Speciale

La scuola allo specchio

25 Gennaio 2021

Non è agevole orientarsi nelle attuali politiche educative. In un contesto segnato da un Ministero sub iudice per ‘irrilevanza politica’, dal contrasto tra normative regionali sulle chiusure delle scuole e delibere di riapertura dei Tar locali, non resta l’auspicio che l’ottimismo della volontà prevalga sul pessimismo dell’intelligenza. Gli ultimi mesi, inevitabilmente, sono stati caratterizzati da un’egemonizzazione del dibattito sulla scuola da parte di epidemiologi, virologi, matematici e fisici, impegnati, ciascuno secondo le proprie competenze, a produrre modelli previsionali e ricerche, peraltro dai risultati non univoci, sull’impatto della filiera scolastica nella trasmissione del virus. Dopo un lungo e assordante silenzio, si registra una presa di posizione di sociologi, pedagogisti, psicologi indispensabile per bilanciare la medicalizzazione discorsiva attuale. In tale cornice non si può non segnalare l’acquiescenza con cui il corpo docente, legittimamente spaventato, amareggiato, macerato a lungo nella disillusione, ha accettato di sopportare lo iato tra retorica della centralità del capitale umano e l’assenza di politiche coerenti a promuoverlo, delegando a sparuti gruppi di adolescenti forme di protesta che, al netto di ogni valutazione personale, hanno comunque avuto il merito di ricordare i costi umani e sociali dell’emergenza scolastica nonché la perdita secca di conoscenze e di cittadinanza di milioni di studenti. Difficile misurare l’impatto cognitivo di mesi di didattica a distanza. Qualcosa, pur con tutti i limiti, potranno dirlo le prove Invalsi. Gli studi e le ricerche a disposizione sottolineano l’effetto distrattivo delle tecnologie, l’overload cognitivo, la diminuzione dello spam attenzionale, l’impoverimento linguistico.

 

La scuola in rete semplicemente non è scuola, per rispondere alla domanda posta da Maragliano. Il ché non significa indugiare nel lamento né non misurarsi seriamente con la grammatica dell’utilizzo del mediatore didattico digitale. Esercitare sapere critico e riflessivo sulle retoriche tecnologiche non è rifiuto aprioristico ed il fatto che ogni volta occorra precisare tale banalità è indicatore della qualità della riflessione collettiva sul tema. La didattica digitale è stata pensata integrata alla lezione in presenza senza la quale produce soltanto esperienze stranianti di una lacerante povertà comunicativa. 

Urgente, quindi, sarebbe pianificare un’azione nazionale di recupero e consolidamento degli apprendimenti, flessibile e continuativa, finanziata con risorse straordinarie, in un quadro che deve valutare anche la fattibilità di una rimodulazione del calendario scolastico presente e futuro. Si tratta di governare l’emergenza con strumenti normativi non ordinari (i corsi di recupero durante l’anno, a fine giugno o a inizio settembre già ci sono), elaborati non unilateralmente dal ministero ma oggetto di condivisione da parte di tutti gli attori sociali coinvolti nell’istruzione nel reciproco riconoscimento del lavoro prodotto in questi mesi di emergenza. Le obiezioni fondate sul «ben altro sarebbe necessario» hanno come effetto quello di scaricare interamente sulle famiglie un ulteriore costo sociale acuendo le disuguaglianze educative. In gergo tecnico: shadow education.

 

In una situazione di profonda incertezza sanitaria e politica si gioca peraltro la partita decisiva dell’utilizzo delle risorse messe a disposizione per l’istruzione e ricerca dal Next Generation EU (22,2 miliardi di euro) inquadrate nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Si tratta del più grande piano di finanziamento pubblico in educazione dai tempi del piano Gui attuato dal centro-sinistra a seguito della scuola media unificata (1962/63). La seconda versione è stata oggetto di diversi analisi. Il Forum disuguaglianze e diversità ha evidenziato le debolezze sul terreno del contrasto alla povertà educativa e l’inadeguatezza delle azioni elaborate per potenziare le politiche di orientamento nella transizione tra scuola media e superiore, tassello indispensabile per il contenimento della dispersione scolastica. Altre voci critiche hanno puntato l’attenzione sulla mancanza di visione sistemica, sull’assenza di politiche di decentralizzazione del reclutamento docenti e, infine, sulla bulimia dei curriculi educativi.

Qualche elemento per capire la ratio delle azioni previste dal PNRR lo fornisce il volume Nello Specchio della scuola di Patrizio Bianchi. L’autore ha, infatti, presieduto il comitato di esperti nominato dalla ministra Azzolina il 21/4/2020 per elaborare proposte sul come riavviare la scuola dopo la pandemia. L’organismo ha presentato un rapporto intermedio il 27/5 e la relazione finale il 13/7, preceduta da un passaggio in VII Commissione. Le versioni complete non sono state diffuse dal Ministero, anche se – come precisa Bianchi – molte «delle proposte avanzate sono state poi adottate dall’amministrazione in diversi decreti successivi» e alcune sono state inserite nel PNRR. Tuttavia l’aver «scelto di attivare di volta in volta i diversi provvedimenti ha fatto però venir meno la visione complessiva, nella quale le misure per affrontare l’emergenza erano legate a un nuovo disegno di scuola» (p. 119). 

 

La lettura dell’opera consente di farsi un’idea precisa dei contenuti del progetto e delle ragioni delle perplessità ministeriali. Da un lato la richiesta del committente è quella di fornire soluzioni e un certo respiro culturale a problematiche circoscritte frutto dell’emergenza; dall’altro si risponde con la produzione di un impegnativo (e costoso) progetto di riforma della formazione e dell’istruzione paragonabile a quello presentato da Matteo Renzi nel 2015. L’esito è quello di un corto circuito – si passi il paragone – tra funzionari illuministi e Principe che determina l’accantonamento, salvo poi l’estrapolazione di specifiche proposte ritenute praticabili in quanto tecniche e non politicamente connotate. Destino comune alle molte task-force attivate tra la primavera e l’estate del 2020 (qualcuno ricorda cosa prevedesse il piano Colao per l’istruzione?).

Nel libro convivono, non senza tensioni, due prospettive teoriche sensibilmente differenti. La prima, econometrica (human capital approach), ha inteso misurare il capitale umano individuale e il funzionamento delle scuole e il livello di istruzione generale conseguito in una determinata area geografica sulla base di una serie di indicatori (di stock, di input, di funzionamento del sistema, di output). Tale letteratura, che nel corso dell’ultimo decennio si è progressivamente affiancata a quella sociologica, che ha altre basi e moventi, sottolinea primariamente lo spreco di risorse umane più che l’ingiustizia in sé di sistemi formativi inefficaci. La seconda, sulla scia degli studi di Sen-Nussbaum (capabilities approach), si fonda su un apparato teorico che valuta il benessere individuale o aggregato, non tanto sulla scorta delle variabili solitamente utilizzate (come il reddito, il consumo o i bisogni sociali), quanto invece su ciò che l’economista e il filosofo indiano ha chiamato le capabilities to function (letteralmente “capacità di funzionare”) degli individui, vale a dire le loro effettive opportunità di fare ed essere ciò che essi realmente desiderano.

 

L’autore ritiene che, pur da angolature diverse, tali paradigmi convergono nel ritenere «l’educazione, data dell’istruzione di base, e dal successivo e costante training educativo, l’elemento fondante della crescita e la base stessa della partecipazione democratica» (p. 91). Ciò è certamente vero, ma nasconde le corpose differenze in termini di politiche scolastiche derivabili.

Il libro è organizzato attorno a tre nuclei tematici: una sintetica analisi storica sulla finalità della scuola; una diagnosi sulle carenze strutturali del sistema dell’istruzione italiano al di là dell’emergenza contingente e, infine, una terapia incardinata in precise azioni d’intervento.

Il Covid-19 ha accentuato e reso evidenti le profonde disuguaglianze territoriali e sociali che caratterizzano la scuola italiana. L’autore illustra con chiarezza la correlazione diretta tra titoli di studio delle famiglie e reddito percepibile dal futuro studente, le fratture territoriali secondo l’usuale asse Nord-Sud, le nuove povertà educative, il numero altissimo di abbandoni scolastici, la presenza di circa 650.000 giovani che né studiano né cercano attivamente lavoro (NEET), la scarsa istruzione degli immigrati. «L’Italia ha fatto passi da gigante dal dopoguerra e sono decine e decine gli istituti scolastici che potremmo definire di eccellenza, non di meno i numeri sono numeri e ci descrivono un paese in cui il prolungato sottoinvestimento in educazione ha generato effetti strutturali che pesano enormemente sul suo stesso sviluppo» (p. 56). Tra il 2009-2012 (governi Berlusconi-Monti) parallelamente alla diffusione di forme di economia basata sulla digitalizzazione della produzione e degli scambi, resa possibile della tecnologia 4G, il «nostro paese sprofondava nella crisi fiscale dello Stato, con un debito il cui peso sottraeva risorse a educazione e ricerca e quindi all’innovazione necessaria per capire e affrontare le trasformazioni dell’economia e della società» (p. 29).

 

I dati sono noti: la spesa per l’educazione in Italia era per tutti i settori pari al 9,21% della spesa pubblica nel 2009, 8,4% nel 2012, 7,81% nel 2016, mentre in Germania nello stesso periodo è passata dal 10,19 al 10,93% con una media europea del 10%. L’esito è una bassa scolarizzazione: il 14% è laureato, il 30% diplomato, il 38% ha una licenza media, il 18% la licenza elementare o nessun titolo. Nella fascia 25-64 anni i laureati sono il 19% ma pur sempre la metà dell’area OCSE che è del 37%. Scelte politiche miopi, frutto anche di una scarsa consapevolezza collettiva, non hanno visto e forse non vedono tutt’ora il ritorno sociale di alti livelli istruzione diffusa che impattano sugli stili di vita, sul rispetto dell’ambiente e producono dinamiche salariali virtuose anche per i meno istruiti come ha documentato Stefano Allievi. 

Investire è certamente un tassello essenziale ma occorre anche rinnovare e riformare profondamente «ridisegnare una scuola che sia fattore di sviluppo per l’intero paese, agendo sulle competenze, la libertà, l’indipendenza delle persone, che costituiscono la vera ricchezza di una nazione» (p. 97). L’ultimo capitolo Tre questioni e dieci temi per un dibattito nazionale sulla scuola e lo sviluppo delinea una serie di priorità e di interventi conseguenti: 1) lotta alla povertà educativa e scolastica; 2) rilancio dell’autonomia e del rapporto con il territorio; 3) le persone al centro dello sviluppo. Non è possibile in questa sede discutere analiticamente di ciascuna delle dieci proposte avanzate dall’autore per cui mi limiterò a produrre alcune osservazioni su tre nodi particolarmente rilevanti: a) istruzione e formazione professionale; b) autonomia scolastica; c) scuole superiori di 4 anni.  

 

 

Bianchi identifica in un robusto rafforzamento della formazione professionale (di competenza regionale, IeFp) e degli istituti professionali (statali, Ip) la via maestra per contrastare la dispersione scolastica e per rafforzare una formazione professionale dotata di un proprio prestigio anche per il contestuale ampliamento degli Its (Istituti tecnici superiori), segmento della formazione terziaria non universitaria della durata biennale volto a favorire l’inserimento del mondo del lavoro. Il modello è chiaramente l’alta formazione applicata tedesca, flessibile, ma senza l’attuale vincolo del conseguimento di un certificato di specializzazione tecnica superiore (IFTS) che preclude la possibilità d’accesso agli studenti provenienti dagli IeFp. Tali osservazioni sono state recepite nel PNRR. 

A 10 anni dall’entrata in vigore della riforma del secondo ciclo d’istruzione e formazione le criticità già evidenziate in puntuali ricerche sono molto lontane dall’essere rimosse: la perdurante incertezza e il ritardo applicativo riguardo all’attuazione delle competenze regionali; la quasi totale mancanza dell’offerta formativa nel Mezzogiorno; il debole riconoscimento sociale e professionale delle qualifiche e molto altro ancora. Su tutto: il raccordo tra Ip e IeFp, da attuare mediante l’offerta sussidiaria, non ha conseguito i risultati attesi e ha portato piuttosto ad un processo di sostituzione dell’offerta delle scuole statali rispetto a quelle delle strutture formative e regionali. Inoltre le risorse messe a disposizione rimangono largamente insufficienti se comparate all’istruzione tecnica e liceale o a esperienze straniere (Lycee professionel). Le politiche di contrasto alla povertà educativa hanno bisogno di idee e finanziamenti stabili non soggetti all’incertezza della reiterazione dei bandi regionali.

 

Altro tema fondamentale concerne la piena realizzazione dell’autonomia scolastica sulla base del progetto voluto nel 1997 da Luigi Berlinguer (concretizzatosi nel fondamentale Dpr. n. 275/99), strumento per la realizzazione e la progettazione di un’offerta didattica capace di tenere assieme una dimensionale nazionale, attraverso un puntuale sistema di valutazione, e una territoriale. Collegandosi con una consolidata interpretazione, l’autore insiste sul depotenziamento dell’impianto iniziale che «si è progressivamente insabbiato in una struttura che ha continuato a basarsi su una modalità organizzativa centralizzata, che di fatto ha ostacolato il trasferimento ai territori e alle istituzioni scolastiche di tutte le competenze per potersi muovere in autonomia» (p.109). Decentramento più che trasferimento reale di poteri; autonomia funzionale e non finanziaria: un’occasione mancata, come tante nella storia del riformismo italiano.

 

Mentre in alcuni paesi europei si sono realizzate forme di autonomia competitiva sulla base dei modelli econometrici richiamati in precedenza; «la situazione italiana impone di enfatizzare l’aspetto solidale» anche per le profonde fratture territoriali che attraversano il sistema scolastico. Bianchi evidenzia il ruolo che dovrebbero avere i patti educativi di comunità introdotti dal Miur lo scorso giugno che, richiamando il principio di sussidiarietà e di corresponsabilità educativa, invitano le scuole, gli enti locali, le istituzioni pubbliche e private, le realtà del Terzo settore a promuovere forme di co-progettazione capaci di realizzare una scuola nuova, «a un tempo aperta, egualitaria e rigorosa, dove si impara meglio, entro la prospettiva di comunità educanti larghe ed evolute» secondo le indicazioni emerse dal Forum Disuguaglianze e diversità e dalla Rete educAzioni. La proposta s’inserisce in una ricca ma quantitativamente marginale realtà di modelli di funzionamento tra scuola e territorio: città educative, scuole aperte e partecipate, comunità educanti nonché le sperimentazioni attivate con la Strategia nazionale per le aree interne (Snai) ognuna dotata di proprie specificità. Questa estate l’attivazione dei patti ha suscito vibranti polemiche nel mondo del terzo settore preoccupato di perdere il proprio protagonismo in questo ambito. La discussione, tuttavia, si è svuotata lentamente di ogni significato pedagogico per diventare mera ricerca di spazi aggiuntivi alle mura scolastiche in cui praticare il distanziamento sociale tra alunni. 

 

La scelta del saggio divulgativo non rivolto ad un pubblico di specialisti comporta che alcune dirimenti tecnicalità siano omesse. Ad esempio, quali strumenti operativi s’intende mettere in campo per superare le rigidità dell’esistente? Il think thank Associazione TreElle, legato alla Fondazione Compagnia di Sanpaolo, ha posto con chiarezza il tema del superamento dell’attuale governance scolastica (il Consiglio d’Istituto), frutto di quell’errore storico «commesso dal ministero negli anni 70»:  per far  fronte delle contestazioni studentesche, «tutto il governo locale del sistema scuola fu attribuito al personale docente, anziché a rappresentanti dell’utenza e del territorio». La proposta di legge Aprea (2008) andava in tale direzione ipotizzando la trasformazione della scuola in Fondazioni aperte agli stakeholder

In realtà sembra equilibrata la distinzione tra autonomia della scuola come sistema istituzionale e autonomia della scuola come mondo vitale avanzata da Walter Tocci. Il primo indica l’insieme delle regole e dei ruoli, dell’amministrazione e delle funzioni pubbliche, degli obiettivi formativi e dei compiti repubblicani. Il secondo coglie l’insieme delle relazioni tra maestro e allievo nella comunità educativa, nello scambio intra e intergenerazionale, nell’apprendimento dei saperi, nell’esperienza della cittadinanza. 

 

«Le due dimensioni si sono fatte male a vicenda invece di interagire positivamente. L’autonomia istituzionale è stata capovolta nel suo contrario, in un furioso centralismo normativo che ha scoraggiato le energie creative della seconda dimensione. Il mondo vitale si è difeso facendosi scudo delle leggi sull’autonomia fino a mitizzarle e eluderne una verifica di efficacia» (Le api e le formiche, p. 31)

Verifica di efficacia significa anche chiedersi se l’autonomia scolastica sia stata un moltiplicatore di preesistenti disuguaglianze territoriali e abbia prodotto effetti di segregazione scolastica giocati sul capitale ‘spaziale’, ossia sulle diverse opportunità che i contesti territoriali offrono a chi vi risiede (Benadusi, La questione dell’equità scolastica in Italia). L’abolizione dell’obbligo d’iscrizione per la scuola d’infanzia ed elementare di prossimità, ad esempio, ha prodotto sofisticate strategie di ‘evitamento’, fondate sulla presa di distanza da istituti ritenuti socialmente indesiderabili, e viceversa sulla preferenza per istituti che selezionino, implicitamente e sulla base di variabili ascritte alla propria utenza. L’effetto istituto si salda all’effetto utenza. Non sembra analiticamente convincente ascrivere tutte le responsabilità della deriva mercatista del sistema educativo al tradimento dello spirito del 1999.

Tra le azioni d’intervento sull’architettura scolastica, l’autore suggerisce di portare il ciclo secondario a quattro anni innalzando l’obbligo scolastico per i percorsi professionalizzanti e abbassando di un anno gli altri.

 

La proposta non s’incardina in una riforma dei cicli scolastici e per tale motivo risulta una pura operazione d’ingegneria ordinamentale. Si rimane perplessi a leggere la seguente frase: le «molte sperimentazioni già in corso in questi anni sui licei quadriennali sono in questo senso confortanti» (p. 170). Non è chiaro a quali dati Bianchi si riferisca dato che la sperimentazione in atto terminerà nel 2023. Le criticità del Piano nazionale di innovazione ordinamentale per la sperimentazione di percorsi quadriennali di istruzione secondaria di secondo grado emanato nel 2017 dalla ministra Fedeli sono già state analizzate: non può essere considerata una sperimentazione mancando ogni criterio di scientificità; è assente una visione sistemica dell’istruzione; produce un impoverimento culturale come evidenzia una breve ricognizione sui PTOF (Piano triennale dell’offerta formativa) di 7 degli oltre 100 istituti coinvolti in cui la ‘sperimentazione’ si è risolta nell’accorpamento dei contenuti disciplinari di un biennio in un anno. Non mi pare che tutto ciò possa definirsi confortante e conferma le intuizioni di chi sottolinea che una scuola a scarsa intensità culturale accentua i suoi caratteri classisti.

 

Al di là dei singoli rilievi, Nello specchio della scuola è opera animata da una robusta passione etico-civile che ha il merito di discutere dell’istruzione e dell’educazione avendone chiaro il mandato sociale: l’emancipazione della persona attraverso lo sviluppo dei suoi talenti evidenziando i nessi tra promozione del capitale umano, sviluppo economico e giustizia sociale.

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