Maschere / Agamben tra i Pulcinella del Tiepolo
In Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo, 2015) Giorgio Agamben ci accompagna in un viaggio polifonico fra le immagini che Giandomenico Tiepolo ha dedicato alla maschera napoletana, dagli affreschi con i quali aveva decorato la propria villa di Zianigo (oggi conservati, staccati, nel museo del ‘700 veneziano di Ca’ Rezzonico) all’album di 104 tavole intitolato Divertimento per li regazzi, realizzato alla fine del XVIII secolo.
Agamben intreccia più regimi discorsivi (filosofico, storico, politico, iconografico, autobiografico) entrando e uscendo dai personaggi che il filo del suo pensiero incontra.
Innanzitutto questo divertimento è una riflessione sul rapporto fra filosofia e commedia, un rapporto più antico e profondo rispetto a quello con la tragedia: il personaggio comico vive in una sorta di eterna erranza, non ha il destino segnato dalla colpa come l’eroe tragico e proprio per questo la sua forma tipica non è l’azione, ma il lazzo che interrompe il mythos.
Negli affreschi della villa di Ziniago, Giandomenico Tiepolo aveva, anni prima, dipinto scene satiresche e vi sono molte corrispondenze di gesti, pose, situazioni fra i dipinti con protagonisti dei satiri e quelli con i pulcinella.
Agamben scrive che questa simmetria non è casuale, ma è anzi una costellazione visuale dove tali personaggi semi-umani sono i nuovi attori che entrano in scena alla fine di un mondo storico, dotati di una saggezza, una gaia scienza che disinnesca lo “spirito di gravità” in favore di una potenza irragionevole. La parabasi, cioè il momento in cui la commedia si interrompeva e il coro, togliendosi la maschera, si rivolgeva direttamente agli spettatori, sembra essere la condizione di Pulcinella, che “non recita un dramma, lo ha già sempre interrotto, ne è sempre già uscito, per una scorciatoia o una via traversa […] nella vita degli uomini – questo è il suo insegnamento – la sola cosa importante è trovare una via d’uscita […] Ubi fracassum, ibi fuggitorium – dove c’è una catastrofe, là c’è una via di fuga”.
Ma di quale catastrofe si tratta? Qui la riflessione entra in un campo storico e politico. L’impresa artistica delle “pulcinellerie” avviene quando Giandomenico Tiepolo ha settant'anni e si è ritirato nella villa ereditata dal padre Giambattista, dopo che, nel 1797, la Repubblica di Venezia era crollata nelle mani napoleoniche, perdendo una millenaria autonomia. Era la fine di un mondo e “nell’economia di questa fine dei tempi, tutte le cose si ricapitolano in Pulcinella”. Questo personaggio filosofico con il quale il pittore si accompagna era già stato il muto testimone, in un grande affresco del 1791, del tramonto di un’epoca e dell’annuncio di una nuova era, il Mondo novo.
Una folla di spalle osserva curiosa dentro una finestrella di un casotto dove si mostrano le attrazioni che verranno, i nuovi spettacoli tecnologici della modernità; tutti attendono di guardare dentro un cosmorama, uno dei dispositivi ottici pre-cinema, che permetteva di vedere con grande realismo panorami di luoghi lontani. In un lato ci sono due persone di profilo, il pittore e suo padre Giambattista, al centro, unico che guarda verso l’osservatore, un bambino (il protagonista del mondo che viene), al lato opposto vediamo invece un Pulcinella con il cappello a tubo, un personaggio che “annuncia il regno – o il sogno – intemporale che coincide con la fine di quello storico”. Agamben non si sofferma però su un particolare significativo: è questa l’unica immagine in cui Pulcinella appare senza maschera, ma con il solo volto grifagno, in cui sorriso e pianto sembrano coincidere; nei disegni e negli affreschi successivi di questo infinito divertimento avrà sempre invece la sua classica maschera nera, senza poterla più togliere. Ma nello straordinario gioco di sguardi dell’affresco, vediamo il suo volto così uguale alla maschera, il suo sguardo da un altro mondo che attraversa con disincanto gli sguardi negati della folla di spalle, gli sguardi seri, attenti, curiosi della donna di profilo che chiude il gruppo e dei due pittori che osservano con distacco lo spettacolo.
Nella polifonia fra diverse istanze narrative, riflessive e dialogiche, Agamben dà voce anche a un discorso diretto, che intervalla e interrompe il filo del pensiero, con protagonisti Pulcinella e altri fluttuanti interlocutori (il filosofo, il pittore). La maschera parla sempre in napoletano, a volte accordandosi alle parole del filosofo, altre volte dissentendo e mettendole in burla: “Dicímmelo accussí: ‘e ccarte meje so’ sempe ‘n faglia e venco ogne Jucata. Sulo ‘a mascara mia è ‘a faccia overa” – diciamo così: non ho le carte e vinco ogni giocata. Sotto la mia maschera non c’è nessun volto.
D’ora in poi Pulcinella sarà una pura maschera che accompagnerà il principio di una politica “destituente”: una politica “al di qua o al di là dell’azione”, che mette “in questione il primato della prassi” e della lotta, ostinatamente sottraendosi allo scontro tragico e improvvisando la commedia della vita. Qui ci troviamo di fronte, sotto le mutevoli fattezze del personaggio comico, a quella critica del soggetto e a quella impossibilità di dire io su cui Agamben ha lavorato in più occasioni.
È in fondo questo che ci consegnano le molteplici immagini di Pulcinella: un io sfuggente e plurale, un’esistenza larvale che accompagna quella degli uomini “veri” e che avrebbe il potere di inceppare la “macchina antropologica dell’occidente” grazie a un corpo ilare e deforme, sospeso fra l’umano e l’animale; un carattere che presenta un tratto di non-vissuto che è come “un clandestino senza volto che mi accompagna giorno dopo giorno senza che io riesca mai a rivolgergli la parola”.
Se in un’ottica filologica e folklorica Pulcinella è stato messo in relazione con la tradizione delle Atellane, di questo servitore teriomorfo, con la voce stridula e alta di un pulcino, vestito di bianco e dalla corporeità primaria e dirompente, Agamben sottolinea la componente spettrale, il suo avere una speciale relazione con la morte (nel frontespizio del Divertimento Pulcinella guarda il sepolcro in cui è sepolto, come se vivesse “accanto alla propria morte”). Viene fucilato, processato, impiccato, risorge, siede davanti alla propria tomba, scappa: Pulcinella vive, in un inaccessibile altrove, un’esistenza larvale che, come Agamben aveva scritto in Infanzia e storia nel saggio dedicato al Paese di balocchi, si configura come un significante instabile, un essere vago e minaccioso che rimane nel mondo dei vivi pur essendo già passato attraverso la morte (“ma je, ammeno chesto l’haje capito, nunn’ jesco a murí, nun ‘o saccio fa, je nun saccio murí” – mentre tutto questo almeno l’hai capito, che io non riesco a morire, non lo so fare, io non so morire).
Non è un caso che l’intelligenza iconografica sei-settecentesca (con Jacques Callot e Pier Leone Ghezzi, con Giambattista Tiepolo che si era sbizzarrito in una serie di disegni con truci e corporali Pulcinelli alle prese con deiezioni, postumi e scorpacciate di gnocchi, con Alessandro Magnasco e il suo tocco fulmineo, la luce vibrante, i corpi dinoccolati e persi nei vuoti scenografici), ci fornisca un dato irrevocabile: Pulcinella non è mai uno, sono sempre in tanti, è sempre “masnada”, come se questa esistenza fantasmatica fosse soggetta a un principio di moltiplicazione: “non semplicemente moltitudine e nemmeno popolo – piuttosto una schiera infernale di demoni e spettri, che rapina e distrugge tutto quello che le capita a tiro”.
Pulcinella cova l’uovo da cui poi nascerà un altro piccolo Pulcinella, in un continuo ciclo autoriproduttivo. Che si tratti di una famiglia gallinacea, di una banda, di una schiera spettrale, di un gruppo ristretto di lazzaroni o di un branco festante, siamo sempre in una dimensione corale, siamo di fronte a una molteplicità: insomma Pulcinella è un deleuziano branco di lupi, un “lupolio”, segnato da una tesa e spettrale leggerezza (“Lieggio comme a ‘nu piatto ‘e maccarune primma ca tu t’’o magne”– leggero come un piatto di maccheroni prima di mangiarselo); dotato di una “suprema goffaggine”, è un apolide che recita la parodia dei poteri, dissacrandoli, improvvisando sempre nuove vie d’uscita dal buio del presente (“Pròpeto chisto è ‘o punto: je songo ‘na idea senza ‘a cosa” – questo è il punto: io sono un’idea, di cui manca la cosa”).