L’albero in movimento

14 Settembre 2023

L’albero è diventato di recente una delle metonimie della natura più popolari; numerosissimi quelli abbracciati, accarezzati o semplicemente venerati dagli ‘amici del verde’. Mentre la celebre immagine bucolica della prima egloga virgiliana (“Titiro, tu sdraiato sotto un ampio faggio…”) esaltava la funzione protettrice dell’albero, oggi è sufficiente essere nelle vicinanze di una pianta maestosa perché il cuore batta più velocemente... 

La fortuna moderna dell’albero inizia con l’opera del pittore paesaggista più influente della storia. Claude, ovvero Claude Gellée, detto anche ‘Le Lorrain’, ha sostituito in modo programmatico gli umani e le loro vicende con degli alberi imponenti. Invece di raccontare le avventure di personaggi biblici o mitologici, le composizioni dell’artista di adozione romana annullano la narrazione e attirano il nostro sguardo sulle gesta degli immensi testimoni vegetali. Nei dipinti di Lorrain gli alberi appaiono come singoli individui, oppure in piccolissimi gruppi, come se stessero conversando. Spesso li incontriamo pure confusi in un ‘abbraccio’ intimo o ai margini della composizione a mo’ di cornice vivente (repoussoir). Mentre i vari Mosè, Orfeo, Apollo, e i pastori con le loro greggi appaiono interscambiabili e decorativi, gli alberi occupano la scena e sembrano intimare: “Ammirami!” 

Nelle tele artificiose di Claude (si tratta sempre di un complesso collage composto nello studio dell’artista e mai della rappresentazione di un ritaglio di natura reale) la Natura tutta viene riconosciuta come modello e protagonista assoluto. L’apparizione degli alberi-glamour in Lorrain non deve farci dimenticare che nei suoi quadri, come in ogni dipinto, non esistono in verità né alberi, né prati, né pastori: il quadro, uno strato di pigmenti disposto ad arte su un supporto, crea l’illusione di oggetti identificabili, e ci confronta in questo modo con dei segni riconoscibili, fra i quali, appunto, le piante. Con Claude e alcuni dei suoi colleghi (Poussin, Domenichino, ecc.) il segno albero diventa ‘mobile’, cioè conosce una trasformazione semiologica con ripercussioni molto concrete. In effetti, l’estetica del pittoresco, che culminerà nei cosiddetti giardini anglo-cinesi o paesaggistici, si basava in primo luogo sulla disposizione topica degli alberi. La visione di Lorrain, ossia la natura ideale da lui inventata, fu trasposta sul terreno all’inizio del Settecento. In seguito, il segno pittorico albero (o il segno gruppo di alberi, boschetto) fu ricomposto in situ da giardinieri e architetti del paesaggio. Camminare in un giardino in voga implicava la possibilità di riconoscere negli scenari creati ad arte – scenari con alberi, si intende – il modello pittorico prestato dall’arte alla natura. 

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View of La Crescenza, Claude Lorrain (Claude Gellée), 1648–50.

Un artista contemporaneo di Claude, Jacob van Ruisdael, contribuì anch’egli all’estetica di una natura all’insegna dell’albero. Soltanto che nei suoi dipinti il vero protagonista non è più l’albero sano e rigoglioso, bensì l’albero-rovina, cioè il tronco d’albero oppure l’albero caduto. Nelle sue opere malinconiche, il tronco rappresenta spesso un centro vuoto, o meglio, il centro viene occupato dalla presenza di un elemento che fu un albero. Il solo tronco è ancora albero ma non lo è già più. Ricorda il trascorrere del tempo e una forma di dissoluzione, che incide, malgrado l’eterna forza rigeneratrice, sulla Natura stessa. Il motivo vigoroso e altero delle magnifiche fantasie diurne di Lorrain si trasforma in questo modo in un segno cupo e amputato. Tale apparizione paradossale, che attrae l’attenzione grazie a una ubicazione teatrale e simbolica – l’albero mutilato appare da subito come un fenomeno antropizzato, il cui aspetto decadente ricorda il deperimento dell’essere umano – avrà grande fortuna, per esempio in un pittore romantico come Caspar David Friedrich. 

Ancora più pertinente per gli scopi della nostra breve indagine è l’albero raffigurato in un importante quadro di Thomas Cole. Home in the woods (1847) mostra infatti una scena apparentemente pacifica e idilliaca. A ben leggere la composizione, l’elemento principale è anche qui – come da Claude – il significante ‘albero’ declinato in vari modi. Sullo sfondo a destra una foresta di vegetazione mista crea un locus amoenus protettivo tipicamente nord-americano. Grandi pini pieni di vitalità si ergono verso il cielo quale espressione di una Natura ancora – per poco? – primigenia. Al disordine naturale della wilderness Cole oppone una forma di caos più problematica causata dall’attività dell’uomo. Per garantire la sopravvivenza di quest’ultimo, la Natura ha dovuto essere cannibalizzata e il prezzo dell’intervento è visibile in primissimo piano laddove un insieme di tronchi d’albero disegna uno strano arabesco. I tronchi sono nello stesso tempo uno scarto e un residuo di curiosa bellezza. Mentre i solenni alberi dello sfondo restano leggibili (nella loro verticalità), questo ammasso ligneo (ridotto a una orizzontalità funerea) è, nel suo disordine, di difficile lettura. L’albero, la materia costruttiva per eccellenza – che ha reso possibile la creazione del blockhouse e quindi la conservazione della vita in un ambiente ostile –, è diventato un segno ambiguo quanto l’occupazione del territorio selvaggio da parte dei coloni. Dietro la capanna l’albero riappare per un’ultima volta, e funge da protagonista negativo in una sorta di cimitero vegetale composto da tanti tronchi sparsi. L’idillio insomma nasconde di fatto una decapitazione.

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Opera di Jacob van Ruisdael.

Da un lato, la pittura paesaggistica predilige un segno albero simbolo di eleganza, di esuberanza, di totalità, e di natura come fonte di vita, dall’altro impone un segno albero simbolo di decadenza, di malinconia e di involuzione. Nel primo caso, esso trionfa in un tripudio di verticalità mentre, nel secondo, allude a un’orizzontalità infelice. Il segno ‘negativo’ comporta inoltre l’accanimento contro l’oggetto naturale. Nel dipinto di Cole i tronchi in primo piano, benché formino un bizzarro insieme serpentinato, paiono abbandonati ed esposti a uno stato di negligenza estrema. 

In un contesto completamente diverso anche il Bernini di Apollo e Dafne riflette sulla relazione uomo-albero partendo per ovvii motivi dalla violenza. Il celebre mito termina, come ben sappiamo, con l’idea che l’albero – l’alloro-laurus-Dafne – sia ‘abitato’ da Febo. La “concrescenza”, per dirla con Ernst Cassirer, fa sì che nel simbolo vegetale convivano le energie sacre che caratterizzano il dio stesso. Il punto di partenza è però un altro poiché, in una situazione che oggi attirerebbe i nostri strali, il ratto quasi portato a termine da Apollo parla della distanza massima tra preda e predatore, tra uomo e donna-albero in nuce. La metamorfosi abilmente materializzata dal Bernini evoca uno stadio intermedio, dove Dafne è insieme una persona e un albero. Certo, una volta accettata l’idea che l’alloro sia “l’albero preferito di Apollo” esso può fungere addirittura da segno indicale (perché abitato da ciò che esprime) del dio di Delfi o del suo tempio (composto interamente da allori). Affermare quindi nel contesto di una mitologia degli alberi che l’alloro è un “albero sacro” – un fenomeno che ha avuto conseguenze visibili sull’arte dei giardini in Europa (piantare allori equivaleva a creare un’atmosfera apollinea) – significa basarsi sempre sulla fine del mito (con Dafne che “sola al bel soggiorno/ verdeggia”, per dirla con il Canzoniere) e occultare la sequenza iniziale traumatica dolorosamente presente nel destino della driade. 

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Cole Thomas, Home in the Woods, 1847.

Ritroviamo, facendo un grande salto nel tempo, il segno albero nell’opera di Robert Smithson. Va sottolineata in questo caso l’iterazione seriale dell’oggetto. La prima installazione, Dead Tree, sarà realizzata nel 1969 a Düsseldorf, in seguito, con variazioni a Brooklyn, Stoccarda, Oslo e Venezia. La seconda, Upside Down Tree, sarà esposta in tre luoghi distinti (New York State; Captiva Island, Florida; Yucatan, Mexico). Smithson si è occupato in gran parte delle sue opere di ciò che Paolo Fedeli ha chiamato la “natura violata”, cioè pesantemente modificata dall’uomo. L’albero steso in un generoso spazio espositivo e presentato in un ambiente asettico è un ‘cadavere’ della natura. Malgrado l’aspetto intatto, l’albero sradicato dalla terra – Smithson e i suoi colleghi parlavano sempre di “Earth Art”, e non di “Land Art” – è da subito riconoscibile come qualcosa di inutile e di disturbante. È testimone, in questo milieu urbano, di uno spostamento (“displacement” è una parola-chiave dell’artista). Qui, all’interno dello spazio astratto museale, l’albero è diventato un segno puro isolato dalla vita. Esibito in tal modo è nel contempo naturale e del tutto innaturale. Dell’albero ‘originale’ di Düsseldorf sopravvive soltanto una fotografia: ciò indica sia la scomparsa dell’oggetto albero (gli alberi, come la natura tutta, sono vittime della brutalità umana), sia l’opportunità di rimetterlo in scena. Upside Down Tree rappresenta per certi versi un tentativo speculare, visto che in questo caso l’albero sradicato è reintegrato nella terra-madre con una rotazione a 180° che sta per una inversione radicale: l’unica funzione dell’albero morto – si tratta di nuovo di un segno puro – è di indicare. Indicare l’intervento artistico (una specie di grande readymade), indicare il capovolgimento (e con ciò il prospettivismo di ogni operazione semiologica), indicare le radici visibili nella loro inutilità. Indice della natura non più funzionante, l’Upside Down Tree espone i lati problematici della nostra relazione con la natura.

L’ultimo ‘viaggio’ del segno albero presentato in questo nostro breve percorso riguarda il movimento spazio-temporale di alcuni alberi specifici. Iniziamo con una serie insolita di fotografie di Aleksandr Rodčenko. Durante una sosta nella datcha del poeta Majakovskij, Rodčenko fotografò alcuni pini in una prospettiva ‘di sotto in su’. L’artista li aveva immortalati nel bel mezzo di una natura priva di senso (il marxismo militante di quegli anni è vicino a Hegel che, confrontato alla natura selvaggia, ne aveva decretato la totale insignificanza). La pubblicazione delle immagini sulla rivista Novy Lef, nel 1927, diede luogo a un dibattito infuocato. Rodčenko, cui venne rimproverato di essere ricaduto nel formalismo borghese, si difese identificando questi pini sorpresi nella loro postura sorprendente come degli oggetti che ricordavano la bellezza e l’utilità dei piloni elettrici. Per il marxismo il segno albero risultava superato, espressione di revisionismo estetico. Per Rodčenko invece, l’inconsueta prospettiva bastava per trasformare il segno in qualcosa di diverso, e forse addirittura in un simbolo di progresso. 

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Aleksandr Rodchenko. Pine Trees, Pushkino. 1927.

Divenuto tabù perché considerato antirivoluzionario, il gruppo di pini di Rodčenko riappare comunque quasi identico in un film documentario di Dziga Vertov del 1934: Tre canzoni per Lenin. La ripresa degli alberi nella prospettiva di Rodčenko rappresenta una provocazione contro l’ortodossia ideologica. Nel film, la rapida ma intensa focalizzazione sulla natura come valore centrale parte proprio da un gruppo di alti alberi sorpresi nella ormai consolidata visione di sotto in su. La sequenza prosegue con la sontuosa datcha neoclassica avvolta da un bosco intriso di luce – siamo a Gorki, l’ultima dimora di Lenin –, un lago pittoresco, il parco-foresta, una foto con Lenin seduto sulla panchina favorita, uno squarcio di fogliame, la panchina vuota e, di nuovo, l’iconico gruppo di alberi mossi dal vento. L’insieme degli elementi naturali, ma anche la semplice panchina in legno (metonimia dell’uso rispettoso della natura) e gli alberi in quanto tetto protettivo danno l’idea di una natura partecipe, coinvolta attivamente nelle vicende umane. L’impatto del vento sugli alberi dinamizza il segno e lo rende polisemico: gli alberi girano, fanno girare la testa, e sembrano indicare il movimento della Storia stessa nel periodo decisivo che porta dal comunismo paternalistico di Lenin al terrore comunista di Stalin. La sequenza introduttiva è talmente veloce che non abbiamo il tempo di chiederci se la dinamica degli alberi sia da leggere come l’inizio di un movimento spiralico, cioè se la storia si muova in senso orario o antiorario, in modo entropico o ‘progressista’. Gli alberi sono qui palesemente simbolici, sia in senso politico (cosa riserverà il futuro?) sia in senso esistenziale (morto Lenin, chi ci proteggerà? Avremo ancora un ‘tetto’?). 

Esattamente a metà di un film sovietico del 1957 ritroviamo il fotogramma degli alberi di Vertov. Infatti, in Quando volano le cicogne, il capolavoro (malgrado le implicazioni ideologiche) di Mikhail Kalatozov, Boris, un giovane studente di architettura, partito volontario al fronte e sacrificatosi per un altro soldato, è ferito mortalmente. La scena ha luogo in un sottobosco fangoso, dove l’elemento dominante sono le betulle. Boris, che trasporta il compagno ferito, si rifugia su una specie di isolotto, che avrebbe potuto essere la sua isola salvatrice. Colpito a sua volta, abbraccia un albero e inizia un movimento rotatorio che coincide con la sua agonia. La cupola degli alberi sullo sfondo assiste con somma indifferenza: il momento di massima vicinanza con l’albero (l’abbraccio finale) è anche il momento di massima separazione fra uomo e natura. È proprio durante la discesa spiralica del soggetto morente che ritroviamo l’immagine chiave degli alberi nella prospettiva accelerata di sotto in su. La promessa di elevazione o di salvezza si muta nel suo contrario – questa volta gli alberi ruotano in modo evidente ‘a sinistra’, cioè in senso entropico – e tutto si confonde per un momento con i progetti di felicità e di vita del periodo prebellico. Il vortice finale, in un crescendo di accelerazione, giunge a distruggere il segno albero (dissolto in un arabesco astratto, illeggibile) seguito dalla caduta del corpo inerme di Boris.

La ricomparsa finale (o provvisoria?) del segno albero di impronta rodčenkiana avviene nel primo film di Andrei Tarkovski, L’infanzia di Ivan. L’incipit è all’insegna dell’idillio: luce, energia primaverile, natura rigogliosa, bellezza del creato, movimento ascensionale – tutto sembra portare verso l’alto, una direzione creata ad arte da un lungo travelling verticale che segue la linea graziosa di una giovane conifera. L’albero flessuoso corrisponde al soldato adolescente (di soli 12 anni) e alla giovinezza del mondo. Ivan guarda il pino (o forse il pino ‘guarda’ Ivan) e prosegue – questa volta in senso orizzontale – la traversata di un sito naturale in parte boschivo dove svolazzano delle farfalle. Lo spostamento in senso opposto, dall’alto in basso, ci riporta però a terra e, di nuovo, in un misero bosco di betulle che non offre riparo. Il passaggio dal pino alla betulla, dall’alto in basso, dall’epifania della Natura a luoghi esposti alla violenza estrema culmina nel momento in cui la madre del giovane (non sappiamo ancora che stiamo assistendo a un incubo) è colpita a morte come il soldato Boris in Kalatozov. Nell’intero film, il bosco serve da leitmotiv. Soltanto che la bella forma dell’albero al singolare è rimpiazzata dal plurale: il luogo simbolico della guerra è un sottobosco fangoso e una sinistra foresta di betulle. Quest’ultima servirà da scenario per un travelling in soggettiva volto a esprimere il fatto che, anche in un ambiente potenzialmente protettivo, l’essere umano rimane esposto al pericolo. Un illusorio idillio, cioè l’avvicinamento amoroso tra i due giovani protagonisti del film, sempre nella foresta di betulle (con alberi che, nella loro ripetitività, ricordano i soldati), vede la ragazza, Mascia, camminare su un tronco abbattuto. Nella scena susseguente, terribile e indimenticabile, un abbraccio tra i due, sempre all’insegna di un riparo falsamente garantito dalla corona degli alberi, ha luogo in una trincea che sa già di tomba. 

La Pathosformel dell’albero porta quindi da una verticale, tutelare e rigogliosa, a una orizzontale, inerme e mortifera. Mentre la verticalità dell’albero – anche in quanto slancio, desiderio, trascendenza – rammenta l’homo erectus, l’uomo capace di progettare e creare, l’orizzontalità dell’albero falciato anticipa le innumerevoli vittime della guerra. 

L’albero ‘morto’ di Robert Smithson ci appare in questa luce come la metafora totale di una prospettiva dove piante ed esseri umani sono destinati inesorabilmente a cadere. Neppure un’opera in apparenza più serena (e mai realizzata da Smithson stesso) come Floating Island, con una chiatta che avrebbe dovuto trasportare nella baia di Manhattan degli alberi vivi e mantenuti nella loro verticalità, permette di cancellare la negatività di un segno che ha iniziato la sua carriera semiologica all’insegna della felicità bucolica. 

Ora che gli alberi non possono più proteggerci, spetta a noi salvarli. 

In copertina, L'infanzia di Ivan, 1962, Andrej Tarkovskij, Nikolaj Burljaev Valentin Zubkov. 

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