della parte seconda è riportato il testo di una storia breve, intitolata Oktober) o rimandando la conclusione, facendola cioè seguire da un Ripensamento e poi da un Addendum

Ma la strategia più esplicita è quella dello sdoppiamento del personaggio autoriale in due istanze – la prima persona narrante e la terza persona narrata – che mettono in abisso la prospettiva sugli eventi: per un ampio tratto della Storia da dentro, infatti, il narratore si trova più a suo agio chiamando sé stesso ‘Martin’ anziché semplicemente ‘io’. Oltre che con i suoi romanzi precedenti, questa alternanza può essere messa in relazione con un vezzo dell’amico scrittore e saggista Christopher Hitchens (1949-2011), “the Hitch”, quasi coprotagonista nel libro: «“Lo Hitch è atterrato”, era solito dire tutte le volte che chiamava da Heathrow. Come sappiamo, l’abitudine di parlare di se stessi in terza persona non sempre è segno di limpida salute mentale» (p. 358). 

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Christopher Hitchens.

Contribuisce a questo sdoppiamento la dialettica tra il testo e le note a piè di pagina, che dà corpo tipografico al frazionamento del soggetto; come già nel primo memoir di Amis, Esperienza (‘Experience’, 2000), anche in questo, che ne rappresenta una sorta di prosecuzione, le note danno conto di circostanze e dettagli omessi nel racconto, riferiscono commenti, pensieri e ‘a parte’ dell’autore, stabiliscono insomma un collegamento fra il piano della scrittura (quello interno, inside) e la dimensione empirica e evenemenziale. 

La seconda ragione di straniamento non dipende dal testo, ma da una circostanza estrinseca, eppure inscindibile ormai dal libro e dalla sua ricezione: l’uscita della traduzione italiana (per Einaudi, a cura di Gaspare Bona) ha seguito di pochissimi giorni la morte dell’autore (19 maggio). È stato e resterà quasi impossibile, perciò, leggere il libro – non solo in Italia, direi – senza quel senso della fine di cui del resto è intriso. Se non è proprio un testamento, poco ci manca: Amis era malato da tempo e nel racconto dell’ultima parte della sua vita si illuminano di continuo le ‘toppe d’inesistenza’ lasciate dagli amici scomparsi, soprattutto Hitchens. «È giusto, è appropriato, è come dovrebbe essere, che si muoia», scrive Amis nel Postludio che anticipa la conclusione del libro, e «senza morte non c’è arte» (p. 623). Ma non si può fare a meno di pensare che la strategia di dilazione che Amis mette in atto nel finale, prolungando il libro oltre la conclusione del racconto e il congedo dal lettore – «Arrivederci, caro, intimo, gentile lettore» – sia anche un esorcismo contro la ‘morte’, quella narrativa e in fondo anche quella reale. 

L’incombenza della fine fa sì che nella voce che parla nella Storia da dentro risuoni un’eco postuma, che ci raggiunge cioè da un tempo vicino ma già assoluto, e da una distanza minima però incolmabile. Quella voce, fin dall’inizio, non si limita a narrare ma ci vuole accogliere, intrattenere, al limite irretire; vuole insomma esercitare il fascino e insieme esibire l’artificio del romanzo per portarci dentro la storia della vita dell’autore: possiamo interpretare anche così il titolo Inside Story, che si offre del resto a molteplici letture e possibilità di resa in italiano (a La storia da dentro si potrebbero affiancare ‘la storia interiore’ o ‘la storia rivissuta’: non vere alternative ma nuances corrispondenti alle diverse sfaccettature del libro). 

Per farci accomodare dentro la sala in cui proietterà lo spettacolo della sua vita, Amis ricorre, già nella prima pagina del Preludio e varie altre volte nel testo, alla tattica metanarrativa dell’invito al lettore: 

«Benvenuto! Fatti avanti, questo è un piacere e un privilegio. Lascia che ti aiuti. Dammi il cappotto, lo appendo qui (oh, per inciso, il bagno è da quella parte). Perché non ti siedi sul sofà… così puoi regolare la distanza dal fuoco. Che cosa posso offrirti? Whisky?» (p. VII). 

Difficile non pensare all’incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore, anche se Calvino non è tra gli autori del canone di Amis (eppure proprio negli Immortali sembra di riconoscere una traccia delle Cosmicomiche; del resto è nota l’influenza dell’autore italiano presso la generazione degli scrittori britannici a cui Amis apparteneva: McEwan, Barnes e soprattutto Rushdie).

Un riferimento dichiarato è invece quello di Nabokov e della sua ‘autobiography revisited’, Parla, ricordo (‘Speak, Memory’, 1951): 

«Vladimir Nabokov… lui aveva tutti i diritti e le credenziali per tentare un romanzo autobiografico» scrive Amis ancora nel Preludio; la vita dello scrittore russo «non fu “più improbabile della finzione” (frase quasi priva di senso), ma incredibilmente movimentata e venata di fascino geostorico». 

Se a rendere legittima la scrittura autobiografica è il connotato romanzesco della vita a cui s’ispira, Amis sembra ritenersi privo della licenza che attribuisce a Nabokov. Sarà anche per questo che La storia da dentro è in fondo un’autobiografia per interposte vite: quella del padre, lo scrittore Kingsley Amis, e della sua seconda moglie, la scrittrice Elizabeth Jane Howard, che ebbe una decisiva influenza su Martin (il suo capolavoro è la saga Cazalet Chronicle, ma tra le sue opere c’è anche il memoir Slipstream, del 2002); ma soprattutto quella degli amici e padrini letterari: Hitchens, Saul Bellow, Philip Larkin. 

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Martin e Kinsgley Amis con Elizabeth Jane Howard.

Rileggendo la propria vita nello specchio di quelle altrui, nelle loro assenze (le foto in bianco e nero incluse nel libro compongono una galleria di fantasmi, a cominciare da quello dello scrittore in copertina), Amis finisce per rielaborarla e reinterpretala, giustificando così la definizione di ‘romanzo’ che il libro esibisce nel sottotitolo originale: Inside Story. A Novel. È vero che quest’etichetta appare sempre più spesso sulla copertina di oggetti editoriali disparati e assai poco ‘romanzeschi’, almeno secondo il senso comune; ma quella di ‘romanzo’ non è quasi mai una categoria inerte, tanto meno nel caso di un autore come Amis, che al nodo tra invenzione, storia e biografia ha dedicato gran parte della sua scrittura fittiva e no. «Il libro che hai tra le mani – si legge nella parte terza, all’inizio del capitolo quinto – si autodefinisce un romanzo, e io sostengo che effettivamente è un romanzo» (p. 414). La parola ‘romanzo’ funziona perciò come un reagente, che attiva e dà una struttura alla materia grezza dei ricordi: «La vita è priva di forma, non va da nessuna parte, non si incentra intorno a nulla, non è coerente. Artisticamente è morta. La vita è morta» (p. XVII). Ora, quel che rende La storia da dentro un libro importante – di certo il più importante che Amis abbia scritto in anni recenti e forse negli ultimi due decenni – è la capacità di rendere questa disarticolazione e allo stesso tempo di contenerla in un (sedicente) romanzo, cioè senza rinunciare al valore della scrittura e della struttura, rendendo di fatto secondarie le domande sul genere di appartenenza (fiction? non fiction?): domande che pure l’opera e lo stesso autore continuamente sollecitano. 

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Inside Story. A Novel.

Il narratore, del resto, ha una spiccata propensione a contraddirsi, a esprimere giudizi del tutto idiosincratici su fatti e persone, confermando anche per questa via che il primum non è un racconto oggettivo della vita reale, né all’opposto la sua studiata contraffazione in un racconto a orologeria (non assegnerei il libro all’autofiction, più per la diversità delle prospettive e dell’ethos che sulla base di mere questioni e categorie tecniche). La storia da dentro è un libro a volte ridondante, a volte sformato, ma non intenzionalmente ‘destrutturato’: per Amis il romanzo sperimentale è morto, ucciso dalla stessa antisocialità dei suoi praticanti; così il rapporto lettore-scrittore «ha cessato di essere anche solo minimamente collaborativo», il narratore inaffidabile «è stato sostituito dal lettore inaffidabile», pp. 78-79. Forse per questo il libro è così lungo e mostra una spiccata tendenza didascalica non sempre ben temperata – penso alla sezione su Come scrivere, da cui proviene un po’ arbitrariamente il sottotitolo dell’edizione italiana (d’altra parte, Inside Story può significare anche questo: una story, cioè un racconto, visto da dentro, smontato e analizzato nei suoi ingranaggi, il che corrisponde un po’ a quello che fa lo scrittore in questo libro). Non che Amis voglia provocare il lettore, mettendolo di fronte a un’opera complessa e non convenzionale (quale certamente La storia da dentro è): non è questa la motivazione all’origine dell’abnormità del libro. Il fatto è invece che Amis non si fida del lettore, ma non per questo lo disprezza, tutt’altro: lo accudisce e lo fa mettere comodo, come si è visto nell’incipit ‘calviniano’, per poi commentare e spiegare tutto o quasi, e tornare indietro per rispiegare ma in modo diverso, cercando modi e immagini adatte. Il romanzo è questo tentativo continuo di spiegare le cose a sé stesso e al lettore, che non è un estraneo – anche per questo lo accoglie nella ‘casa’ del testo – ma è un suo simile, più spontaneo che ipocrita. «I lettori sono tuoi ospiti, in fondo – spiega Amis nel capitolo Come scrivere – e vengono a trovarti come estranei; quindi li rassicuri e li fai sentire a casa, poi cominci a scaldarli…» (p. 524). Un aneddoto raccontato nel libro sembra, su questo, abbastanza eloquente; a diciotto anni, ricorda Amis, era solito dirsi:

«“Non voglio essere uno scrittore (almeno non ancora). Voglio essere un lettore. Voglio solo far parte della cosa.” […] Sarebbe sufficiente. Anche se non dovessi mai scrivere, completare, pubblicare niente, quello sarebbe sufficiente. Una poltrona imbottita e una banale lampada (e naturalmente un libro aperto). Sarebbe sufficiente. Allora ne farei parte». (p. 126)

In effetti, nel corso del libro si assiste anche alla conversione dello scrittore in lettore e interprete di sé stesso, attraverso una rete di implicite allusioni e di espliciti richiami tematici alle sue opere precedenti; persistenti sono, in particolare, i riferimenti alla Storia del Novecento, a Hitler e Stalin, a ciascuno dei quali Amis ha dedicato due libri: sul nazismo e la Shoah ha scritto infatti La freccia del tempo (il sottotitolo – La natura dell’offesa è preso da Primo Levi, che torna anche in questo libro) e La zona d’interesse (2014); sullo stalinismo e i gulag, Koba il terribile (2002) e La casa degli incontri (2006). Ma sono molte anche le pagine sulla Storia contemporanea, dall’11 settembre (su cui Amis ha scritto Il secondo aereo, 2008) alla presidenza Trump. A pensarci bene, un titolo appropriato per il libro sarebbe stato anche Inside History, per la capacità che ha l’autore di attraversare la Storia versandovi e facendo fermentare le proprie ragioni individuali, ideologiche e morali. 

Amis sembra tendere più a questo che non alla configurazione della propria vita per mezzo di un racconto esemplare e orientato. Da qui forse l’impressione di ‘disordine’ e saturazione che il libro può trasmettere a una prima lettura. Ma è più importante il fatto che il narratore cerchi, pagina dopo pagina, la risposta alla domanda più radicale che uno scrittore possa farsi, e possa rivolgere ai suoi lettori: «Come può un romanzo autobiografico tentare, figuriamoci raggiungere, l’universale»? (p. 36). Non credo che il libro su questo abbia una verità definitiva da imporre; semmai suggerisce un esempio, quello di Saul Bellow, la cui narrativa «era in ogni caso piena fino all’orlo della sua vita privata», dal momento che l’autore di Herzog scriveva soprattutto «su persone che conosceva e cose che erano realmente successe» (p. 86). Ma Amis ha il merito di continuare a porre da varie prospettive la questione. Vita e opera sono inseparabili, come aveva appreso suo malgrado Philip Larkin: «incoraggiato da Yeats», il poeta di Finestre alte «si era inchinato alla contrapposizione palesemente falsa tra “la vita” e “l’opera” (come se le due si escludessero a vicenda). E quando l’opera, la poesia, lo abbandonò (Larkin indica come data il 1974), si ritrovò impantanato in una “vita di merda”» (p. 591). La dialettica tra personale e universale implica un’altra riflessione, quella sullo scopo del romanzo:

«Che cosa c’è di buono in un romanzo, che cosa realizza, a che cosa serve?

Sulla questione ci sono (come spesso accade) due opposte scuole di pensiero, in questo caso esteti contro funzionalisti. Gli esteti ci spiegano un po’ annoiati e quasi compatendoci che il romanzo non ha assolutamente alcuno scopo (è solo un manufatto, nient’altro). I funzionalisti considerano che tendenzialmente il romanzo favorisca il progresso: la narrativa è (o dovrebbe essere) impegnata a migliorare la condizione umana.

Beh, ho sempre pensato che i progressisti potrebbero aver torto; ma gli esteti non possono avere ragione. Volendo possiamo, con una certa affettazione, ammettere che un particolare tipo di romanzo è privo di scopo. Ma può essere privo di scopo, monotonamente privo di scopo per l’intera vita adulta, un romanziere? O chiunque di noi?» (p. 119).

D’accordo, forse questa distinzione tra esteti e progressisti è un po’ grossolana, e le conclusioni sono poco stringenti: ma colpisce la disponibilità di Amis a lasciare che il suo pensiero, conveniente o sconveniente che sia, prenda forma al cospetto del lettore. E si apprezza la capacità di «trovare il tono giusto» (su cui Amis riflette nella parte terza), che manca ad altri tra i più dotati scrittori e scrittrici più o meno suoi coetanei, compiaciuti del loro lucido cinismo, così lontano dalla generosa disperazione che muove La storia da dentro

«Il talento letterario ha forse quattro o cinque modi di morire», osserva Amis nella parte quarta: la maggior parte degli scrittori «diventano semplicemente acquosi e leggermente stantii»; alcuni perdono «il senso della delicatezza», come sarebbe accaduto a Nabokov; mentre Philip Roth non sarebbe stato più capace di «dotare i suoi personaggi di una convincente vita autonoma» (p. 498). Forse Martin Amis temeva di aver conosciuto la stessa decadenza; certo è che, con La storia da dentro, è riuscito a raccontare la vita della scrittura come pochi altri narratori hanno saputo fare. 

In copertina, Amis nel suo studio.

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