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Alcune considerazioni sul coronavirus / La violenza, il sacro – e poi?

31 Marzo 2020

Friedrich Hölderlin, forse il più grande poeta di lingua tedesca e uno dei maggiori pensatori moderni parlò, intorno agli anni 1800, della necessità di elaborare una “nuova mitologia”. Quest’ultima prese in qualche modo forma nel secolo XX quando i surrealisti identificarono la città moderna come, appunto, un territorio “mitologico” (Le paysan de Paris di Louis Aragon, romanzo-chiave anche per la lettura benjaminiana di Parigi, capitale del mondo, fornisce un esempio di tale mitologizzazione). Sempre nel Novecento, Roland Barthes fornì con la sua serie di articoli riuniti sotto il titolo Mythologies un ulteriore esempio per la possibile rinascita del pensiero mitologico. Barthes analizzò fra l’altro il modo in cui per noi moderni il latte o il vino oppure la carne rossa facciano parte di un sistema mitologico che non valorizza più le divinità, ma tutto ciò che una cultura data considera come essenziale o potente. 

Il coronavirus appare in questa luce come un candidato sbagliato; si tratta, come ben sappiamo, di un fenomeno biologico spiegabile con metodi scientifici. Il virus che ha cambiato il mondo è sì potente, anzi potentissimo, ma non sembra direttamente legato a una mitologia specifica. Questo vale però soltanto se non si prende in considerazione un aspetto fondamentale, cioè la questione della sua origine. Sin dall’inizio, gran parte dei discorsi che “girano” intorno al virus riguardano proprio il problema dell’origine. Si parla, in tanti paesi e in tante regioni, di “paziente 0” o “paziente 1”. E si discute soprattutto dell’origine del virus tout court. Esiste certo, e fortunatamente, un dibattito scientifico, la voce del logos se si vuole (e non quella del mythos).

 

Però anche in questo caso la situazione non è del tutto “logica”. Basti pensare alla presenza mediatica del corpo medico-scientifico. L’opinione pubblica viene informata – ma non soltanto, è anche anestetizzata, rassicurata – da un esercito di Übermedici che sanno spiegare il fenomeno. Fino a un certo punto, perché proprio l’origine assoluta, è ciò che preoccupa e che preoccuperà ancora a lungo. Sin dalla sua apparizione pubblica all’inizio dell’anno 2020 il discorso rispettivo ricorre a un quadro narrativo, o in altre parole: si raccontano delle storie, cioè si producono racconti mitici. Una di queste storie collega in modo eziologico l’apparizione del coronavirus a un mercato nel cuore di Wuhan, in cui si vendono animali vivi. Per come viene presentata, la narrazione tipo allude volentieri al consumo di animali vivi, e quindi anche a una forma di relazione “sporca”, e comunque pericolosa, tra gli animali selvatici e gli umani (considerati ugualmente un po’ selvaggi). 

 

 

La focalizzazione sul contatto tra umani e animali è di per sé un interrogativo più che legittimo. Ai tempi del coronavirus la domanda: “Dobbiamo proprio nutrirci di pipistrelli?” assume però una valenza speciale. Il fatto che si tratti di pipistrelli non è un dato neutro. Anche se fino a oggi non si sa se il passaggio dall’animale all’uomo sia dovuto a un contatto con pipistrelli o con serpenti (l’altra “spiegazione” fornita in un primo tempo), la presenza del pipistrello (e della specie Rhinolophus) è comunque più che rilevante. Tenendo presente la scala del disgusto, il pipistrello appare da sempre in cima alla classifica degli animali più mostruosi. Va aggiunta poi l’esistenza di specie di pipistrelli vampiri (Desmodontini).

 

Che l’incontro tra questi animali e l’uomo sia fonte di preoccupazione appare già in una delle celebri acqueforti dei Caprichos di Goya: Il sonno della Ragione genera mostri. Qui i pipistrelli che svolazzano intorno al pittore sognante sembrano rappresentare in modo emblematico l’ignoranza. Alla luce della nostra ignoranza, che riguarda l’origine del nuovo virus e della sua possibile identificazione con i pipistrelli divorati da cinesi ignoranti, la visione di Goya permette anche una lettura attualizzata: attenzione, sembra suggerire il Capricho, quando si identifica troppo velocemente qualcosa/qualcuno come fonte del male, attenzione a non disseminare narrazioni di questo genere nel mondo, perché proprio tali “spiegazioni” possono essere la causa di un pericolosissimo “sonno della Ragione”. 

Viene in mente in questo contesto una grotta che si trova sull’Isola Bella, cioè in uno dei luoghi turistici più visitati d’Europa. Questa grotta è l’habitat di una delle più grandi colonie di pipistrelli non soltanto in Italia. Visto che l’isola del lago Maggiore sta a neanche sessanta km da Milano e che il famoso “paziente 0” non si è mai trovato, sarebbe molto facile inventare un mito secondo il quale siano stati i pipistrelli lombardo-pedemontani delle Isole Borromeo a trasmettere, come i loro lontani “cugini” di Wuhan, il coronavirus all’uomo. 

 

 

Basta poco per infettare il mondo con storie che, una volta diffuse, non smettono di propagarsi. Nella situazione odierna si può comunque osservare in modo esemplare come alla propagazione virale si aggiunga quasi da subito quella narrativa. In un momento storico come questo, dove uno dei rari svaghi rimasti sembra essere quello di raccontare attraverso ogni canale asettico – cioè quelli digitali – le nostre storie, anche questi messaggi devono essere sottoposti a un controllo. Non a un controllo statale, ma a un auto-controllo. Visto che l’infezione virale biologica genera l’infezione digital-mitica occorre a ogni costo rinforzare le nostre difese ermeneutiche. La nuova mitologia che accompagna il disordine creato dal virus – forse necessaria – cela anche pericoli notevoli. Ecco che con il coronavirus, e il modo in cui ha saputo modificare la nostra vita, è ricomparso quasi subito anche il “virus” del nazionalismo. Sovranisti-populisti hanno chiesto la chiusura delle frontiere dimenticando che il “nemico invisibile” non rispetta tali vincoli e separazioni. Quasi da subito il mito della fortezza salvatrice ha generato dei “piccoli”: occorre (e sembra ovvio) chiudere la regione, la città, la casa, la camera, le finestre. La relazione mutata con l’altro in generale ha portato a una divisione sempre più marcata tra “buoni” e “cattivi”. 

 

Torniamo però alla narrazione principale, quella che riguarda l’origine del coronavirus tout court. Mentre la stampa USA continua a identificare il covid-19 come il “virus cinese”, la stampa cinese lascia circolare una leggenda strana che sottolinea, al contrario, l’origine americana. Il virus sarebbe entrato in Cina grazie a un soldato americano che partecipò a metà ottobre ai Military World Games a Wuhan, un soldato che avrebbe contratto il virus scappato dal centro medico-militare di Fort Detrick, nel Maryland, magari usando delle e-cigarettes. L’interessante qui non è il proliferare di questo miscuglio tra complottismo, propaganda e mera idiozia, ma il fatto che questo genere di miasma verbale contamini gran parte dei discorsi odierni. 

La re-mitizzazione sembra quindi occupare rapidamente tutti gli aspetti della vita. Pensiamo per esempio agli ospedali-santuari e al loro personale, agli infermieri e medici (a giusto titolo) ‘beatificati’ dalla stampa, alla necessità di “ritirarsi” dal mondo e ad altri “sacrifici”, e alla presenza di profeti di ogni genere (vedi il super-filantropo Bill Gates e la sua predizione dello stato attuale). Oppure alla dimensione mitica della nuova temporalità all’epoca del coronavirus, che oscilla tra l’attesa apocalittica e il momento opportuno (il kairos), invocato per prendere le decisioni giuste nell’attimo giusto.

 

 

Confrontati con questa situazione e disponendo di tempo, mi pare proprio si imponga una lettura (o rilettura) del capolavoro di René Girard, La violence et le sacré. Partendo dall’analisi del sacrificio nelle società antiche, il filosofo francese, scomparso nel 2015, ha elaborato una potentissima teoria che verte sulla “crise sacrificielle”, cioè quel tipo di emergenza che caratterizza la maggior parte dei conflitti che conosciamo. Durante tali periodi, la violenza cresce in modo smisurato e potrà essere sconfitta soltanto grazie a una vittima che concentra su di sé tutta la violenza disseminata nella società intera. Girard analizza la funzione del capro espiatorio partendo da contesti antichi caratterizzati spesso dal miasma, cioè dall’infezione che portò all’espandersi di malattie contagiose. Egli si occupa anche del fatto che la violenza fisica vada sempre di pari passo con altre forme di violenza, per esempio quella verbale o istituzionale. Le rivolte recenti nelle carceri italiane che hanno causato parecchi decessi e la diffusione “virale” della violenza dei detenuti trovano spiegazioni plausibili nella teoria girardiana. Un altro elemento che va sottolineato è il fatto che la crisi definita da Girard tocchi sempre l’insieme dell’ordine esistenziale e culturale di una società. Quando accadono eventi di questo genere, il corpo sociale nella sua totalità rimane ferito ed esposto a vari tipi di violenza, almeno fino a quando un meccanismo compensatorio non ristabilizzi l’equilibrio perduto. 

 

Le teorie girardiane non vanno applicate direttamente alla situazione odierna. Ciò che le rende però pertinenti è il fatto che i fenomeni attuali riguardano ora contemporaneamente – e per la prima volta nella storia umana in questo modo – il mondo intero. Noi tutti facciamo parte di un immenso laboratorio sociale, che esige non soltanto delle risposte (fornite da specialisti e politici), ma anche da noi tutti. Visto che la nostra reazione consiste in gran parte nel raccontare i fatti del giorno, ogni nostra presa di posizione va ponderata, poiché le nostre parole hanno una carica infettiva comparabile a quella del virus che ci attacca. 

 

L’analisi di Girard, la sua maestria nel contestualizzare il presente in un contesto storico più vasto, nonché l’aver messo in luce il connubio tra fenomeni biologici e retorici – tutto ciò può funzionare, in una situazione difficile quale quella odierna, come un vaccino. Un vaccino che ci protegga dalla semplificazione, dall’identificazione troppo rapida di fonti, origini, colpevoli, cioè dalla produzione di violenza verbale. In questi momenti una lettura come quella del testo di Girard non ci rende soltanto più intelligenti (ciò che rappresenta una necessità), ci permette anche di resistere e di sconfiggere quei meccanismi infettivi dovuti non alla natura ma a noi stessi.

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