Pynchon e Kesey / Come gli hippy hanno salvato la letteratura

16 Giugno 2021

Gli anni sessanta sembrano non finire mai. Ritornano. E a cicli sempre più brevi. Di quegli anni ritornano i miti. Mai superati, sorpassati, surclassati. E anche se non c’era niente di eroico nell’essere giovani allora, i Baby Boomers si struggono ancora di nostalgia per averli vissuti in prima persona, mentre i Millennials e le generazioni seguenti (X, Y, Z, Alpha), ne scoprono e, sotto sotto, ne invidiano l’irripetibile stagione di creatività. 

E se in musica sembra proprio che the times they are [NOT] a-changin’ – lo hanno dimostrato i recenti festeggiamenti per gli ottant’anni di Bob Dylan, sessanta dei quali li abbiamo passati in compagnia della colonna sonora delle sue ballate – nel campo delle arti visive, a Firenze, a Palazzo Strozzi, si festeggia un quarantennio di American Art 1961-2001, dove a farla da divo, già dal manifesto, sono l’imperituro Andy Warhol e la Pop Art nelle sue caleidoscopiche varianti. Questo mentre in letteratura atterrano sui banchi delle nostre librerie due titoli freschissimi di stampa, vanti della controcultura: il primo, un inedito (per l’Italia) di Ken Kesey, A volte una bella pensata, che le edizioni Black Coffee pubblicano in occasione del ventennale della morte dell’autore (era uscito negli Stati Uniti nel 1964, due anni dopo Qualcuno volò sul nido del cuculo, l’opera che aveva reso famoso Kesey).

 

Il secondo è una nuova edizione, e relativa traduzione, di Vineland (Einaudi) – opera di culto, come si suol dire in questi casi – dell’elusivo Thomas Pynchon, leggendario recluso, o desaparecido se preferite, della letteratura (titolo che condivide con il J.D. Salinger del Giovane Holden) annoverato tra i massimi scrittori americani viventi, idolo e icona della controcultura, che in questo libro dipinge un affresco della stagione post hippy che gira intorno al personaggio di Zoyd Wheeler, residuato umano degli anni sessanta, anni dalla cui influenza e fascinazione, come dicevamo, non ci siamo ancora ripresi. 

E dire che il decennio di love and peace era “finito” più volte, purtroppo sempre nel sangue: nel 1963 con l’assassinio del presidente John F. Kennedy, nel 1968 con gli assassinii del reverendo Martin Luther King e del senatore Bob Kennedy, nel 1969 con il pluri-omicidio-mattanza che avrà, fra le sue vittime, l’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, compiuto da adepti della setta capitanata da Charles Manson – fondamentalmente un cantante fallito a cui l’LSD e tutte le droghe del mondo avevano bruciato il cervello. 

 

Un illetterato altamente talentuoso

 

Ad avere a che fare con l’LSD fra i tanti artisti (e non) che proveranno l’ebbrezza e gli effetti non sempre creativi dell’acido lisergico ci sarà, in prima fila, Ken Kesey (1935-2001), ex lottatore quasi olimpionico la cui carriera fu fermata da un infortunio alla spalla, che per mantenersi agli studi di scrittura all’Università di Stanford (fu allievo di Wallace Earle Stegner, il “Decano degli scrittori occidentali”, che era solito definire Kesey un “illetterato altamente talentuoso”) si sottopose, da volontario, agli esperimenti che si svolgevano al Veteran Hospital di Menlo Park, nel cuore di quella che è oggi la Silicon Valley, sugli effetti psicotropi dell’LSD e per l’uso che se ne sarebbe potuto fare in ambito medico come antidolorifico, ad esempio in pazienti terminali, ma soprattutto in campo psichiatrico come strumento per lo studio delle psicosi. Progetti che, in parallelo, e nella massima segretezza, l’intelligence e l’esercito degli Stati Uniti approfondivano per scopi molto meno nobili, come arma psicochimica.

 

 

Quelli erano gli anni in cui Kesey, ispirato dal ruolo di cavia, aveva cominciato a scrivere il suo primo romanzo, quel “nido del cuculo” che uscirà nel 1962, ma che lo porterà alla ribalta internazionale solo anni più tardi grazie alla trasposizione cinematografica del 1975 del regista Miloš Forman che farà man bassa di Oscar come miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice e migliore sceneggiatura non originale, con un giovane rampante Jack Nicholson nella parte principale di Randle Patrick McMurphy, carcerato che per sfuggire alla prigione simula segni di pazzia. 

Da notare, fra parentesi, come anche Pynchon userà lo stesso espediente con il personaggio principale del suo Vineland, quello Zoyd Wheeler che ogni anno, per la gioia dei media locali, si lancia contro la vetrina di un bar della sua città per mostrare alle autorità di essere matto da legare e così poter ricevere il sussudio pubblico. Follia e anni sessanta sembrano essere un binomio da cui non si può prescindere.

 

Un tipo perfetto per un viaggio 

 

Dunque, ben prima di raccogliere i copiosi frutti del successo del “nido del cuculo”, Kesey si dedicò alla stesura di A volte una bella pensata, saga molto barocca e molto eccessiva, persino dal punto di vista cartaceo (consta di ben 848 pagine), anch’essa portata sul grande schermo, ma con minor successo, da Paul Newman e Henry Fonda come protagonisti. In Italia il film uscì con un titolo, Sfida senza paura, che faceva il verso alla coeva stagione degli spaghetti-western. Chissà, forse il distributore pensava di attirare al botteghino spettatori distratti che si aspettavano una storia di pistolettate. 

La vicenda si svolge a Wakonda, paesino sperduto nell’interno dell’Oregon le cui case, descritte da Kesey, sono disseminate lungo il fiume, “certe vicine alla nazionale, altre meno, sono graziosissime, e non si sospetta che vi alberghi una tremenda depressione, case che ispirano tutto fuorché disagio”. La saga gira intorno a una rivolta sindacale tra gli operai dell’industria del legno causata delle innovazioni tecnologiche introdotte dall’azienda monopolistica locale. I boscaioli devono però scontrarsi quotidianamente, e quasi più duramente, con una famiglia che non aderisce allo sciopero, gli Stamper, gente dura e rancorosa emigrata in Oregon dal Kansas il cui motto è “Mai cedere di un millimetro!”. In questa lotta tipicamente americana tra individualità e collettività non si intravede niente di buono all’orizzonte, certamente non un “happy ending”. Non a caso Marco Rossari, autore di una puntuale prefazione (Il fattore KK) scrive: «Non è una lettura facile, questo libro. Non è una passeggiata. È un cazzo di montagna. Bisogna applicarsi, sintonizzarsi, insistere, sentire la musica. E poi, chissà, può anche capitarvi come pare sia successo a qualcuno – di restare incantati».

 

Un momento chiave del romanzo è il viaggio coast-to-coast che uno dei personaggi intraprende da est verso ovest per raggiungere la famiglia a Waconda, lo stesso tragitto che compierà, però in senso inverso, Ken Kesey, nel 1964, per andare a presentare il romanzo a New York. Viaggerà insieme a un’accozzaglia di amici, i Merry Pranksters, gli Allegri Burloni, a bordo di un iconico scuola-bus battezzato “Furthur”, istoriato come un uovo di Pasqua a disegni psichedelici – arancione, verde, magenta, lavanda, blu cloro e via andare – che Tom Wolfe, nel libro, The Electric Kool-aid Acid Test, descrive “come se qualcuno avesse dato a Hyeronymus Bosch cinquanta secchi di vernice e uno scuola-bus International Harvester del 1939 e gli avesse detto di mettersi all’opera”. Ciliegina sul mito, alla guida di “Furthur” ci sarà nientemeno che quel Neal Cassady, ormai quarantenne, protagonista simbolo della Beat Generation a cui si era ispirato Jack Kerouac per il personaggio di Dean Moriarty di Sulla Strada (“un tipo perfetto per un viaggio”). 

 

Pynchon is back

 

Intanto, nel 1963, sul fronte Pynchon, il Maestro, da sempre rigorosamente invisibile, si apprestava a rivoluzionare la scrittura facendo la sua comparsa nell’universo editoriale con V. un labirinto di storie vorticose che avrebbe dato il via a quella corrente letteraria che il critico e saggista Leslie Fiedler definì con il termine epocale di “post-moderna”. 

Tre anni più tardi Pynchon, pur restando sempre celato nella sua bolla di anonimato mediatico, si rifaceva vivo con L’incanto del lotto 49, seguito da L’arcobaleno della gravità (del 1973). Poi, a parte una raccolta di racconti, il silenzio per diciassette anni, come se avesse trovato la risposta al dubbio amletico che lo tormentava, al pari di Nanni Moretti che nel film Ecce Bombo si chiedeva: «Mi si nota di più se vengo [alla festa] e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».

 

Infine, nel 1990, il Grande Ritorno, annunciato da un recensore d’eccezione, Salman Rushdie, che dava avviso, dalle colonne del New York Times, che “Pynchon is back”, domandandosi anche perché diavolo ci avesse messo così tanto a scrivere questo Vineland.  Allo stesso tempo informava il lettore che a lui questo romanzo torrenziale, leggero e comico era piaciuto tanto e che si era fatto delle matte risate, fra l’altro per l’invenzione di certi nomi: uno per tutti quello di una ditta giapponese di microchip battezzata “Tokkata & Fuji”. La recensione entusiastica valse a Rushdie un invito a cena da parte dell’Uomo Invisibile, organizzata in territorio neutro, a casa dell’editore di Knopf, Sonny Mehta, a Manhattan. «L’ho trovato soddisfacentemente pynchonesco», raccontò Rushdie al Guardian «Dopo la cena mi dicevo, beh, siamo diventati amici, magari ogni tanto ci rivedremo. Però non mi ha mai richiamato». 

E se il critico del Washington Post si chiedeva se fosse valsa la pena aspettare diciassette anni per quel Vineland, i fan di mezzo mondo non ebbero dubbi nel rinnovargli la fiducia correndo ad acquistare il libro, così, come oggi, niente lo lascia dubitare, i devoti lettori italiani e i neofiti pynchoniani saranno gratificati da questa nuova edizione einaudiana.

 

 

Forever young

 

La trama del romanzo si dipana a Vineland, una contea della costa del nord della California, tanto inesistente quanto reale che, anche se non sei mai stato da quelle parti, te la puoi immaginare per aver assorbito quei paesaggi raccontati in così tanti film, telefilm, serial che, poi, quando la vedi sul serio ti senti confortevolmente a casa.

L’anno è il 1984, l’anno orwelliano in cui Ronald Reagan viene rieletto a valanga per un secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti (525 Grandi elettori contro i 13 del democratico Walter Mondale), e questo non piace ai personaggi di Pynchon che vedono nel suo programma politico un crescendo di distruzione e di ricostruzione del mondo a sua immagine e somiglianza: “smantellamento del New Deal, rovesciamento dell’esito della Seconda guerra mondiale, restaurazione del fascismo sia in America che nel resto del mondo”. Tutto ciò mentre, tra una pagina e l’altra, si appalesano Ufo, mostri tipo Godzilla, musiche “surfedeliche”, talpe dell’Fbi, in un continuo guizzo lisergico tra cultura alta e cultura bassa (mai, però, parassitariamente middlebrow), in un caleidoscopio postmoderno di citazioni, rimandi colti e accenni di fughe in avanti nell’avantpop. Ma soprattutto in una prosa esagerata dove “ognuno rincorre i suoi guai / ognuno col suo viaggio / ognuno diverso / e ognuno, in fondo, perso dentro i fatti suoi”.

Dicevamo che la storia si svolge a metà degli anni ottanta, ma non fatevi ingannare, qui tutto parla di anni sessanta, il periodo in cui tutti quei personaggi avevano vent’anni. Era l’epoca in cui fu inventata la categoria sociologica dei giovani, tutto accadeva e tutto era possibile. Anni in cui Philip Roth si chiedeva: “Ma sta accadendo veramente?” 

 

La contea di Vineland è il-paese-che-non-c’è, il rifugio dove hanno traslocato i Peter Pan che a Berkeley, Stanford, Ucla, protestavano contro la guerra in Vietnam, bruciavano le cartoline precetto e, allo stesso tempo, cavalcavano le onde del Pacifico in indimenticabili mercoledi da leoni. Ragazzi forever young che sapevano volare (magari con l’LSD) e che, da allora, non sono mai cresciuti.

Nella realtà degli anni ottanta in cui si svolge l’azione, gli effetti più esteriori del fenomeno hippy  – gonne a fiori o capelli lunghi – sono poco più di un ricordo. Lentamente la controcultura aveva perso il suo slancio rivoluzionario, ma non era sparita, si era trasformata.

 

Alcuni, come Zoyd Wheeler continuavano a vivere di sussidi pubblici, altri si apprestavano a diventare milionari grazie alla strada aperta dall’intuizione visionaria di un imprenditore hippy come Steve Jobs. Altri ancora sparivano dai radar istallandosi in comunità eterogenee come quella di Topanga – nelle immediate vicinanze di Los Angeles, che per il fascino del suo sciattume rurale condito con punte di estremo snobismo metropolitano, gli è stato affibbiato il soprannome di “Greenwich Village delle colline” – o, a nord, a Big Sur, un’area boschiva prospicente l’oceano, molto conosciuta, letterariamente parlando, per essere stata il feudo di Henri Miller e compagni, per la sua stretta vicinanza alla San Francisco della Beat Generation. 

Entrambi giardini dell’Eden di un’innocenza perduta ai cui abitanti l’acido aveva aperto le porte a visioni di Palme Vibranti, Macchine Poucutron, cristiani rinati della Cia e ora ne tiravano le somme, proprio come i personaggi del pynchonesco luna park della contea di Vineland.

 

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