13 giugno 1953 / Didi-Huberman. Canarini in miniera
Forse per una momentanea amnesia percettiva, convive con il nostro essere presente una sorta di cecità per il paesaggio, che ci impedisce di cogliere in anticipo i segni che preannunciano una catastrofe. Informatissimi, presi da una narrazione storica unicamente rivolta al passato, osserviamo il mondo a cose fatte e solo allora ne abbiamo notizia, sempre un attimo dopo, un po’ tardi per cambiare le cose. Eppure esistono organismi viventi in grado di preconizzare l’evento, sempre che si abbia l’accortezza di osservarli e di prenderne nota.
Per potere restare vigili sul presente e i suoi momenti singolari, occorrerebbe riconnetterli in un disegno unitario come accade nel montaggio cinematografico. Infatti, i fotogrammi, le scene, le riprese, le singole unità sono accostate le une accanto alle altre ma anche ricucite per ricreare un ordine che renda loro un senso e che in particolare nelle immagini in movimento somiglia al palpitare di un sofferto e concreto ragionamento poetico. Un ossimoro vivente.
Nel cinema, le immagini girate sopravvivono nel presente indicando costantemente un percorso che si sviluppa progressivamente verso un tempo futuro. La nozione del tempo lineare è segnata indelebilmente dall’anacronismo temporale determinato dell’azione della memoria. In ogni direzione si svolgono gli sviluppi imprevisti di un tempo che è materia plasticamente modellabile dentro le immagini in movimento.
Parla di tutto questo Sentire il grisou, un libro tratto da due conferenze tenute da Georges Didi- Huberman, filosofo francese, nonché storico dell’arte e teorico di figuratività e cultura visuale. I due interventi, innestati l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, riflettono sull’impossibilità di osservare la catastrofe sul nascere se si ricorre alla narrazione storiografica — che interviene solo post festum — imposta dal limite della registrazione dell’evento nel tentativo di ricostruirlo. Per svincolarsi da questo meccanismo e al venir meno della percezione della rovina che si avvicina, la cultura delle immagini e del gesto poetico ad essa connaturato è un possibile rimedio. Le immagini, portatrici sane di senso, inserite nel semplice circuito storiografico non sono più osservabili; se invece sono colte nel momento in cui fremono nel montaggio che crea tra loro una frizione esplosiva, esse, da frammenti parziali di un tutto mai rappresentabile, si fanno carico di indicarci, malgrado tutto, una bruciante soglia d’accesso alla totalità del reale e dei suoi tempi. Sono momenti rari e preziosi, come rare e preziose sono le immagini in grado di fare ciò.
Il grisou è un composto gassoso inodore che, saturando gli ambienti sotterranei della miniera di carbone, alla minima scintilla esprime tragicamente la sua vocazione all’esplosività. Era usanza antica, per i minatori, durante i turni di lavoro nei cunicoli sottoterra, munirsi di un pennuto in gabbia che arruffando le piume avrebbe potuto indicare loro in anticipo quella presenza insidiosa. Quel movimento palpitante era il sintomo della sciagura imminente e il mezzo per salvarsi. Solo grazie all’osservazione del fenomeno si poteva presentire o veder venire la catastrofe. Secondo Didi-Huberman, quel fremito pulsante appartiene anche alle immagini, che, specialmente nella luminosità del cinematografo, a saperle guardare bene, si manifestano come il sintomo di una reminiscenza, di un ricordo vago dal passato che si fa presente, dove esse si rivelano come un presentimento, una profezia inviata al futuro, come avrebbe detto Walter Benjamin.
Il ricorso all’immaginario è necessario ai processi conoscitivi. Infatti, per sapere occorre immaginare. La dualità dell’immagine, contesa tra una aderenza mimetica al reale e la tendenza a disvelare qualcosa che non è ancora visibile (come la catastrofe imminente) conduce a un punto sintomatico in cui l’immagine brucia, rivelando una verità che riduce in cenere ogni ricostruzione formale, che si disfa della verosimiglianza della mimesi per sempre. Nel suo punto di fusione estremo, l’immagine interpreta la tensione verso il reale. Il cinema incarna puntualmente sulla pellicola questa tensione.
Il montaggio cinematografico sfrutta questa conoscenza per contatto delle unità discrete dei fotogrammi ripresi dalla realtà — entità parziali e lacunose — che, agendo per accostamenti di elementi provenienti da situazioni differenti, consente almeno di pensare ad una totalità che rimane inosservata. Sentire il grisou vuol dire avere la capacità di accedere a una realtà che è preclusa all’ordinarietà della percezione, costantemente distratta dalla pretesa di controllare l’immanenza di un tutto che sfugge da ogni parte. Lo stesso autore afferma di non ricordare il disastro in miniera avvenuto nella sua città natale quando ancora vi abitava da ragazzo: non una svista, ma l’ammissione di una mancanza.
Allo stesso modo Pier Paolo Pasolini — autore cui è dedicata buona parte del libro — afferma, in un famoso articolo del 1975, che le lucciole sono scomparse. In realtà, né la catastrofe avvenuta in miniera né le lucciole sono scomparse per il semplice fatto di non essere state viste a causa dell’inevitabile disfatta percettiva. Come le immagini, esse sopravvivono nel montaggio della memoria nel primo caso e nel montaggio cinematografico nel secondo. Le immagini sono capaci di indicarci quell’elemento fuggevole perché sono la lieve increspatura che emerge da una superficie piana opportunamente sollecitata, proprio come si arruffano le piume del canarino nei meandri reconditi della miniera un attimo prima del manifestarsi dell’evento (nefasto in questo caso o poetico che sia, nell’altro). Quel fremere è indice della sopravvivenza di una percezione che supera la linearità piana della ricostruzione storiografica classica. Le immagini, come il sintomo di una capacità di sopravvivere nonostante tutto, liberano lo sguardo senza doverlo per forza catturare. Il loro tempo storico non smette mai di aspettare la nostra attualità per farsi conoscere e forse consentirci di cambiare in meglio. Forme antiche, oltre il proprio vissuto, si riappropriano del presente, riappaiono inaspettatamente, sono sempre in agguato per l’ora della conoscibilità.
Se la catastrofe non può essere avvertita sul nascere, se il vederla venire è difficile, almeno, sostiene Didi-Huberman, possiamo aspettarci che il pensiero, la storia e forse anche l’attività artistica ci rendano vigili alle catastrofi che si annunciano. Sulla scia di Benjamin, occorre pensare alla storia come un “segnalatore di incendi”, per cui un passato mai totalmente conoscibile si presenta in un’immagine dell’istante del pericolo, in modo tale da fare luce sulla situazione presente. Le immagini si caricano di tempo fino a esplodere, come se, nelle gallerie minerarie della verità storica, il tempo fosse un gas grisou che avremmo ogni volta il compito di sentire, vedere o prevedere, per saperne riconoscere o anticipare la forza catastrofica.
Si tratta di collegare tra loro i frammenti di una storia, di operare una rammemorazione affine al montaggio. Per poter leggere qualcosa occorre, in fondo, rimontare il tempo. L’azione del montaggio è una continua riconfigurazione che fonda dal passato l’attenzione al presente, liberando segnali per il futuro. Le immagini filmate rimontano il tempo non senza la fragile bellezza dei gesti umani, efficaci e potenti risposte alla sventura, come il suono della voce della cantaora andalusa Rojo Marquez che attraversa i cunicoli bui occupati dai minatori in lotta per il lavoro, nella provincia di León in Spagna, nel 2012. Rojo è giovanissima, sottolinea l’autore, come la Ninfa pagana che Warburg, secoli dopo, rivede nell’attualità cristiana del Ghirlandaio, così giovane perché si possa elevare con leggiadria dalla memoria antica, stratificata come le viscere della terra. L’immagine del presente si coniuga al passato attraverso il gesto del canto. Passato e presente accompagnano come un basso continuo la generazione futura.
Un contrappunto simile emerge ne La rabbia, montaggio poetico-documentaristico sul mondo contemporaneo realizzato nel 1962 da Pier Paolo Pasolini di cui Didi-Huberman fa una singolare lettura. Si tratta del montaggio di materiali documentaristici, foto da riviste, accompagnato da voci narranti fuori campo, attraverso cui si adombra, nello stato di “normalità” del secondo dopoguerra, l’avvento della nuova catastrofe contemporanea. La rabbia si connota di poesia, gesto intellettuale e furia filosofica. Una poesia che appare come un riscatto dai materiali già girati che Pasolini descrive come una visione tremenda. [...] Però in mezzo a tutta questa banalità e squallore, ogni tanto saltavano fuori immagini bellissime: il sorriso di uno sconosciuto, due occhi con una espressione di gioia e di dolore e delle interessanti sequenze piene di significato storico. Attraverso il montaggio il saggio documentaristico diventa un genere poetico che include rabbia e indignazione politica, una critica che si serve della metrica del poetare, che consente di riesumare una bellezza inaspettata che sopravvive oltre la morte. Così, nella lettura di Didi-Huberman, Pasolini scrutando il fremito delle immagini di attualità, è giunto ne La rabbia a sentire il grisou della storia. Non è forse l’immagine di Marylin Monroe, che appare nell’opera, a incarnare ancora una volta i panni leggeri della ninfa warburghiana nel duro contesto della Società dello spettacolo?
La figura danzante è quella dello stesso Pasolini che ritrova le sue amate lucciole confermando che fare del cinema è scrivere sulla carta che brucia.