Laboratorio / Insaziabile Faust

15 Aprile 2020

All’alba dell’età moderna, la cultura europea partorisce due personaggi che rappresentano una fame insaziabile e sacrilega di assoluto: Don Giovanni e Faust. Il primo abita un presente senza memoria, mentre il secondo vive sempre nel passato e nel futuro, incapace di godere pienamente l’attimo. Il Faust goethiano ha suscitato un’interminabile diatriba filologica e filosofica che riguarda proprio la frase in cui il protagonista evoca il fantasma di questo godimento. “Potrei dire all’attimo fuggente: ‘Arrestati, sei bello!’” esclama davanti al sogno di un’umanità libera e operosa; ma subito cade morto. Nel patto con Mefistofele, infatti, lo studioso aveva accettato di consegnargli l’anima non appena avesse pronunciato quelle parole. Ma Faust sta davvero esprimendo ciò che l’esclamazione tra virgolette significa? Non sta solo facendo un’ipotesi? E se è così, l’interpretazione diabolica non si basa forse su un cavillo? Il testo non è troppo chiaro, e non esattamente per una di quelle ambiguità che ne fanno la grandezza. Goethe ritoccò il verbo, passando dal “posso” al “potrei”, e fu dunque il primo a cercare giustificazioni avvocatesche per il finale, dove gli inviati del cielo strappano il trofeo alle truppe dell’inferno. In ogni caso, quel che è certo è che Faust è l’eroe dell’insoddisfazione perenne che lo proietta perennemente nell’avvenire. Nessuna meta lo induce al riposo: insegue l’orizzonte. “Così io nel desiderio corro anelando al piacere, e in mezzo al piacere anelo al desiderio” gli fa dire Goethe nella scena “Bosco e spelonca”. Se Don Giovanni è inchiodato a un destino di eterna ripetizione, Faust agisce per accumulare possessi e conoscenze ogni volta diversi, nel tentativo di sperimentare tutte le forme possibili dell’esistenza. Da questo punto di vista il personaggio goethiano anticipa e accompagna la parabola dell’idealismo tedesco, che pretende di razionalizzare il mondo. Traducendo l’incipit del Vangelo di Giovanni con un temerario “In principio era l’Azione”, Faust aspira ad abolire i confini tra la parola e l’atto. Se il suo streben implica una fiducia ottimistica nel futuro, il prezzo è però una smania che gli impedisce di trovare pace; e quando il tempo per fare progetti s’accorcia fino a sporgersi sulla fine imminente, la smania mostra il suo rovescio mutandosi in Ansia.

 

Questa fame di realizzazione senza limiti nasce da un vuoto. Il dotto rinascimentale, un po’ mago e un po’ scienziato, deve fare i conti con la rottura del compatto ordine teologico medievale. Fino al Medioevo l’universo è un pieno, un’architettura che ha al suo centro l’uomo. Ma tra Quattro e Cinquecento quell’architettura si sgretola, e presto lascerà posto all’informe vastità galileiana, ossia a un deserto sconfinato e triste di geografia e di senso. La nuova scienza renderà quasi impossibile un’epica cosmica concreta, perché non si daranno più spazi delimitabili da descrivere. È il problema di Milton, che nel Paradiso perduto fatica a collocare i corpi in uno scenario credibile, oscillando tra razionalità capziosa e trovate rocambolesche: quando Satana risale dall’abisso in cerca della Terra, il poeta s’affanna a riempire di metafore il buio del caos, e lo sforzo – mirabile – si sente. 

 

In questo vuoto nidifica il nichilismo che Harold Bloom vede incarnato originariamente nelle figure shakespeariane di Edmund e di Iago, antenati illustri di Svidrigailoff e Stavrogin. Se l’ordine di Dio è distrutto, non resta che darsi al diavolo. Il gelo del senso e dei sentimenti rende ogni azione indifferente, o perlomeno insoddisfacente. Tanto vale allora rimpinzarsi di piaceri e poteri, esaltandosi a propria volta nel distruggere. In Goethe, Faust trova sbarrato l’accesso diretto alla natura: per questo si danna. La magia è un ripiego. Il dotto sa che sarà sempre schiavo del suo desiderio inappagato: quindi, pensa, meglio buttarsi sulle droghe infernali, che se non possono spegnere il desiderio possono almeno dilatare l’esperienza in modi altrimenti preclusi. Se né Dio né la Natura accolgono le preghiere, le accoglie Mefistofele. Questo messo satanico è l’unico personaggio coerente del poema goethiano. Di fronte a lui Faust sembra appena il nome con cui vengono legate, quadro dopo quadro, le azioni troppo diverse di un Uomo che ogni volta sembra risvegliarsi con una diversa identità. Come i servitori nichilisti ai quali fa riferimento Bloom, Mefistofele si atteggia a spirito moderno. Nasconde il piede equino nei “polpacci imbottiti”, e veste da gentiluomo. È il diavolo giusto per un mondo i cui abitanti “Han bandito il Malvagio”, ma dove innegabilmente “son rimasti i malvagi”. “Chi sei?” gli chiede Faust quando nello studio gli si trasforma davanti agli occhi da can barbone in scolaro vagante. E qui cade la celebre risposta: “Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. Definizione ineccepibile, visto che nell’età moderna il progresso pubblico si alimenta con i vizi. 

 

L’intermittente, l’anelante Faust, che ha ereditato il tratto prometeico del Satana miltoniano, simboleggia la poesia; il misurato, beffardo Mefistofele incarna la prosa. Lui sì che sa stare nel presente. Vagheggia godimenti egoistici, immediati, crassi. Diffida delle sublimazioni. Stenta a capire i progetti ideali e sentimentali del dotto, ma quando ne smonta l’ideologia dimostra di essere non meno loico dei suoi colleghi danteschi. Ammutolisce solo di fronte alla serenità classica, che nella tranquilla abitudine al nudo è impermeabile ai suoi motteggi da adolescente compiaciuto di scoprire le vergogne. Come Iago, il sottodiavolo goethiano non è forse che un critico, e può solo fare battute o demolire: “Io sono lo Spirito che sempre nega. Ed a ragione; perché tutto ciò che nasce merita di perire; perciò meglio sarebbe che niente nascesse”. Anche qui torna in mente il vero eroe del Paradiso perduto, là dove confessa che “only in destroying I find ease / To my relentless thoughts”. Solo sprofondando nel male Satana può dimenticarlo per un attimo; e fuori dal male non ha punti d’appoggio. “Which way I fly is hell; myself am hell” dice in un altro passo. 

 

 

Questa invece sembra quasi una citazione della Tragica storia del Dottor Faustus. Nel dramma di Christopher Marlowe, scritto intorno al 1590, Faustus domanda a Mefistofele per quale motivo, se è stato condannato all’inferno, se ne sta lì con lui sulla terra, lontano dalla sua prigione. “Perché l’inferno è questo” risponde Mefistofele. Tutto è condanna, per chi non può più contemplare il volto di Dio dopo essere stato al suo cospetto. È con Marlowe che la leggenda di un oscuro personaggio rinascimentale assurge per la prima volta al rango dell’alta poesia. Mago, astrologo e alchimista, Johann Georg Faust visse tra il 1480 e il 1540, e a quanto pare si fece pubblicità affermando di avere per alleato il diavolo. Senza preoccuparsi del galateo, Melantone lo chiamava “cloaca multorum diabolorum”. La sua leggenda si condensò in un libro pio luterano uscito a Francoforte nel 1587, che con molto ritardo prendeva di mira gli esperimenti “blasfemi” degli umanisti. Nella trama del Volksbuch, diffusa poi in altre versioni fino al Settecento, c’è il patto nella foresta di Wittenberg, con durata di ventiquattro anni e vendita dell’anima di Faust in cambio del povero sapere che può dargli “Mefostofile”; ci sono i viaggi fantastici all’inferno e in cielo e gli incontri col Papa, col Sultano e con Carlo V, per cui il mago evoca Alessandro e Rossana; e c’è l’apparizione di Elena di Troia, con la quale Faust concepisce Justus Faustus. Marlowe lascia la sua impronta geniale su questo canovaccio fin dall’incipit, inventando il monologo in cui il protagonista liquida i saperi canonici del Medioevo; e come è noto la trovata viene ripresa da Goethe, che forse da ragazzo ha visto il dramma ridotto per le marionette. “Misero me! Ho studiato filosofia, giure, medicina e, purtroppo, anche teologia; tutta la vita mi sono arrabattato, ed ora eccomi qui, povero folle che ne so quanto prima!” lamenta il suo Faust dopo il “Prologo in teatro” e il “Prologo in cielo”.

 

Il massimo scrittore tedesco si arrovella sul suo poema per sessant’anni. Tra una rielaborazione e l’altra cadono la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche, la Restaurazione, la rivoluzione di luglio. Un primo abbozzo giovanile risale al tempo dello Sturm und Drang. Poi Goethe torna a mettere mano al Faust con una certa regolarità all’epoca dell’amicizia con Schiller. Ma è nei suoi ultimi, fecondissimi anni che si concentrano le invenzioni più sorprendenti. Stendendo la seconda parte, l’autore s’inoltra in un territorio estetico che lascia sconcertati, e per cui non sembrano darsi unità di misura attendibili. Quest’opera, nella sua eterogeneità, è sempre apparsa ad alcuni interpreti un “capolavoro sbagliato”, per usare la formula arguta di Vittorio Imbriani. Harold Bloom parla di “sublime cattivo gusto”, e definisce il poema “il capolavoro più grottesco della poesia occidentale, la fine della tradizione classica in quello che potrebbe essere definito un vasto dramma satirico cosmologico”. La Parte seconda, a parere del critico americano, è addirittura il “più grandioso film di mostri che mai sia stato proiettato”. 

 

Il paragone con il cinema si adatta bene al Faust II, anche perché il lettore ha una forte impressione di evanescenza. Il reale e l’irreale sfumano l’uno nell’altro di continuo. Si pensi alla magia di Mefistofele che inventa il denaro, citata da Marx, o ad altre apparizioni che il sottodiavolo non controlla, dato che provengono dalla tradizione classica e dipendono dalla discesa paurosa alle Madri. È tutto un “teatro” i cui effetti si estendono ben oltre il “palcoscenico”; e viceversa, le vicende “della vita” sembrano come isolate su una scena-nella-scena, dal risveglio di Faust in un tepore purgatoriale fino all’improbabile Paradiso da cappella affrescata. Completamente reale è soltanto la distruzione, dallo strazio di Margherita a quello di Filemone e Bauci, che vengono bruciati con la loro capanna perché il Faust imprenditore non può sopportare che nemmeno il più piccolo lembo di terra appartenga ad altri (e come capita nelle dittature, malgrado il mandante abbia suggerito di cacciare i due vecchi senza torcergli un capello, gli esecutori infernali li eliminano brutalmente esaudendo il suo desiderio segreto). 

 

Più ancora del Paradiso perduto, il Faust riflette l’eclettismo obbligato di un’età che non forma un tutto organico né nella religione, né nel sapere, né nell’organizzazione sociale. La prima parte, con il dramma che oppone l’amore e l’affermazione di sé, può anche leggersi come un insieme compiuto. Ma la seconda, tra sacro romano impero, sabba classico, capitalismo tecnologico e cattolicesimo esteriore, propone una disorientante giustapposizione di tempi, spazi e dimensioni. Per dirla in termini goethiani, sul simbolo prevale l’allegoria. Questo “collage”, che prefigura le avanguardie, dà un bel da fare a chi cerca di ricondurlo ad unità. È il caso di György Lukács, che nel Faust individua il luogo letterario in cui il destino del protagonista e la storia universale arrivano a identificarsi come nella Fenomenologia dello Spirito; ed è anche il caso del suo avversario Benedetto Croce, che prova la stessa indulgenza umanistica verso un autore eletto a modello. Chi punta sui momenti di maggior riuscita simbolica si sofferma in particolare sull’incontro tra Faust ed Elena, dove Goethe, in un dialogo ammirevole, avvicina la metrica classica e i versi in rima, preparando la fusione provvisoria tra antichità greca e mondo cristiano-germanico da cui nascerà Euforione-Byron, l’Icaro che trasforma in poesia tutto quello che tocca. Ma si tratta solo di una breve scena, circondata da situazioni che sembrano inconciliabili: prima e dopo troviamo un caotico variare di arredi, di stratagemmi, di sensi letterali e metaforici, nonché una promiscuità frastornante tra filosofi e mostri arcaici, spiritelli in provetta e costruttori di dighe. 

 

Se Lukács e Croce tentano di arrotondare gli spigoli, da quasi due secoli ogni epoca o corrente culturale prova ad adattare il Faust alle sue esigenze. E si capisce, dato che se come opera è un mostro “incommensurabile”, la figura a cui è intitolato rappresenta invece in maniera essenziale e perspicua gli slanci moderni e le moderne angosce. C’è il Faust nazionalista germanico di fine Ottocento; c’è il Faust di Spengler; c’è il Faust sequestrato dai nazisti e c’è quello antinazista. C’è chi non ritiene Faust abbastanza “faustiano”, cioè superomistico, e chi per sottrarlo a questa deformazione rischia di renderlo “antifaustiano”. Dopo la seconda guerra mondiale e gli stermini di massa, ci sono pensatori come Günther Anders che celebrano le esequie dell’eroe, dato per morto insieme alle sue prometeiche pretese di dominio. E in mezzo alle tragedie del Novecento ci sono i Faust di Bulgakov e Thomas Mann, non più scienziati ma artisti. Con il Doctor Faustus, l’arte moderna e il sinistro contesto sociale che l’ha ispirata vengono condannati proprio come nel libro popolare luterano veniva condannato l’umanesimo. L’osservazione, al solito acuta, è di Cesare Cases, che del Faust si è occupato lungo tutta la sua carriera di germanista, dalla caduta del fascismo a quella del muro di Berlino e oltre: più o meno, insomma, per il tempo in cui ci ha lavorato Goethe. Di recente, a cura e con due introduzioni di Michele Sisto e Roberto Venuti, Quodlibet ha pubblicato i suoi interventi più significativi sotto il titolo Laboratorio Faust. Saggi e commenti, aggiungendovi una vasta appendice che comprende una doppia intervista rilasciata insieme a Franco Fortini, il carteggio con Fortini sulla sua traduzione uscita nei Meridiani Mondadori a inizio anni Settanta, le proposte di modifica a questa traduzione, e un apparato di note stese per la versione di Andrea Casalegno edita nel 1989 da Garzanti.

 

Se si considera che il pezzo più lungo, quasi un libro a parte, è l’introduzione firmata nel ’65 per il Faust einaudiano di Barbara Allason, si può dire che Cases ha lasciato il segno su tutte le principali imprese traduttorie faustiane circolate nell’Italia del secondo Novecento. Sfogliando queste pagine il lettore è in grado di ammirare l’intera gamma di colori e tagli che caratterizzano la prosa casesiana, dal riassunto informativo a quello umoristico, dalla panoramica socioculturale ai minuziosi appunti filologici sulla nomenclatura chimica o sulle espressioni gergali del poema (appunti nei quali, con un piglio da detective che tiene i piedi ben piantati per terra, il germanista avverte di non sopravvalutare il peso della “parole” poetica e di accertarsi se certe metafore non derivino invece da un antico deposito di “langue”). Anche Cases cambia nel tempo come Goethe; e dietro i suoi cambiamenti, osserva Sisto, si scorgono i riflessi dei dibattiti ideologici che hanno animato la cultura italiana lungo mezzo secolo. A partire dagli anni Sessanta, quello che era l’agente di Lukács in Italia comincia ad allontanarsi a passi felpati dal maestro. Ne loda i saggi faustiani, certo, rilevando come lo studio dell’ultima epica occidentale in versi, che resta al di qua dell’Ottocento cui il critico ungherese applica sempre lo schema “realismo contro decadenza”, gli frutti una felice epochè dell’ortodossia. Ma l’alternativa secca tra convivenza pacifica e apocalisse atomica, che sembra imporsi al pianeta in quel periodo, induce Cases a rivalutare intanto l’antiumanistico Brecht, e perfino un po’ di Beckett. Così nel 1965 si trova già vicino a quella Nuova Sinistra per la quale Fortini, che tradurrà il Faust tra i clamori del Sessantotto, è un riconosciuto punto di riferimento. 

Nel fare le pulci alla versione dell’amico poeta, Cases si presenta in veste di “diavolo filologico”.

 

E questo diavolo milanese, destinato a finire i suoi giorni a Firenze, non risparmia i sarcasmi più o meno sottili al fiorentino milanesizzato, che sa il tedesco molto meno di lui, ma che pure, scrive in un rigo sotto cui s’intravede il ghigno da coboldo, per la sua sola provenienza gl’incute una tipica soggezione da manzoniano. D’altra parte, il germanista si dice d’accordo sul fatto che per un traduttore è più importante “conoscere bene la lingua d’arrivo che quella di partenza”. Lo scambio tra i due costituisce un autentico trattato sulla traduzione, che rispetto ai trattati ha però il vantaggio di non essere noioso, dato che si compone di note a margine, interviste, lettere condite con saporiti scorci privati e sociali, e anche di non pochi inserti goliardici (per descrivere le azioni più quotidiane, entrambi i corrispondenti parafrasano i classici) o perfino di brani in cui la comicità volontaria è superata da quella preterintenzionale (leggere due intellettuali così pudichi che per sciogliere un’ambiguità del testo duellano sulla natura del desiderio femminile a base di fantasie “porcellone”, equilibri ormonici e membri fauneschi fa abbastanza ridere). 

Ciò che attira Fortini nel Faust, come nei Promessi sposi, è il carattere rivoluzionario dissimulato dietro una maschera fredda, “filistea”. L’autore di Verifica dei poteri diffida infatti di ogni immediatezza; e lo conferma anche da traduttore, evitando un rifacimento creativo che suonerebbe involontariamente parodico e diverrebbe subito un pezzo d’epoca. Come spesso nelle sue composizioni, Fortini preferisce servirsi di forme ben morte, che essendo già archiviate dalla storia non invecchiano velocemente sotto gli occhi, e risultano sufficientemente lontane da permettere “estraniamento, ossia possibilità di recupero”. Secondo la lezione di Benjamin, vuole che chi legge il testo italiano ne avverta l’incompiutezza e senta la nostalgia dell’originale. La sua è un’opera riflessa e riflessiva. “Il genere prossimo alla traduzione” afferma “non è tanto la poesia quanto la saggistica”; e usando un’espressione che si attaglia anche ai suoi versi coevi, si riferisce al Faust come a una “catastrofe pietrificata”.   

 

Cases, da parte sua, dà manforte alle idee fortiniane: pretendere “di far concorrenza al testo nel ricreare la favola bella in versi tradizionali (più o meno ‘contemporanei’)”, spiega commentando il lavoro dell’amico, “avrebbe significato (…) scrivere una parodia. Accettare la dissacrazione significa invece mostrare come il testo resiste ad essa, in qualche modo la esiga. Certo, non sempre e dappertutto nella stessa misura. La mano di Fortini accentua o allenta la pressione a seconda della forza che le si oppone. Quanto più la bellezza appare ‘naturale’, e tanto più cercherà di spezzarla (…) Là dove invece la bellezza non è ‘natura’ ma ‘arte’, dove la canzonetta, il minuetto o l’organetto sono nel testo”, il traduttore “non rifugge da versi regolari, da assonanze o addirittura (horribile dictu!) da rime”. E ancora: “I ‘cambi di velocità’, gli aggiustamenti di tiro”, scrive il critico, permettono a Fortini “di riscontrare sulla pagina il tono peculiare dell’originale, che in genere nelle traduzioni è livellato al minimo comune denominatore di un’intenzione fondamentale – quella appunto del soggetto demiurgico – che si impone contro ogni adeguazione mimetica. Dopo tutto Goethe ci ha messo sessant’anni a scrivere il Faust mentre i traduttori ci mettono molto meno, e anche se per miracolo la loro soggettività fosse identica a quella di Goethe, nel periodo in cui si dedicano alla traduzione non potrebbe cambiare di molto”.

 

Il Laboratorio suggerisce irresistibilmente la dialettica tra un Fortini-Faust, che magari s’inibisce la vitalità faustiana ma ha lo stesso slancio lirico-ideologico, e un Cases-Mefistofele, tutto prosa agile e ironia corrosiva. Verso la fine, Fortini renderà la sua idea di comunismo sempre più indecifrabile, e purtroppo facilmente volgarizzabile da chi la riduce a un manierato comunismo da paradiso del quinto atto. Cases invece, mentre dichiara di sperare che l’umanesimo lukacsiano torni attuale insieme al sogno d’integrità da Faust solamente intravisto, ma dal socialismo un giorno realizzabile, sembra limitarsi a un gesto di pietas nei confronti del proprio passato; e anche in quel passato, viene da dubitare che il suo illuminismo scettico gli abbia mai permesso di credere al sogno con convinzione. Comunque sia, le aspirazioni faustiane, persino le più moderate, a noi appaiono ancora più chimeriche. Rimangono le realizzazioni tecnologiche, ma private della speranza umana che le circondava come un’aura; e rimane il rovescio dello streben, l’Ansia, la cui età si è estesa fino al 2020 in modi imprevedibili. In queste settimane in cui politica e scienza si confondono, aggiungendo minaccia a minaccia, torna in mente quel passo del Faust dove il protagonista, a passeggio col discepolo Wagner, viene festeggiato dalla folla. Questa folla ignora che la medicina, esercitata prima da suo padre e poi da lui, non l’ha affatto curata dalle pestilenze, ma semmai ha contribuito a decimarla. “Abbiamo applicato una scienza che mal sapevamo, e ciò che sappiamo non possiamo applicarlo” suona il commento amaro del dotto nella traduzione della Allason, dove la constatazione è resa nella forma più nuda. È in questi casi che si rischia di andare al diavolo, ovvero di abbracciare per sconforto una superstizione al cui dominio diventa poi sempre più difficile sottrarsi. E la tentazione, s’intende, vale soprattutto per gli umanisti di oggi. 

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