Topolinologia
La diciassettesima favola del VII libro delle Fables di La Fontaine, Un animale nella luna, tratta di credulità, superstizione, nonché della solidità degli argomenti filosofici basati sul “nuovo” accesso empirico alla realtà. Influenzato dal poema satirico L’elefante sulla luna, in cui Samuel Butler prendeva in giro la celebre Royal Society, La Fontaine discute la massima: “Les sens ne tromperont personne” confrontando posizioni empiristiche e razionali. Sulla luna, oggetto scientifico e epistemologico di prim’ordine dai tempi di Galilei, dove le ombre e la luce fanno spesso vedere “un homme, un bœuf, un éléphant”, appare ad un tratto qualcosa di talmente straordinario da fare accorrere addirittura il Sovrano. Purtroppo tutto è un grande inganno: mentre la singolare apparizione viene contemplata dal Re, essa si rivela semplicemente un topolino intrappolato fra le lenti dello strumento all’origine della mostruosa proiezione lunare: “C’était une souris cachée entre les verres:/ Dans la lunette était la source de ces guerres.”
Il confronto tra verità degli occhi e verità dello spirito riguarda la potenza e i limiti delle nuove forme di percezione rese possibili grazie alle tecnologie dello sguardo in auge e, in primis, grazie al telescopio. Ciò che si intravede mediante quest’oggetto-chiave dell’epoca non è la verità, ma un costrutto, ovvero, è la forza di una narrazione che impone come autentiche delle immagini generate dal cannocchiale. Con il minuscolo animale intrappolato fra le lenti, La Fontaine mette in luce il campo o intervallo che esiste fra l’io (l’osservatore) e l’oggetto osservato (il mondo). Questo “fra”, di solito negletto, permette alla lettura satirico-critica di concentrarsi proprio sulla mediazione fondante. Anzi, il nuovo “vedere” e le sue ambiguità, offrono la possibilità di indagare il vedere in generale. Il “fra”, l’intervallo essenziale occupato dal topolino, è dovuto all’uso dello strumento scientifico, ma è presente in modo esponenziale anche nell’immagine (altra dal referente), nelle stampe (che illustrano i risultati delle conquiste scopiche) e nella narrazione.
Questa favola della seconda metà del Seicento che ha come protagonista involontario un topo mostra, in parte pure grazie al simpatico intruso miracolosamente amplificato e proiettato sulla luna in modo tele-visivo, una serie di problemi di perenne interesse filosofico come la questione dell’antropomorfismo della visione umana del reale, lo status della Natura percepita dall’io, cioè il legame tra conoscenze basate sulla percezione e l’alterità della sfera del non-io, fino al celebre Ding an sich kantiano. Nella settantina di versi di La Fontaine si passa però anche per antifrasi e via una metamorfosi intertestuale dal gigantesco elefante Butleriano al topo e si parla (non a caso) di guerra e pace, cioè della situazione politica dell’epoca.
Mickey Mouse, il topo più famoso del mondo, è “nato” nel 1928 in un momento di crisi nella carriera di Walt Disney. Recatosi a New York per discutere con la Universal, Disney scopre che il “suo” Oswald the Lucky Rabbit appartiene ormai a quest’ultima. Scippato del “suo” coniglio e di gran parte dei suoi collaboratori e rifiutando per ovvie ragioni un contratto di collaborazione umiliante, Walt prende il treno per ritornare a Los Angeles. Durante il lungo viaggio, il fischiettio della locomotiva evoca lo squittio dei topi, ed ecco Mickey prendere forma. Oppure, secondo una versione leggermente diversa, seduto su una panchina newyorkese e contemplando l’assenza di prospettive future, un simpatico topo gli si avvicina, i due fanno amicizia, e l’idea di questo incontro provvidenziale si cristallizza durante il mitico viaggio verso la West Coast, ed ecco di nuovo Mickey! Mentre una terza versione racconta che, già in Kansas, nel Laugh-O-Gram-Studio, Disney simpatizzò addirittura con due topi, tutte le storielle portano a Los Angeles, dove Walt presenta l’invenzione provvidenziale del novello “Mortimer Mouse” alla moglie Lilian. Quest’ultima, insoddisfatta dalla connotazione troppo dandy di “Mortimer”, inventa il vero nome, “Mickey Mouse”, ed ecco l’inizio di una carriera che avrà il suo debutto ufficiale il 18 novembre 1928 al Colony Theatre di New York con la proiezione del corto Steamboat Willie.
Con Mickey nasce sin dall’inizio anche l’omonimo mito. La mitologia moderna di questo personaggio è particolarmente complessa. Vi sono, da un lato, i miti (letteralmente “storie”) inventati, o diciamola con Lévi-Strauss, bricolés, assemblati da Disney & Co.: il leggendario viaggio solitario in treno, gli “incontri” con i vari topi sulla panchina o in Kansas, ecc. Tutti questi “ricordi” collegano i due partner, Walt e il topo, nell’intimità di luoghi o situazioni peculiari. A questo intertesto tessuto ad arte si aggiunge, da un altro lato, il mito, sempre più stratificato, legato alla ricezione del personaggio, la storia individuale che rammenta a un’infinità di persone il loro primo “incontro” con Mickey Mouse, oppure con il successo della figura animata negli anni 1928-1931.
Il fatto di lasciar circolare svariate versioni sull’origine di Mickey Mouse nasconde comunque un dato importante, cioè il problema delle sue origini. Conosciamo da tempo il ruolo essenziale del più geniale partner di Walt, Ub Iwerks, nella creazione dell’animazione di Mickey. Iwerks tradusse (con grande probabilità) un rudimentale schizzo di Disney in un personaggio cinematografico vivo. Sappiamo pure che esiste tutta una famiglia di topi con una lunga carriera nel mondo dei cartoons, per esempio Ignatz Mouse (nella serie del 1913 Krazy Cat di George Herriman), oppure Milton Mouse (vedi già l’energia allitterativa in atto), il carattere inventato da Paul Terry nel 1922 e presentato in una serie di cartoni animati (Aesop’s Movie Fables) durante tutti gli anni ’20, e anche il topo come antagonista principale di Felix the Cat (sempre dal 1922 in poi). Walt Disney stesso ha ammesso che il “suo” Mickey rappresenta un Coniglio Oswald “topificato” (mouseified), un passo attraverso il quale egli intendeva riprendersi il corpo della sua creatura cinicamente “rubata” dalla Universal.
Uno degli antecedenti più eclatanti del topo disneyano è “Micky”, un topo-giocattolo brevettato e fabbricato dal 1926 dalla Performo Toy Company a Middletown, in Pennsylvania. Poiché il più importante distributore della Performo risiedeva a New York e nel 1928, quando Disney compie il suo viaggio-chiave a New York, la città era piena di bancarelle che vendevano il popolare “Micky Mouse”, il significante “MM” possedeva addirittura un referente reale nella sembianza di un topo di legno bianco e nero gradito al grande pubblico (vedi Craig L. Andrews, A Man’s Dream, A Company’s Mystery, 2002)
Tutto ciò conduce a due prime conclusioni. Innanzitutto, per ciò che riguarda la figura di Mickey Mouse, non esiste un originale nel senso di un’idea o schizzo incipitari. Mickey è piuttosto un segno del tempo, l’espressione simbolica della cultura di un’epoca. Sin dall’inizio, questo segno è per così dire stracarico, e capace di assorbire idee, tendenze, allusioni, frammenti di narrazioni, ecc. Non esiste quindi una paternità nel senso classico e, certo, non quella attribuibile a Walt Disney. Per tutte queste ragioni il segno cresciuto col tempo (sappiamo bene che la figura di Mickey stesso evolve, gli occhi da grandi che erano diventano più piccoli, ecc.) sorprende rivelando aspetti finora negletti. Vi è, in altri termini – come ha dimostrato il caso del Micky della Performo – sempre dell’altro.
È risaputo che Walter Benjamin non si limita a menzionare Mickey Mouse nella prima edizione dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: la figura da lui ammirata appare anche in una nota che riassume il senso di una discussione con gli amici Kurt Weill e Gustav Glück. Una prima osservazione riguarda il concetto di proprietà (“Eigentumsverhältnisse”) e il fatto che grazie ai cortometraggi di Disney ci si renda conto che “il tuo stesso braccio, persino il tuo stesso corpo, possono essere rubati” (è possibile che il proprio braccio o addirittura il proprio corpo vengano sottratti). Benjamin vede nel Mickey dell’epoca pionieristica 1928-1935 (quella del topo in bianco e nero) l’espressione di una corporeità minacciata che caratterizzava la prima guerra mondiale, ma pure la tecnicizzazione di tutto ciò che è vivente. Difatti, nei cartoons di Mickey gli oggetti meccanici diventano animati, se vogliamo “vivi”, mentre i corpi e le loro membra si metamorfizzano in elementi simil-tecnici. Benjamin osserva con grande acuità che nell’universo di Topolino la sfera tecnica – rappresentata da telefoni, macchine, motori, aerei, armi – è onnipresente. Una seconda osservazione-chiave parla del fatto che con questi brevi filmati “l’umanità si prepara a sopravvivere alla civiltà”. Il nemico è la civiltà umanistica con i suoi valori sballati, alla quale occorre contrapporre una nuova forma, positiva, di barbarie. Adolf Loos, Paul Klee, Karl Kraus, ma anche Mickey Mouse sono, secondo Benjamin, l’espressione di questa nuova tendenza che permetterebbe di smascherare quanto di marcio esiste nella civiltà. Focalizzandosi soprattutto sull’immagine del Topolino impertinente, birichino, “trickster” ribelle, il filosofo berlinese vede riaffiorare nel protagonista disneyano sempre in movimento e concettualmente difficile da fissare in modo univoco una naturalezza (Kreatürlichkeit) anarchica e salvatrice. In modo fiabesco e umoristico, i cortometraggi di Mickey espongono i problemi del relazionarsi con la tecnica ubiqua e stimolano la riflessione.
Specie il già menzionato Steamboat Willie (stimato pure da Frank Capra o Sergej Eisenštejn), il debutto di Mickey in una New York riconquistata da Disney e uno dei primi cartoons della storia con accompagnamento sonoro, può spiegare ancora oggi il fascino esercitato dal piccolo topolino. A un certo momento il topo allegro si sposta all’interno del battello a vapore e inizia, utilizzando a caso gli oggetti sparsi della cucina, pentole e animali, un formidabile concerto musicale che anticipa le magie sonore di una performance di John Cage. Nella sequenza anarchica di quasi due minuti si assiste al gioco autonomo del segno Mickey diventato pura immagine e puro suono, un segno liberato da ogni “compito” narrativo, morale o politico. Questa stessa scena, è già stata evocata nella recensione di Francesco Mangiapane all’edizione aggiornata dell’impressionante studio di Mariuccia Ciotta Walt Disney. Prima stella a sinistra. Tenendo conto dell’intuizione benjaminiana in opposizione alla prospettiva critica di Adorno/ Horkheimer che vedono nell’universo Disney soltanto alienazione e negatività (Disney rappresenta per loro la Kulturindustrie in generale), e allargando l’analisi (analizzando con attenzione il caso Eisenštejn), lo studio di Ciotta si apre man mano, presentando un’interpretazione globale dell’universo Disney.
La nostra indagine vuole restare comunque più puntuale concentrandosi “soltanto” sul fenomeno Mickey Mouse. Ricordiamo, prima di passare a un altro aspetto “topologico”, il fatto – osservato sovente – dell’apparizione dei guanti bianchi in Barn Dance, sempre nel 1928. Walt Disney ha sottolineato di non volere che la sua creatura avesse zampe di topo, voleva fosse più “umana”, ma un topo-umano nemmeno troppo perfetto, per cui lo dota di sole quattro dita. Gli addetti del settore indicano invece il risparmio notevole nel disegnare soltanto guanti e non delle dita in centinaia di pagine che si susseguono. Il guanto esprime però una manipolazione nel contempo visibile e invisibile.
Pensiamo anche a The Mad Doctor, del 1933, il cinquantaduesimo corto della Disney nel quale il Dr XXX, uno scienziato matto, ruba Pluto, il cane di Mickey. Il progetto di montare la testa di Pluto sul corpo di una gallina (per vedere se le uova assumano una sembianza canina) è impedito da Topolino, che finisce a sua volta nella sala operatoria del medico impazzito. Benché tutto si dissolva alla fine (si trattava soltanto di un terribile incubo), con questa atmosfera cupa della sperimentazione eugenica il mondo del laboratorio entra prepotentemente nell’universo Disney.
Torniamo allora al punto di partenza. Mickey Mouse nasce a metà 1928, l’annus horribilis di Walt, ma anche l’anno in cui a novembre il cartoon finalmente acclamato conquisterà il pubblico in modo definitivo. Sempre in quel periodo succede qualcosa di molto significativo. Dall’inizio del XX secolo fino al 1928 circa la ricerca biomedica internazionale usava topi cresciuti da collezionisti-dilettanti, mentre nel 1929 nascerà, nel Maine, il famoso Jackson Laboratory, o JAX, il “tempio” mondiale dei topi. Tutta la ricerca biomedica pionieristica utilizzava (e tuttora utilizza) topi: animali facili da gestire, con cicli di generazione rapidi e, soprattutto, essi condividono con noi umani ben il 99% del materiale genetico. Per questa ragione proprio il topo rivestirà il ruolo di organismo esemplare (model organism), una funzione primordiale che ha permesso i progressi della genetica, delle conoscenze del sistema immunitario, lo sviluppo di vaccini, le terapie genetiche più recenti, e così via.
La selezione dei topi aveva già un ruolo di rilievo nel Giappone del Settecento (con collezionisti alla ricerca di esemplari dotati di colori particolari: albino, cioccolato, nero, o champagne), una tradizione ripresa nell’Ottocento soprattutto nei paesi anglosassoni. I “mouse fanciers” anticipano anzi la moda degli animali domestici (dal 1895 esiste già, per esempio, un English National Mouse Club). Sin da quei tempi la scienza prese a utilizzare topi, al punto che il celebre abate Menzel (quello che studiavamo a scuola nei corsi di biologia) intendeva portare avanti i suoi esperimenti sui colori dominanti con topi, ciò che il suo vescovo impedì ritenendo immorale svolgere attività di ricerca con animali che facevano sesso nel laboratorio. In seguito, Lucien Cuénot in Francia, Wilhelm Johanssen in Danimarca, e soprattutto vari scienziati del Bussey Institute di Harvard, con in primis Clarence Cook Little, portarono avanti i loro studi genetici usando quasi esclusivamente topi. Per realizzare le loro indagini basate materialmente sui piccoli roditori, sia studiosi come Johanssen, sia allevatori come Abbie Lathrop nel Massachusetts, che copriva quasi tutto il fabbisogno di topi degli anni ’20, erano alla perenne ricerca delle migliori serie di topi geneticamente standardizzati. Il “modello” DBA, sviluppato da Johanssen, si basava sul topo “silver farm” della Lathrop, anticipando la creazione del ceppo C57/B6, chiamato anche “black 6”, che rappresenta fino ai nostri giorni la famiglia di topi di laboratorio più utilizzati al mondo.
Quando “nasce” il Mickey Mouse di Disney, alla fine degli anni 1920, lo sviluppo di topi di laboratorio è un affare di stato, che porterà alla creazione del già menzionato JAX, una fabbrica globale con topi prodotti in massa secondo principi rigidi di purezza genetica. È da qui che partivano in tutto il mondo gli esemplari chimicamente puri (un topo costava 10 cent più il trasporto, mentre la signora Lathrop spesso li regalava), che col tempo divennero un business miliardario. Con i topi di laboratorio nasce un universo chiuso, autoreferenziale, lontano dalla realtà fatta di cambiamenti perpetui, infezioni e miasmi. La ricerca resa possibile dai topi standardizzati e sviluppati appositamente per essere oggetti di esperimenti ha permesso lo straordinario sviluppo della medicina moderna. Noi (umani) ci conosciamo meglio e sappiamo guarirci come mai prima grazie ai topi. Il sodalizio uomo-topo, presente nei miti disneyani dove Walt “gioca” con gli animali trovandoli “cute” (graziosi) è, negli anni di nascita di Mickey Mouse, una realtà prima ancora di essere una finzione. Walt Disney assembla il suo Mickey lasciando lavorare gli specialisti come Iwerk, e proprio come gli scienziati, che progrediscono nel compito di creare ceppi sempre più puri, anche Disney costruisce il suo protagonista prendendo in prestito la selezione culturale sedimentata della storia recente e, sempre come loro, è alla continua ricerca del Topolino più puro o “classico”. Partendo da questa, che è più di un’analogia, sorgono svariati interrogativi (alcuni genialmente intuiti da Benjamin): che cos’è in verità un topo di laboratorio? Fa ancora parte della natura o si tratta di un organismo post-naturale? Siamo già completamente preda delle tecnologie, oppure in un campo intermedio dove la differenza è sottilissima tra natura e non-natura? E cos’è Mickey Mouse, se seguiamo la pista delle “vite parallele” del topolino disneyano e del topolino biomedico-industriale? Questo topo che per primo nella storia si mette, nel 1928, addirittura a parlare, “umanizzato” ma non troppo, è un ometto impertinente con una dose di animalità, insomma, è qualcosa di impossibile da stabilizzare: Mickey Mouse è un cluster sedimentato nei vari strati elencati (ripresa di modelli precedenti, accaparramento di forme e contenuti dell’epoca, identità iconica in movimento, ecc.) al quale si aggiunge lo strato evidenziato grazie al parallelo con i topi di laboratorio.
Tematizzando non soltanto per caso la fabbricazione della vita in laboratorio, il cinema di animazione, grande laboratorio dell’immaginario, si rivela essere la scena critica che riflette i problemi fondamentali dell’umanità.