Liveness / Kepler-452: Teatro nel coprifuoco

8 Gennaio 2021

Siamo a casa soli, noi che passavamo a teatro quasi tutte le sere. Oggi saremo un po’ meno soli, verrà da noi Nicola Borghesi, autore e attore dello spettacolo Consegne con la compagnia Kepler-452, un teatro che abita gli interstizi delle norme dei Dpcm.


Come sappiamo è stato vietato l’incontro in pubblico e in privato fra spettatori e opere di teatro, di cinema, musica, arti visive, così come nel primo lockdown nella primavera 2020. Non è stato però vietato il teatro, che da mesi sta sperimentando forme per manifestarsi oltre gli spettacoli. Si tratta di tentativi chiaramente indotti ed emergenziali, in territori spesso però poco esplorati dove attivare forme peculiari di “liveness”, un qui e ora senza compresenza dei corpi. I teatranti sono stati presi di peso e traslati nei margini di riquadri dei siti di video sharing, delle piattaforme di conference call o nelle casse audio di computer e smartphone, dove sono proliferati esperimenti teatrali ‘senza spettacoli’ ma con una teatralità recuperata e rimessa a fuoco: dall’intimità di una relazione interpersonale alla sintesi immaginale dell’ascolto, dalla concisione drammaturgica rielaborata in video della stand-up comedy all’attivazione ludica e quindi performativa dei giochi di ruolo. Spettatori e spettatrici tutti a casa, da soli e in coprifuoco negli orari in cui solitamente si va a teatro. 

 

 

Noi questa sera siamo a casa, Borghesi deve venirci a consegnare qualcosa. Dobbiamo aspettare un collegamento su Zoom, ci connettiamo e ci vengono fornite brevi istruzioni, poi uno stacco e finalmente si presenta “il corriere”. Si chiama Nicola e di mestiere fa l’attore, dice, ma questa sera veste i panni di una figura professionale cui è consentito derogare dagli orari di uscita. Sono strane, oggi, le soglie della finzione e della rappresentazione nella nostra società. Questa sera il teatro non ha bisogno di raffinati meccanismi di scrittura che intersecano rappresentazione e realtà, finzione letteraria e cronaca, in cerca di una lingua che possa farsi intendere senza dismettere costruzione letteraria e flusso biografico, come è accaduto sempre nel percorso della compagnia (composta da Borghesi e da Paola Aiello, Enrico Baraldi e Michela Buscema, ai quali si è aggiunto recentemente Riccardo Tabilio). Kepler-452 ha raccontato di una ‘rivoluzione’ invocata da un giovane a un colloquio di lavoro che ricordava molto le biografie degli attori (La rivoluzione è facile se sai come farla, 2016), poi di un “Giardino” ispirato a Čechov e alla cronaca bolognese, fra centri commerciali del food ed ex centri sociali occupati (Il Giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, 2018). Passando per spettacoli sulla memoria collettiva e individuale o attraversando la città in performance audioguidate, anche sull’esperienza della pandemia (Lapsus Urbano. Il primo giorno possibile, 2020).

 

È strano e paradossale, dicevamo: oggi il teatro, per avere credito e consistenza, deve uscire dal teatro, un attore deve calarsi nel quotidiano e fingersi non Amleto ma un lavoratore fra i meno tutelati, un rider al soldo di una multinazionale. Effetto collaterale del precariato e delle retoriche da economia collaborativa, il risultato è una società in lockdown che deprime il lavoro al punto da rendere credibile, e legalmente possibile, questa iperbolica inversione di arte e realtà. Noi spettatori infatti siamo a casa, da soli, aspettiamo un attore che si spaccia per corriere del food indossando una divisa. Nicola ci saluta, noi lo vediamo seduti insieme sul divano, lui inforca la bici, ci guarda, ci chiede i nostri nomi, parte da dietro a Piazza Maggiore, a Bologna, si riconoscono le lucine di Natale delle vetrine di altolocati negozi, poi s’intravvede la piazza vuota, così come le strade del centro dove proliferano bar e botteghe di tortellini chiusi. Il corriere comincia a ‘scendere’ via dell’Indipendenza, la strada dello shopping che in quel tratto è in lieve discesa, verso la stazione Centrale; intanto ci parla, si rivolge a noi chiamandoci per nome, noi non sappiamo se rispondere colpo su colpo alle diverse domande o se convenga ascoltare in silenzio, come a spiare una storia o la vita di qualcuno che ha dimenticato la telecamera accesa in una conference call. Non tutto è chiuso, nemmeno durante il coprifuoco, dice, certo sono vietate e ferme tutte le attività non essenziali, fra le quali il teatro. E per voi, che cosa è essenziale? Ce lo domanda per davvero e aspetta una risposta, la mia e quella di chi è al mio fianco, mia moglie.

 

E se doveste pensare a un oggetto essenziale, oggi, che cosa vi verrebbe in mente? Io penso a un manuale di storia del teatro, la mia compagna a una foto di sua madre. I ciottoli del pavimento stradale fanno sobbalzare l’immaginetta riquadrata, a tratti il segnale è più debole, Nicola chiede se ricordiamo com’era prima, quando si poteva uscire, quando si faceva tardi la sera, poi se ricordiamo “la prima volta”. Noi ci osserviamo in tralice con complice imbarazzo, poi lui riprende: la prima volta quando si andava nei balconi a mettere la musica, quando si applaudiva, quando si scriveva che andrà tutto bene. Abbiamo una canzone che ascoltiamo quando siamo profondamente tristi? Il corriere sale il ponte della stazione, arriva di fronte alla chiesona del Sacro Cuore, divaga, si perde volontariamente nelle vie, appoggia il cellulare, si confessa. Tutto questo lui lo sta facendo per sentirsi meno solo. Sì, Nicola, anche noi ti abbiamo chiamato per lo stesso identico motivo, è per questo che ora tu ci stai parlando, anche se adesso stai fingendo di andartene, affermi che l’esperimento non sta funzionando, che non basta. Abbandoni il telefonino, così resta fissa l’immagine sbieca di un palazzo e le luminarie stradali delle feste, esci dallo schermo, forse stai piangendo, la storia che ci stai raccontando è finta, è conclamato, ma al contempo è assolutamente vera, perché ci stai raccontando come ti senti in queste settimane di isolamento… vien fatto di pensare a come ci si sente quando viene a mancare il terreno sotto i piedi, se allarghiamo lo sguardo al teatro, perché Consegne parla di noi teatranti ma è anche un invito a osservarci da fuori. E se ci pensassimo come piccola parte di una collettività più vasta, fra i molti che soffrono per gli effetti della pandemia? Di sicuro ora siamo commossi, quando parte The Ghost of Tom Joad di Springsteen, la canzone che ci avevi chiesto poco fa… 

 

Stiamo guardando uno schermino, qui ed ora, su un divano, e il petto si scalda come quando a teatro ci dimentichiamo di noi e del tempo, quando ci proiettiamo là con quelle presenze, attori o personaggi che siano. Consegne è la versione ‘unplugged’ di uno spettacolo molto simile chiamato Coprifuoco, prodotto nel mese di dicembre 2020 dalla Stagione Agorà diretta da Elena Di Gioia, caso raro in Italia di curatrice capace di inventare un teatro possibile laddove sembra non possa esistere (qualità preziosa). Nei panni degli spettatori, a cui il rider consegna un pacco, ci sono stati diversi artisti (Enzo Vetrano e Stefano Randisi, Lodo Guenzi, Francesca Pennini e Marco D’Agostin) mentre gli spettatori potevano osservare lo svolgersi della relazione silenti dentro la piattaforma, connessi ma senza diritto di parola; Coprifuoco è un dialogo sull’essenza del dono, contrapposto alle ansie del ‘regalo’ in tempi di capitalismo natalizio e pericoli virali; è un spostamento in bicicletta che diviene scoperta della città attraverso i ricordi degli ospiti, cui viene chiesto di raccontarsi anche attraverso le immagini urbane che scorrono nei laptop o tablet. In questa versione – a differenza che in Consegne – un solo spettatore scelto a caso viene interpellato per descrivere quello che vede durante un particolare frammento di spettacolo e a indicare una canzone per il finale, ma a parte questo momento tutti torniamo osservatori e un po’ meno partecipanti, rientriamo nei ranghi prosumer-voyeur con meno facoltà di intervento e interpretazione; forse siamo più utenti e meno spettatori: qualcosa avviene di fronte a noi ma è chiaro che non è ‘solo per noi’, illusione che è proprio il teatro a permetterci di coltivare, quando ci siamo accorti di aver colto quella riga di sudore sul volto, quell’accento della voce, quell’inciampo del passo... ogni copione è ricostruzione artificiale della vita e qui ce ne accorgiamo, nelle griglie di una piattaforma divenute parte del flusso della vita quotidiana. Ma allora proprio qui il ‘fallimento’ di Nicola è sul punto di deflagrare per davvero, manifestandosi come nostalgia di un’impossibilità, come desiderio delle potenzialità rimaste in uno dei pochi luoghi in cui ci si approssima al fluire della vita quotidiana, il teatro.

 

 

Coprifuoco, visto a ogni replica da oltre 200/250 utenti (superando i 350 con Lodo Guenzi), è forse la prima occorrenza di una ‘moltiplicazione’ generata da Consegne. Ne è infatti stata realizzata una versione a Napoli a firma del Collettivo LunAzione, ma ve ne sono tracce anche nei percorsi di “teatro delivery”, come il teatro alle finestre e balconi del Teatro dei Venti, la poesia portata a domicilio del Cantiere Poetico di Santarcangelo, fino al “teatro delivery” sperimentato a Messina da Carullo-Minasi, progetto che prende le mosse dal pioneristico “barbonaggio teatrale” di Ippolito Chiarello, portato da decenni in piazze e strade. Trattasi di interstizi, dicevamo, forme di relazione artistica senza spettacoli eppure con molto ‘teatro’. Uno degli slogan più citati nel primo lockdown, anche nei nostri ambienti culturali, è stato Staying with the trouble, “stare a contatto con il problema”, formulazione dal bellissimo Chthulucene di Donna Haraway. Si tratterebbe di stare a contatto con un problema che ci ha portato a interrompere dialoghi e apprendimenti fra specie animali diverse, isolandoci, noi umani, in una presunta superiorità che ci sta conducendo alla catastrofe (e a salti di specie le cui conseguenza stiamo ancora misurando, giorno per giorno, in una conta apparentemente infinita di contagi, rianimazioni e decessi che ridimensiona gli allarmi di ogni pur legittima rivendicazione di comparto).

 

Siamo in grado di “stare a contatto con il problema”, noi teatranti? Se i teatri sono chiusi, davvero è impossibile ‘fare teatro’? Siamo capaci di fare i conti con un disastro che ci comprende, nel quale la chiusura dei teatri dipende anche da noi, dal nostro stile di vita, dalle nostre abitudini di settore fra le quali, per fare un solo esempio, gli aerei, le auto, i treni presi ogni giorno per programmare i migliori spettacoli nel sistema delle performing arts europee? Ma la questione è anche meno sistemica e più direttamente disciplinare, dal momento che la funzione e la fisionomia del teatro sono cambiate nei secoli insieme ai mutamenti delle società. In particolare nel corso del Novecento, secolo nel quale le tensioni di rinnovamento hanno ridiscusso i cardini della rappresentazione per sgretolare le patine di mascheramenti e rappresentazioni, scavando nell’intimo dell’attore e dello spettatore. Il teatro ha sempre fatto i conti con limiti e imposizioni: dei contesti sociali, delle ricerche laboratoriali, delle condizioni produttive… e se l’attuale impossibilità degli spettacoli in presenza fosse il paradossale limite col quale confrontarsi? E se l’‘interstizialità’ fosse la condizione operativa del teatro del futuro, quando l’allegra e spensierata aria di normalità festiva riprenderà vigore?

Adesso – siamo tornati indietro a Consegne – Nicola, il corriere, è arrivato sotto casa nostra. Lo sentiamo dal terzo piano, nello schermo ci chiede di scendere, con tutta calma. Io sono preso alla sprovvista, non me l’aspettavo e finisco per indossare cappotto e ciabatte. Il teatro, divenuto istanza reale, ora suona al mio campanello dopo avere attraversato la città e mi domanda di abbandonare il mio schermo protetto, mi promette forse un incontro o uno sguardo, per sentirci meno soli. A distanza di una decina di metri sta il corriere, che ci guarda e fa cenno di indossare delle cuffie. Udiamo un racconto in terza persona, una voce femminile parla di noi spettatori, dell’incontro che si sta consumando e che è già materia di narrazione, la stessa materia di cui sono fatte le nostre vite solitarie e connesse. Riconosciamo quell’enfasi epica, marcata da una musica in sottofondo: è la lingua dei nostri schermi, è la sintassi delle storie, è la pasta della fiction. Siamo noi che abbiamo voluto attraversare la linea d’ombra, chiamando un attore che interpreta un rider, scendendo le scale e passando dall’altra parte. Perché non stiamo parlando con Nicola, che se ne sta andando? Perché anche ora qualcuno sta mediando il nostro incontro? Perché questo incontro, proprio nel suo essere così architettato, nel suo essere verissimo e artefatto, ci sta facendo commuovere? Il corriere se ne va, restiamo noi, resta un accadimento miracoloso in tempi non solo pandemici: abbiamo esperito l’ineluttabile collettività che chiamiamo teatro. 

 

Le foto di “Coprifuoco” sono di Michele Lapini.

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