Rian Johnson, “Star Wars Episodio VIII” / Gli ultimi Jedi e l’età adulta della Repubblica
Episodio VIII: Gli ultimi Jedi è il miglior film di Star Wars mai realizzato. E non lo è soltanto perché viene dopo il pessimo Episodio VII: il risveglio della forza, ma lo è soprattutto perché ha la sfrontatezza di compiere un’audace e inaspettata opera di attualizzazione. È il passaggio all’età adulta di un intero immaginario e ha coraggio di fare ciò che Kylo Ren suggerisce a Rey: «Lascia morire il passato. Uccidilo se devi. Questo è l'unico modo per diventare ciò che sei destinato a essere».
Non è un caso che il film abbia letteralmente spaccato in due la comunità dei fan del franchise ideato da George Lucas.
In che cosa consiste questa operazione di “spostamento” e perché assume questo peso specifico?
La galassia e le sue certezze
Quando nel 1977 Lucas vara la saga destinata a cambiare per sempre la storia del cinema, non ha idea della portata dell’operazione che sta per compiere. A testimonianza di ciò, la celebre scommessa con Spielberg: secondo Lucas, il coevo Incontri ravvicinati del terzo tipo dell’amico Steven avrebbe incassato, nei secoli dei secoli, molto più di Star Wars. Che cosa ha determinato il ribaltamento del pronostico e ha permesso a Spielberg di vincere a mani basse – e suo malgrado – la scommessa? Che cosa ci ha fatto innamorare incondizionatamente della saga di Luke e Leia, Han Solo e Darth Vader? Indubbiamente la semplicità, profonda e archetipica, di ciò che avviene in quella galassia lontana lontana: il bene e il male, il lato oscuro e la luce, separati da una linea di demarcazione netta ed evidente. Un’architettura che ha la linearità e la forza del mito, cui si mescola anche un sincretismo religioso ingenuo ma indubbiamente affascinante. Ci siamo affezionati a Star Wars perché ci ha sempre in qualche modo rassicurato: all’inizio dell’era postmoderna, infatti, mentre nella società contemporanea – come dice Lyotard – si stavano sgretolando le grandi narrazioni («grands récits») totalizzanti che avevano dato coesione alla modernità (idealismo, illuminismo, marxismo e l’ideale cristiano della salvezza) e con esse certezze e punti di riferimento, Star Wars ci tranquillizzava dicendo che è comunque facile riconoscere il male ed è ragionevole pensare di poterlo sconfiggere. Le rivoluzioni, nel mondo di Star Wars, possono essere fatte da pochi ma buoni, con vittime limitate (e possibilmente sconosciute, per abbassarne il tasso di empatia), verso un futuro che si può affrontare senza paura.
Episodio VII ha dimostrato che queste coordinate consolatorie sono ormai irriproducibili, se non attraverso una sterile ripetizione di elementi già visti. Il film scritto e diretto da J. J. Abrams e uscito nel 2015 sembra a tutti gli effetti un disorientato reboot di Una nuova speranza e ha come unico dettaglio inconsapevolmente interessante l’idea che Rey e Kylo Ren possano essere una sorta di estensione diegetica dello spettatore, quasi fossero due fan della saga capitati nel mondo dei loro sogni, la prima a caccia di merchandising sul pianeta Jakku, il secondo a fare il cosplayer di Darth Vader.
La comparsa del “grigio”
Rian Johnson, a cui è stato affidato questo ottavo episodio (e anche il compito di creare una quarta trilogia), ha un profilo completamente diverso da Abrams. Viene dal Sundance, dove ha vinto un premio con il bellissimo Brick nel 2007. Quando ha avuto a disposizione un budget importante, ha realizzato un film coraggioso come Looper. Ha una sensibilità più complessa e una visione del mondo più sfumata e attuale. A lui il compito di essere il sicario del manicheismo di Star Wars, di chiudere i rubinetti della nostalgia e di orientare la saga verso uno scenario davvero attuale, in cui oltre al bianco e il nero, pensate un po’, fa capolino il grigio.
Pensiamo all’ultima, indimenticabile immagine de Il ritorno dello Jedi: l’imperatore è sconfitto, Darth Vader, riabilitato, compare accanto ai fantasmi del maestro Yoda e Ben Kenobi. Che cosa accade oltre la barriera di questa scena? Dopo anni, arriva la risposta: riducendo Episodio VII a un film poco meno che interlocutorio, L'ultimo Jedi smonta la leggenda e complica la visione del mondo, allungando però la vita della saga.
Si parte da Luke Skywalker, mito in auto-esilio, che qui appare come un eroe ferito e un po’ noir, un guerriero che ha conosciuto la gloria ma che è poi sprofondato nella polvere e nel fallimento e ora è bruciato dal senso di colpa: la sua luce accecante si è spenta quando ha tentato di uccidere nel sonno, con la sua gloriosa spada laser, suo nipote e studente Ben Solo, in un momento di debolezza. Proprio lui, l’eroe della Forza, ha innescato una reazione a catena, regalando Ben alle sue paure e forse l’intera galassia al lato oscuro. Luke ha fallito, come insegnante, mentore e Jedi.
Democratizzazione di una saga
Altre situazioni e altri gesti di iconoclastia producono una sorprendente democratizzazione della saga: «Conosco solo una verità: è ora che i Jedi finiscano», dice Luke, aggiungendo che i Jedi, a conti fatti, hanno avuto una storia di insuccessi. Hanno consentito la nascita di un esercito di esseri umani clonati, hanno permesso a Darth Sidious di conquistare la galassia e creare l’Impero, Obi-Wan Kenobi è stato responsabile per l'addestramento di Darth Vader.
La coscienza del fallimento è uno degli aspetti politicamente più forti di Episodio VIII. È ora che i padri, quelli che credevano di aver fatto la rivoluzione e hanno sbagliato, si scansino. Non è un caso che Yoda dica a Luke che «il più grande insegnante, il fallimento è. Noi siamo il terreno su cui essi crescono. Questo è il vero fardello di tutti i maestri».
Episodio VIII mette un punto e va a capo: la forza è la vita e l'universo stesso, non l'ideologia. I Jedi non rappresentano la luce e i Sith non rappresentano l'oscurità. Luce e buio come il bene e il male sono ideologici, non naturali. Tutti, bene e male, sono parte dell'interconnessione e dell'equilibrio che tiene insieme l’universo. I Jedi, quindi, sono inutili, non possiedono la luce e la Forza stessa è alla portata di tutti.
Prendiamo il caso delle origini di Rey: quante congetture abbiamo fatto su quali potessero essere i genitori della nuova eroina della galassia? E ora scopriamo che esse sono del tutto irrilevanti: non c'è nulla di speciale nelle sue origini, anzi, come le dice Kylo Ren, «i tuoi genitori erano schifosi commercianti di cianfrusaglie che ti vendevano per denaro. Non hai posto in questa storia. Tu vieni dal nulla. Non sei nessuno».
Molti dei fan più inviperiti pare non sentano questa inversione come un film di Star Wars. Forse il solo Poe Dameron sembra in linea con il classico mood della saga: soldato impetuoso e passionale, rappresenta una visione del mondo in cui contano soprattutto gli atti eroici individuali, mentre la morte di piloti e soldati, cui non viene dato nemmeno un volto, non crea poi troppi problemi. In Episodio VIII, Poe finisce degradato e pesantemente redarguito: nessuno è più carne da macello e distruggere il nemico conta meno di preservare vite.
Gli ultimi Jedi smonta l'idea che la galassia possa essere salvata “dal prescelto”. La Disney, un po’ a sorpresa, battezza un racconto che si allontana dalla classica lotta tra il bene e il male, probabilmente comprendendo che questa è la strada migliore per allungare la vita (commerciale) della saga e spingerla oltre la nostalgia.
Al netto dell’indignazione e della delusione dei fan più conservatori, noi ci teniamo stretti il finale di questo film, in cui dalle ceneri della Nuova Repubblica nasce una piccola ribellione, unica speranza della galassia: un manipolo di sopravvissuti senza eroi, che ha tutte le caratteristiche della resistenza popolare.