Il cielo di Christoph Klute

12 Giugno 2024

L’Ottocento è stato affascinato dall’idea del libro assoluto, ovvero dalla possibilità di esprimere o/e contenere il mondo in un’unica opera. Mallarmé proseguì in questa logica, anche se il libro assoluto era più un ideale che un oggetto realizzabile. Flaubert, a modo suo, pensò a un progetto simile parlando della stesura di un libro sul “niente”, e quindi autosufficiente. 

Come “opere assolute” in campo pittorico vengono in mente quei prodotti fortunatissimi di un artista che contengono in qualche modo la totalità del corpus. In questa luce, tutto Velasquez non è forse presente in Las Meninas

In campo fotografico, la realizzazione dell’opera assoluta sembra di prim’acchito meno complicata, dato il carattere momentaneo dello scatto. Ogni fotografia “riuscita” esprime infatti il kairos specifico della sua genesi, l’esistenza di un momento particolare che ha permesso di estrarre il questo-adesso-qui dall’infinità di possibilità parallele. 

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Christof Klute, Offizium (2000), Monastero Marienwald di Heimbach.

L’opposizione tra pittura – discorsiva, generata nel tempo – e fotografia – momentanea, generata dall’attimo – è comunque relativa: pure lo scatto fotografico possiede una sua temporalità. Il famoso punctum di Roland Barthes è un’astrazione, come il punto della prospettiva centrale e della geometria decostruito magistralmente nella Micrografia di Hooke. Ogni foto è la traccia del non-più piuttosto che dell’ancora, una realtà ben espressa dal termine fotografia, dove alla luce (foto) si aggiunge il lato grafico (narrazione), ossia qualcosa di diacronico. La fotografia, anche quella più vicina indessicalmente al suo punto di partenza, è comunque traduzione: contiene la preparazione dello scatto, la traccia fisica lasciata sul supporto, la trasformazione che avviene durante lo sviluppo, ecc. Vi è, in altri termini, in ogni fotografia un ritardo significativo, per cui una “fotografia assoluta” sarebbe tale non grazie al suo divenire, ma perché indipendente dalla fonte originale ormai lontana. ‘Assoluta’, dunque, non in senso mimetico (la fotografia mostra ciò che resta quando ciò che era non esiste più), ma in senso autoreferenziale come un’opera che inizia un percorso ricettivo potenzialmente infinito. 

Non va dimenticato poi che, assoluto o meno, il momento fotografico (l’irruzione originaria del tempo nello spazio) è esposto alla possibilità di ripetizioni illimitate grazie alle varie tirature che la rendono visibile. 

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Johan Christian Dahl, Wolkenstudie,1832), Kunsthalle di Amburgo.

Le nuvole sono – vedi la Théorie du nuage di Hubert Damisch – ben più di un semplice motivo della storia dell’arte. In quanto indice di temporalità e spazialità, le nuvole funzionano in campo artistico come segni complessi, che riguardano l’ermeneutica dell’opera (pittorica o fotografica) in questione. Esiste un filone che va da Alexander Cozens a Luke Howard a Goethe (la lista può facilmente essere completata), una tradizione intellettuale che collega i fenomeni meteorologici identificati come nuvole a un’idea di ordine sulla base di un catalogo di forme (esiste addirittura un atlante delle nuvole). Un filone opposto, rappresentato, per esempio, da Johan Christian Dahl o John Constable, va oltre lo “studio”, identificando nella configurazione delle nuvole una forma radicalmente individuale, un arabesco idiosincratico che, pur resistendo all’interpretazione, si iscrive nella memoria come singolarità assoluta.

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Correggio, Assunzione della Vergine (1524-1530), Duomo di Parma.  

Particolarmente importante in questo contesto – non a caso è stato anche uno dei punti di partenza della teoria di Damisch – è l’esempio “rivoluzionario” del Correggio, che nell’Assunta parmense buca per così dire la cupola e crea un intreccio folle di nuvole e di corpi, il tutto all’insegna di un movimento ascensionale sublime. La prospettiva vertiginosa del “sotto in su” del Duomo, che si manifesta anche nei pennacchi, dove figure sacre e nuvole formano similmente un insieme sorprendente, significa l’energia totale di uno spazio illimitato che, accogliendo la Vergine, si apre in attesa di ricevere potenzialmente tutti i credenti. Incompreso dai contemporanei che vedevano nel capolavoro dell’Allegri “un guazzetto di zampe di rane”, per i visitatori più attenti, come Stendhal, il finto cielo fu proprio l’artefatto indimenticabile che ‘inchiodò’ (“arrêté”) lo scrittore francese a Parma. 

Quando si pensa a nuvole fotografiche, il riferimento immediato è quello degli Equivalents di Alfred Stieglitz realizzati tra il 1922 e il 1934. Furono proprio le nuvole a permettere al grande fotografo newyorkese di “put down my philosophy of life”, cioè di imporre un modo di rappresentazione che non intendeva l’identificazione di oggetti (la nuvola essendo forse il fenomeno che si sottrae di più alla logica oggettuale), bensì la creazione di un’emozione pura. Prive di referenzialità, la maggior parte delle oltre trecento nuvole immortalate da Stieglitz dovevano comunque imprimere nella mente degli spettatori una traccia indelebile: “everyone will never forget them [my clouds] having once looked at them”. 

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Alfred Stieglitz, Equivalent (1925), Alfred Stieglitz Collection, Metropolitan Museum of Art, New York.

Per Stieglitz le nuvole erano quindi un motivo astratto ideale, ovvero “musica”, ciò che spiega l’uso continuo del termine, per esempio nella serie Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs. Le fotografie di nuvole (tutto iniziò nel 1887 sulle rive del lago di Como, mentre la maggior parte delle immagini successive furono scattate negli Adirondacks, dove Stieglitz e sua moglie Georgia O’Keefe avevano una casa di montagna) destarono nel pubblico un senso di disorientamento quasi vertiginoso. L’interpretazione delle nuvole di Stieglitz è lungi dall’essere univoca. C’è chi parla della completa assenza di referente, di astrazione, di mere nuvole-segno, ma anche chi vede in questa parte centrale dell’opus stieglitziano una sorta di ordine divino e di manifestazione mistica del cosmo (Stieglitz stesso parlava di “God in some form or other”, ma sappiamo, da Schleiermacher in poi, che occorre diffidare dell’opinione degli autori).

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Christof Klute, Offizium (2000), Monastero Marienwald di Heimbach.

Christoph Klute ha scattato la fotografia intitolata “Offizium” vicino al monastero Marienwald di Heimbach nella diocesi di Colonia. Il monastero, fondato dai cistercensi e occupato attualmente da monaci trappisti, ha una lunga storia anche drammatica, specie durante la Seconda Guerra mondiale. Klute, che ha studiato lettere, filosofia e teologia, prima di seguire, all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, i corsi presso la celebre coppia Bernd e Hilla Becher, ama indagare fotograficamente luoghi, in cui sopravvive in modo invisibile la traccia di persone o di avvenimenti specifici. Spesso questi luoghi sembrano fuori dal mondo, per esempio come quando Klute si mette sulle tracce della capanna di Ludwig Wittgenstein con vista su un fiordo norvegese. Ricostruendo ciò che il filosofo austriaco avrebbe potuto vedere dalla casetta che costruì con le proprie mani, Klute mostra un ritaglio di natura non identificabile, salvo se si sa che la prospettiva è, appunto, quella che aveva di fronte Wittgenstein. Similmente, quando Klute segue le orme di Rousseau, le immagini scaturite dall’incontro-non-incontro in riva al lago di Bienna sono in un certo senso mute, cioè prive di segni “interessanti”. Fra la confessione di Rousseau, che affermava volentieri che proprio avrebbe vissuto i giorni più felici della sua intera vita (la fonte è ovviamente la celebre Quinta passeggiata delle Rêveries), e lo squarcio di natura lacustre anonimo c’è un abisso colmabile soltanto da uno spettatore-lettore capace di collegare le cose. In altri casi il fotografo, che apprezza la prassi del ritiro spirituale e della meditazione, soggiorna proprio nei monasteri, come in quello renano di Heimbach. A Marienwald Klute scattò fotografie nel lasso di tempo in cui i monaci intonavano i loro canti gregoriani. La musica e la fotografia si “incontrano” quindi anche nell’opera di questo eccellente cultore di Stieglitz, ma lo fanno in modo diverso: per il fotografo americano le immagini erano come la musica, mentre per Klute la musica penetra le immagini. 

La serie “Himmelsbilder”, fotografie del cielo, è stata scattata (giocoforza) di sotto in su, cioè in una prospettiva che ricorda da subito la trascendenza, e con essa, anche la sua lunga fortuna artistica. Le immagini, che portano il segno di questo punto di vista inconsueto (poiché lontane dalla frontalità), sono senza riferimenti e appaiono epifaniche. Affermare che tali fotografie mostrino nuvole corrisponde soltanto in parte al vero: ciò che l’occhio/l’apparecchio fotografico ha registrato non sono oggetti, bensì una “fetta” del campo fotografabile. L’inconsueto appare, certo, meno sorprendente se si pensa all’esempio già menzionato del Correggio. Anche il pittore tardo-rinascimentale faceva perdere l’orientamento e quasi vacillare lo spettatore ‘aspirato’ dal (finto) cielo, ma la cosa era, per così dire, parte del programma, cioè di una deviazione dello sguardo nel nome dell’Assoluto divino. 

Nella storia della rappresentazione profana, basata sulla prospettiva di sotto in su, vi è però anche l’esempio ben noto di Alexsandr Rodčenko. Nel suo caso la volontà di sospingere verso l’alto persone esposte alle sue composizioni sbalordiva a tal punto gli spettatori da modificarne addirittura il modo di concepire la realtà. Sia il modello pittorico (con la sua fortuna nel campo della Quadratura, specie barocca), sia quello fotografico (presente anche in Renger-Patzsch, anche se Rodčenko ne fa una personale firma artistica) hanno comunque un effetto potentissimo. Mediante tali rappresentazioni, il soggetto esposto alla prospettiva di sotto in su viene in qualche modo momentaneamente “illuminato d’immenso”. 

L’essere esposto a una fotografia come quella di Heimbach crea una situazione, in cui – almeno in un primo tempo – non vi è “niente” da vedere, cioè manca qualcosa di identificabile. Certo, percepiamo il cielo (pieno, carico), nuvole, luci, ombre, ma tutto resta un puro gioco di forme. Riflettendo su ciò che accade quando siamo dinanzi a una fotografia auratica come questa sorgono però molti interrogativi, e ci sentiamo quasi obbligati a concettualizzare l’esperienza. Sul piano concettuale (più hegeliano, se si vuole, e meno kantiano in termini estetici) l’opposizione essenziale è quella tra scelta (libertà) e caso (indeterminazione). Da un canto, ciò che scopriamo grazie a questa immagine è evidentemente la memoria di un momento e il risultato di una composizione: è stato il fotografo-autore a scegliere l’ubicazione e l’angolo idoneo, è stato lui ad aspettare il momentum, ecc. D’altro canto, invece, ciò che scopriamo può essere interpretato come il frutto del caso, con l’io passivo che attende pazientemente finché il cielo “offra” questa precisa immagine, magari anche come una costellazione spazio-temporale infinitamente più incisiva di quanto l’immaginazione dell’autore abbia voluto concepire. Una immagine assoluta, per l’appunto.

Klute collega – qui e in altri casi, per esempio quando fotografa il famoso convento Sainte-Marie de la Tourette di Le Corbusier – la sua attività artistica e i risultati rispettivi alla sfera religiosa. La relazione: apparizione unica sul cielo vs identità seriale delle immagini del cielo, oppure il momento assoluto in cui la foto “si dà” vs le tirature potenzialmente infinite, rimanda a quel canto gregoriano ripetuto giorno per giorno (anzi, come Offizium sette volte al giorno) dai monaci che, attraverso la reiterazione seriale intendono ogni volta attingere all’assoluto. Per noi, il momento che ha generato l’immagine “assoluta” è presente e assente al tempo stesso, poiché la fonte originale, come le stelle di cui percepiamo la luce, è scomparsa per sempre. Soltanto un Dio al di sopra di ogni logica temporale potrebbe accedere al passato e richiamare ciò che stava alla base di tutti i fenomeni (come l’informatico che ritrova i file nella Time Machine).

In questo caso l’analogia (o la vicinanza) con alcuni aspetti essenziali della religione non va però pensata come una forma di “esercizio spirituale” travestito artisticamente. Il fatto stesso che, mentre i frati cantano, l’artista stia fuori dalla chiesa (appunto per fotografare il cielo) è significativo. Klute, che è un po’ il Robert Walser di quella scuola di Düsseldorf, dalla quale siamo stati inondati di opere di grande formato che mostrano quasi sempre troppo, inquadra il cielo come il celebre monaco di Friedrich che non sente più la presenza di Dio nella chiesa e neanche negli spazi ristretti della vita terrena organizzata. È soltanto accanto, in luoghi fuori dal comune che, paradossalmente, qualcosa di poco identificabile ma di epifanico si manifesta, qualcosa che nella sua apparizione sorprendente di segno misterioso oscilla fra gioia e apocalisse, bellezza e violenza. 

Ma forse tutto è più semplice, e “Offizium” non è altro che una bellissima fotografia.

In copertina, OFFIZIUM - Abtei Mariawald Non - Heimbach 2000 - 30x28.

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