Il caso Jenny Offil, Sembrava una felicità

19 Dicembre 2015

Alcuni libri, per motivi misteriosi, sembrano vivere una stagione di gloria, a dispetto della promozione, delle interviste televisive, dell’investimento dell’editore, della ricezione critica, del prestigio dell’autore. Uno di questi titoli è Sembrava una felicità, che in originale suona invece Dept. Of Speculation (Ufficio pensieri), dell’americana Jenny Offill. Un must per l'autunno come si sono affrettati a definire i rotocalchi femminili quasi fosse un piumino light.

 

Vero è che il suo libro è stato nominato nella top ten dei migliori libri usciti nel 2014 stilata dal “New York Times”, ma altrettanto vero è che in Italia della traduzione se ne è incaricata la NN Edizioni, raffinato editore milanese di dimensioni davvero piccole. Eppure, dopo qualche mese, il titolo non ha fatto che crescere, moltiplicando l’unanime giudizio positivo non solo via etere. “Intimo, coinvolgente, prezioso, per lettori notturni” questi i commenti che facendo il giro tra i blog e la carta emergono con maggiore ricorsività. Dal wow dell'anonimo lettore su Anobii alla professionale recensione del blog “Holden and Company”, fino ai più casalinghi blog di consigli di lettura come “La lettrice rampante”, “Solo libri belli”, per imbattersi nei superlativi di “La via dei serpenti” o de “Il tegamino”, Sembrava una felicità ha conquistato davvero tutti, proprio tutti. E fin qui non ci sarebbe nulla di strano, a volte capita che un libro di mano in mano faccia il suo corso senza avere bisogno di motori aggiunti. Più strano, invece, che proprio questo qui abbia sfondato, sia andato oltre la cortina dei lettori forti e attrezzati per raggiungere i club di lettura, soprattutto femminili, che imperversano nel nostro paese con nomi come le “Librelle” e simili. Perché si tratta di un libro coltissimo che gioca volutamente con un sottotesto costruito di citazioni sotterranee neanche tanto scontate, Yeats, Rilke, Wittgenstein (gli ultimi due espressamente nominati) mescolati con Grace Paley e Robert Walser passati al vaglio dell'unico libro scritto da Joe Brainard I remember che fu il riferimento primo di Georges Perec per il suo Je me souviens.

Insomma mica tanto facile seguire lo stream of consciousness che scava tra le sue preferenze librarie montandoci sopra malinconie, dolori, ambiguità. Certo la copertina sembra evocare altre sponde, richiama una storia d'amore sfocata dagli anni, come il titolo dagli echi da romanzo rosa. E invece il lettore non sa che cosa lo aspetta: questa è la storia di una donna in bilico tra il sacrificio imposto dall'amore per un uomo e la proiezione che aveva di se stessa. Ambizione repressa, aspettative mancate, creatività soffocata per trovare un equilibrio nel diventare moglie e madre. Madre atipica, insegnante spaventata dai suoi stessi allievi che non riesce a decifrare e moglie difficile, la donna di Jenny Offill è molto più vicina a un personaggio di David Foster Wallace (una depressa colpita da ogni più minuto dettaglio) che alla eroina di Eat pray and Love. Anzi lo yoga è per lei l'ultima spiaggia, come la fuga da casa per nascondersi in un Holiday Inn. Qui c'è tanta America vissuta, tante abitudini cristallizzate, e una sottile paura di non sapere contenere il proprio malessere.

 

Un libro che fa brillare ricordi e attese, stracolmo di immagini poetiche come l'involucro dei ricci che si attaccano ai cappotti d'inverno, di riflessioni a volte utili come quelle che puoi trovare in un manuale di self help e di umorismo di alto livello specie nel rapporto con il Filosofo che la sostiene di lontano. Scritto in brevi paragrafi da leggere nella loro interezza per seguire lo sviluppo dei rapporti con il marito, con l'ex che riappare giusto per essere sicuro di non sentirsi in colpa, con il folle che le commissiona un libro sulla storia delle spedizione del Voyager, con l'allieva che ha tentato il suicidio che non dorme la notte come atto estremo di ribellione, con la figlia che rifiuta di parlare, con la sorella che le risolve la vita spedendo tutti a vivere in campagna.

 

Sarà questa alchimia, la finzione estrema di rendere semplici questioni che non lo sono per loro natura, sarà perché in questo libro si fa molto la spesa senza sapere bene cosa comprare o si combattono le cimici come se fossero una delle sette piaghe d'Egitto, sarà questo mescolare l'alto con il basso a funzionare , a rendere appetibile un testo che non lo è per dichiarata espressa ammissione.

 

Se ci sia furbizia, abilità consumata, talento vero, non è così chiaro. Ma un po' ci sentiamo come lei quando “prepara i pranzi per la figlia e le legge qualcosa per addormentarla. Al parco recita la parte della madre ragionevole che guarda la figlia giocare in modo ragionevole. Va a lavorare, e si osserva dall'alto mentre parla delle cose più disparate. È furba come un tossico, e copre i suoi errori” . È questo spazio di follia, è questa terra di nessuno che i lettori, forse, hanno percepito e amato tanto.

 

 

Il libro: Jenny Offill, Sembrava una felicità (2014), trad. it. di Francesca Novajra, NNE, Milano 2015, pp.162, € 16,00.

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