Parodia e vampirologia. L'ultima notte di Furio Jesi

14 Ottobre 2015

Furio Jesi nel corso degli anni ’60 si è dedicato a più riprese al progetto di questo romanzo, mentre i suoi giovanissimi interessi archeologici per Egitto e Grecia iniziavano a trasformarsi nell’indagine mitologica delle letterature moderne (Germania segreta è del 1967 e la raccolta di saggi Letteratura e mito dell’anno successivo). L’Ultima notte si situa proprio in questo arco di interessi e di produzione saggistica, assorbendone narrativamente molti temi e trasfigurandoli  in un racconto di vampiri. La nuova edizione del romanzo, curata da Giulio Schiavoni, è corredata da un’ampia documentazione di inediti materiali di lavoro che hanno accompagnato il processo di scrittura, mettendo in evidenza la multiforme curiosità dell’autore per le mitologie vampiriche. Per orientarsi in questa lettura è forse opportuno pensare all’attività di quegli anni come a un laboratorio dove il giovane studioso torinese sperimentava e sondava campi discorsivi differenti per poi assemblare e smontare continuamente i suoi saggi, tutti intimamente intrecciati e caratterizzati da qualcosa di avventuroso e “romanzesco”. È Jesi stesso che suggerisce questo particolare quando, in una lettera del 1969 a Umberto Silva scrive:

Ti annuncio gloriosamente d’aver terminato un’ora fa la rilettura del dattiloscritto completo di Spartakus. Simbologia della rivolta. […] È finito ed ha assorbito l’essenziale di tutto il tessuto connettivo del mio fronte di lavoro, dal trattato mitologico agli articoli sindacali, alle poesie, al romanzo vampirico.

 

In questo “tessuto connettivo”, che unisce vari lavori e progetti, accanto al testo sul sacrificio e la rivolta, viene citato il romanzo vampirico, e si dice che è “finito”. Che Jesi considerasse compiuta, almeno per un primo giudizio, la sua opera è inoltre dimostrato dalla corrispondenza che in proposito tenne con Italo Calvino, a cui aveva sottoposto il testo per un’eventuale pubblicazione presso l’editore Einaudi. Questa corrispondenza consiste di quattro lettere, due di Calvino e due di Jesi, che hanno come argomento L’ultima notte (nella prima coppia di missive, la prima e più corta versione del testo, nelle altre la seconda versione che coincide con il testo poi pubblicato postumo quasi vent’anni dopo). Calvino mette in evidenza ciò che nel racconto secondo lui non funziona e l’8/1/1969, da Parigi, scrive a Jesi:

Caro Jesi,

ho letto L’ultima notte con tutto l’interesse che il tema mi ispirava. La situazione cosmica – processo di disgregazione della terra, regno dei Vampiri che succede al regno degli uomini – e tutto quello che ad essa si riferisce come atmosfera lirica m’hanno subito preso; ma sul piano narrativo, la chiave dichiaratamente parodistica e la scarsezza di suggestioni visuali per quel che riguarda i vampiri e il loro mondo, m’hanno un po’ lasciato sulla mia fame. Soprattutto ho sofferto d’una certa povertà narrativa: troppe adunanze, orazioni, messaggi ma poca narrazione [...].

 

La risposta di Jesi, scritta da Torino il 12/1/1969 è sostanzialmente allineata sulle posizioni critiche di Calvino, seppure con dei “distinguo” rispetto ad alcune questioni teoriche:

Caro Calvino,

grazie per la sua lettera. L’ultima notte è un lavoro proseguito per un lungo periodo di tempo: la partenza è stata quella tonalità di parodia deliberatamente grossolana e facile che, in conclusione, lascia irritato e insoddisfatto lei (e oggi, ma anche ieri, perplesso me) […] Lei capirà benissimo che proprio la consuetudine con le esperienze mitiche e simboliche vissute dal di dentro mi ha portato, nella saggistica, a correttivi e barriere difensive di obiettività scientifica, e nella narrativa a un correttivo o a una difesa più pesante: appunto l’ironia volgare (cfr. i nomi dei vampiri). Ciò coincideva, d’altronde, con i fatali dubbi sulla moralità della forma-romanzo […]

 

Attraverso questo scambio epistolare il romanzo inizia, in controluce, a definire i propri contorni: ci sono la sua critica e la sua poetica di riferimento; la parodia, seppure sempre accompagnata da un’aggettivazione di segno negativo («grossolana», «volgare») è la sua tonalità fondamentale. Per Calvino questo corrode la credibilità stessa dell’operazione, impoverendo le strutture narrative; per Jesi, che pur concorda sulla perplessità circa la “pesantezza” con cui viene trattato il materiale vampirico, sembra però che la parodia rappresenti il nucleo poetologico del suo lavoro. Romanzo e parodia, in una reciproca appartenenza, abitano nel disincanto di un cattivo ritorno del mito: come ebbe modo di scrivere a proposito di Apuleio e Thomas Mann, per Jesi la parodia, con la sua cosciente simulazione del mito, è il catalizzatore delle dinamiche testuali del romanzo ma anche l’ora in cui il passato non muore e si ripresenta sotto l’ombra della rimozione. Jesi aveva sin dall’adolescenza provato a praticare la scrittura di “fiction”; prima, da quanto è dato rilevare scorrendo le carte che ha lasciato, attraverso tentativi romanzeschi di carattere autobiografico, e poi focalizzando la propria attenzione intorno alla rivisitazione parodica del genere fantastico-vampirico. Oltre al romanzo bisogna infatti ricordare anche la fiaba di ambientazione vampirica, La casa incantata (scritta nel 1960 a Micene durante il suo viaggio di nozze e pubblicata postuma nel 1982).

 

 

 

Da sinistra: Furio Jesi, tempera su cartone, s.d.; Frammenti infantili. Disegno di Jesi fine anni '50 o primi '60

 

Seguendo il tracciato che Benjamin aveva indicato nei suoi lavori sulla Kinderliteratur, La casa incantata è la storia di un viaggio fantastico di un bambino, Daniele, all’interno di un mobile nella sala da pranzo di casa. Dentro quel mondo, ossia dentro il buffet, la situazione è critica perché un vecchio vampiro aristocratico (il vampiro Zozoro) tiranneggia i suoi sudditi e il suo umore è diventato ancora più iracondo da quando ha iniziato a leggere un libro, il “Gambero Rosso”, ma ne ha perduto le ultime pagine. Il piccolo protagonista viene arruolato in una quête intorno a questo libro misterioso, fino al ritrovamento di uno “pseudobiblium”, la Storia universale dei vampiri, nella biblioteca di un erudito professore. L’allestimento scherzoso di questa biblioteca è già un esempio di macchina mitologica che produce mitologie e ideologie, e venne riutilizzato da Jesi all’inizio de L’accusa del sangue, dove il lavoro d’archivio sul processo agli ebrei di Damasco inizia citando il libro Livres perdus et exemplaires uniques di Quérard, “l’inventario dei tesori della biblioteca inesistente”.

 

Su questo palinsesto bibliofilo avverrà, negli anni successivi, la riscrittura rappresentata da L’ultima notte, dove torneranno genealogie vampiriche, nomi e stemmi, in una notte che da incantata diventa teatro di un’ultima e apocalittica “battaglia” fra umani e vampiri. Come scrive Cesare Cases, in uno dei pochi interventi critici su quest’opera, il romanzo «non è un capolavoro letterario, anche se contiene delle pagine bellissime, soprattutto quando Jesi descrive le cantine, i cunicoli, i sotterranei in cui si sono rifugiati i vampiri. Esploratore del sottosuolo dell’anima individuale e collettiva, egli è capace di rendere l’oggettivazione della catabasi nelle viscere della città». Si tratta di un’opera stipata di riferimenti intertestuali, di nomi, simboli, fantasmi privati che scoraggiano tentativi di interpretazione esaustiva. Il suo stesso allegorismo è fondamentalmente ambivalente. Preannunciato dall’epigrafe biblica tratta dalle Lamentazioni, “Dai nostri posti di vedetta scrutavamo la venuta di una nazione che non poteva salvarci”, sembra sviluppare un parallelismo fra ebrei e vampiri, accomunati dalla persecuzione millenaria e dall’esilio (tema su cui Jesi ritornerà appunto nei due saggi de L’accusa del sangue, il secondo dei quali era dedicato, dopo il vampirismo rituale di cui venivano accusati gli ebrei, alla figura del vampiro nella letteratura tedesca). Però la scelta del punto di vista vampirico si sovrappone a un altro punto di vista, che emerge soprattutto nella seconda parte del racconto: quello di Faraqàt che, con i suoi mezzi non metafisici ma illusionistici (il teatro d’ombre), rappresenta l’uomo consapevole dei suoi limiti, che “scruta” come una vedetta il tempo della fine, ma intanto si impegna per ritardarlo. I vampiri ispirano simpatia perché sono i perseguitati, gli esuli, ma sono anche sempre pronti a trasformarsi nel demone e nell’emblema della manipolazione mitologica. Il collegamento, anche testuale, è particolarmente evidente con Cultura di destra. Se ad esempio si prende in esame l’episodio della morte di Dracula, si potrà notare come Jesi non abbia fatto altro, nella varie tipologie di discorso attraversate, che rimescolare un numero elevato ma finito di materiali presenti nella propria biblioteca. L’orazione funebre per Dracula è infatti la riscrittura dell’orazione funebre per Giosué Carducci letta da Percy Chirone nella Loggia Massonica di Porto Maurizio nel 1907 e commentata da Jesi nel saggio Il linguaggio delle idee senza parole. Entrambe le famiglie, quella vampirica e quella massonica, sono orgogliosamente attente nel marcare la propria distinzione, i trasferimenti metaforici sono continui, viaggiano in successive tappe di significati figurati senza potersi fermare in uno di questi: i vampiri dapprima si manifestano minacciosi, poi sembrano coincidere con il popolo eletto e perseguitato, diventano infine un circolo massonico che custodisce il proprio “segreto” per la notte del riscatto, orgoglioso di essere (come la cultura di destra) una minoranza che non si può confondere con «l’ignavia» degli uomini comuni. La parodia della società segreta e della lingua segreta avviene nel romanzo a partire dalla “nominazione” di una congerie di materiali mitologici già manipolati e messi, per così dire, in un pastiche radicalmente profano, in una collezione di rovine e tradizioni culturali, di registri linguistici che, seppure possono essere analizzati uno a uno, finiranno, nell’insieme, col non avere più nulla da dire e nessun segreto da custodire.

 

 

Da sinistra: Disegno di Antonin Artaud, Autoritratto come Dracula, 1923; Illustrazione di Tullio Pericoli per "L'Indice", aprile 1987

 

La profusione di vessilli nobiliari, di cavalieri teutonici, di luoghi sacri la cui memoria è lasciata in custodia a pochi sapienti non corrotti dalla modernità ha infatti molto a che fare con la Tradizione attraversata in Cultura di destra. Se il contro-mondo sotterraneo che conduce alla dimora di Dracula rimanda al mondo dell’Agarttha abitata dal “Re del mondo”, è in generale in tutto l’allestimento romanzesco che si possono rintracciare i segni della parodia della letteratura iniziatica, secondo il criterio che proprio Guénon chiamava «contro-iniziazione» e «contro-tradizione» nel capitolo intitolato La grande parodia o la spiritualità alla rovescia del suo libro Il Regno della Quantità e i Segni dei tempi.

 

La notte, la vera unità di tempo e di luogo di questo racconto, assume le caratteristiche di una metafora pervasiva della condizione umana e della contingenza storica. Il narratore pedina Faraqàt in continui spostamenti nella città notturna, riproponendo la fenomenologia dell’homo nocturnus espressionista e, come Jesi scrive nella lettera a Calvino del 12/1/1969, la sua declinazione brechtiana nella battaglia de I tamburi della notte, dramma che Jesi aveva rappresentato in gioventù in una cantina di Torino. L’unica cosa che rimane è il percorso che Faraqàt compie all’interno della città, il suo lento scivolare nella notte per ritornare nella casa dell’infanzia, alla periferia della città. Entrato nel luogo abbandonato e dimenticato, recupera le spalline argentee e le pistole di legno che avrebbero dovuto servirgli per il suo spettacolo illusionistico, rimanendo irresistibilmente attratto dalla vecchia cantina che custodisce «i resti della sua infanzia», i giocattoli, il «calendario perpetuo», il caleidoscopio.

 

L’ultima battaglia dell’ultima notte alla fine non è che questo caleidoscopio ritrovato al culmine della crisi della soggettività moderna (e della soggettività autobiografica). Un cifrato autocommento di questa prova narrativa lo si può individuare in una parola, adolescenziale, che Jesi usa per commentare lo scritto Della povertà di spirito di Lukács:  l’espressionismo si era dotato di una tonalità adolescenziale programmatica, che consisteva in un «privilegiare sine die il morire e la tensione del grido verso il silenzio» e portava a configurare «l’ora presente come quella di una battaglia finale, di un’ultima notte». Ma conclude, Jesi, il superamento dell’adolescenza (così come l’adesione al marxismo di Lukács) non significa il superamento del mito, perché a esso viene sostituito un altro mito «specialmente ingannevole», elaborato dal mondo adulto e borghese: il mito della maturità.

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