Scuola: esercitare l'immaginazione

11 Luglio 2023

L’ultimo segmento dell’anno scolastico è dominato dal tema della valutazione. È il tempo delle pagelle. Numeri, medie, interrogazioni di recupero, compiti da “ultima spiaggia” formano un gorgo inesorabile in cui tutti gli attori della scuola finiscono risucchiati con buona pace degli ottimi propositi all’insegna del mai più, solennemente giurati e puntualmente disattesi. 

Le pratiche individuali per arginare lo straniante finale sono varie. Si va dall’accettazione dell’ineluttabile, al conteggio dei residui anni all’agognata pensione, al nicodemismo dei critici dell’esistente. Contenuta la tentazione di richiamare i “bei tempi antichi”, l’unica risposta ragionevole è studiare per capire le cause di questo disagio. In questa prospettiva l’incontro con Equità e merito nella scuola e La valutazione che educa è quanto mai salutare perché consente di nominare le ragioni dell’insoddisfazione e, contemporaneamente, operare un esercizio di umiltà. Si tratta di due pubblicazioni che da angolature diverse, di sociologia dell’educazione la prima, di pedagogia la seconda, si misurano, a vario titolo sul terreno dell’equità degli apprendimenti restituendo innanzitutto un importante lezione di metodo. Parlare di istruzione significa tenere assieme il quadrilatero contesto-risorse-processi-risultati; separarlo significa sovrastimare l’impatto che certe politiche scolastiche possono avere oppure sottostimare l’azione emancipatrice di certe pratiche valutative.

Veniamo al primo volume scritto a due mani da Luciano Benadusi e Orazio Giancola. Il lavoro approfondisce un precedente testo nel quale si sintetizzavano i risultati dell’esperienza Gerese, gruppo internazionale di ricerca che aveva lavorato sul tema dell’equità in educazione prima, per conto dell’OCSE e poi della Commissione UE, e di cui entrambi gli autori di questo libro facevano parte rappresentandovi l’Italia.

Il primo capitolo dà spazio all’analisi delle principali teorie normative sulla giustizia (meritocrazia ‘spuria’, neoliberismo, eguaglianza delle opportunità, eguaglianza delle capacitazioni, eguaglianza minima degli apprendimenti) con relative implicazioni nel campo dell’educazione; segue un’analisi, condotta sui risultati dell’European Values Survey e altri studi specifici su come gli studenti percepiscono i criteri di giustizia e verso quale teoria normativa orientano le loro preferenze; nel terzo capitolo è esaminato lo stato empirico delle disuguaglianze quale è mostrato dalle ricerche quantitative sul rapporto tra stratificazione sociale e sistemi di istruzione; infine l’ultima parte valuta le politiche rivelatesi più efficaci nel contrasto alle disuguaglianze scolastiche sulla base della distinzione elaborata da Raymon Boudon tra effetti primari, legati alle caratteristiche individuali, risultato del contesto familiare di crescita della persona, ed effetti secondari, relativi alle scelte della famiglia e dell'individuo. 

Quali i risultati più importanti? Innanzitutto la messa a fuoco di quale nozione di equità e di merito sia aderente ad un sistema scolastico compiutamente democratico. Sul primo aspetto gli autori sottolineano l’insufficienza dell’eguaglianza delle opportunità ma propongono una più esigente eguaglianza delle competenze fondamentali. «Mentre il fine dell’eguaglianza delle opportunità è la mobilità sociale il fine della soglia minima è per un verso l’effettiva soddisfazione del diritto al lavoro o dell’occupabilità, per un altro un taglio piuttosto sociopolitico: l’esercizio dei diritti di cittadinanza in una democrazia» (p. 58). Una soglia minima d’istruzione e competenze rispetto alla quale nessuno rimanga indietro (No child left behind o il diritto al successo formativo della riforma Berlinguer). Tuttavia, poiché le disparità tendono ad ingrossarsi nel percorso scolastico, occorre agire anche su di un altro versante: contenere la varianza (estrema variabilità) dei risultati (delle cose che si apprendono) tra scuole e scuole, e tra classi della medesima scuola. Come? Una prima zona d’intervento, in contesti ad alta dispersione scolastica come quello italiano, è realizzare un solido sistema di educazione degli adulti; un altro rimedio è fissare l’altezza della soglia minima non solo in base a un parametro assoluto (il livello auspicabile di competenze, ma anche a uno relativo (il divario massimo accettabile) sulla base dei quali valutare la situazione in una certa scuola o in un certo territorio. Infine l’introduzione di un biennio comune (14-16 anni) dato che le evidenze empiriche documentano come la differenziazione dei percorsi al termine della terza media moltiplica le disuguaglianze educative.

Quali sono le competenze minime? Su questo aspetto non mancano le indicazioni europee (EQF, Digicomp 2.1); quello che è mancato e tuttora non se ne vede traccia, almeno in Italia, è una discussione pubblica su quali siano i saperi e le abilità minime necessari per l’esercizio di una cittadinanza attiva. Qualcosa di simile al ruolo rivestito dalla Commissione Brocca negli anni Novanta.

Relativamente al merito sono spese parole di equilibrio coerenti con un quadro teorico complesso e multidimensionale in cui nessun criterio di giustizia satura le situazioni di scelta e gli orientamenti normativi, così come nessuna situazione e nessuna decisione satura i criteri di giustizia presenti in una società: 

«È vero che esistono interpretazioni inaccettabili dell'equità meritocratica ma non si può pensare a una scuola e a una società giusta dove il “meritare” o il “demeritare” qualcosa non faccia parte del proprio corredo regolativo e valutativo. E nemmeno ignorare che l’inosservanza di questo criterio genera non solo inefficienze di cui si pagano collettivamente le spese ma anche grandi e piccoli privilegi. L’Italia d’altronde ne fornisce prove eloquenti» (p. 63)

Un ultimo elemento merita di essere sottolineato: la falsità della credenza che i sistemi scolastici comprensivi (caratterizzati dalla presenza di cicli scolastici unitari) abbiano risultati peggiori rispetto a quelli fortemente selettivi (caratterizzati dalla presenza di diverse filiere con un grado reputazionale gerarchico). Per intenderci il sistema scolastico italiano è comprensivo sino al termine della scuola media per poi diventare selettivo. Le analisi elaborate a partire dalle banche dati delle rilevazioni internazionali sugli apprendimenti smentiscono questo luogo comune. Vale la pena lasciare la parola al testo:

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«Sul terreno dell’equità, che era la sua finalità primaria, se si guarda ai dati e si lasciano da parte le speranze palingenetiche degli anni ’60, la ‘comprensivizzazione’ è stata in verità un successo, per lo più ottenuto non a prezzo di una minore efficacia e qualità, semmai il contrario. Viceversa il ciclo di politiche neoliberiste sta producendo effetti perversi sul piano dell’equità non compensati [il corvivo è mio] sul registro della qualità\efficacia. I valori e gli obiettivi di eguaglianza, inclusione e coesione sociale posti a fondamento delle riforme egualitarie del secolo scorso restano perciò ancora attuali sebbene siano minacciati da un clima emergente di “antiegualitarismo”» (p. 179)

Il tema è esattamente coniugare qualità degli apprendimenti di tutti riducendo quella quota di studenti che hanno terminato l’obbligo scolastico ma non hanno quelle competenze attese dopo 13 anni di istruzione formale. Servono, dunque, politiche scolastiche coerenti che tengano conto dei dati provenienti dalla letteratura scientifica. 

Passando dal livello macro al livello micro, il testo di Cristiano Corsini La valutazione che educa. Liberare l’insegnamento e l’apprendimento dalla tirannia del volto richiama l’attenzione su ciò che è possibile fare in classe. 

L’opera restituisce in forma divulgativa l’esito di una profonda trasformazione avvenuta nelle scienze dell’educazione negli ultimi decenni scarsamente recepita nella scuola secondaria e nell’università. In sintesi si è passati da una valutazione dell’apprendimento (assessment of learning) ad una valutazione per l’apprendimento (assessment for learning). La prima ha focalizzato l’attenzione sulla dimensione del controllo e della certificazione degli apprendimenti conseguiti mediante la produzione di indicatori chiari e strutturati che consentono di decidere se uno studente ha raggiunto o meno i traguardi prefissati. Superando tale concezione, è emersa l’idea che valutare sia un’attività pervasiva e continua che interessa tutte le fasi del percorso di apprendimento. In tale prospettiva – osserva Corsini – lo studente è posto al centro dei processi di apprendimento e valutazione. Centralità che si esplicita nella consapevolezza dei percorsi scelti e attuati, nella capacità di riflettere sul proprio apprendimento; nella negoziazione e nella costruzione dei criteri per giudicare il lavoro svolto; nella capacità di valutare il lavoro dei pari. In definitiva trasformare la valutazione da semplice rendicontazione a prassi capace di formare (modellando) gli apprendimenti futuri, in linea con quanto Aldo Visalberghi aveva già sostenuto molti anni or sono

Più volte nel corso del libro l’autore sottolinea che la valutazione educativa migliora la qualità degli apprendimenti. Esistono solide evidenze empiriche sul fatto che l’abbandono del voto non significa studenti meno preparati. Tuttavia come nel caso precedentemente riportato (scuola selettiva migliore di quella comprensiva), si è fissata una credenza che Charles Sanders Peirce, fondatore del pragmatismo, avrebbe classificato come un mix tra metodo autoritario e metafisico a priori. Credenza che non riesce ad essere scalfita.

Tra i meriti maggiori del lavoro vi è l’evidenziazione della politicità di ogni operazione di giudizio che presume una certa idea di scuola. «Se è vero che si insegna per asservire o per liberare, è vero anche che valutiamo per riprodurre o per trasformare» (p. 14). Ne deriva una critica argomentata nei confronti di una valutazione che da strumento è divenuto fine in sé in un corpo docente a volte afflitto da quello che l’autore definisce «disturbo dell’insegnamento rappresentato dalla valutomania meritocratica» (p. 68). 

La lettura della prima parte del libro dovrebbe essere un passaggio obbligatorio per chiunque si misuri con la professione docente. In essa si trova chiarita la fondamentale differenza tra voto e valutazione, a quali condizioni la misurazione è attendibile e valida; è ribadita come falsa la contrapposizione tra voto numerico e giudizi sintetici (sufficiente, buono, ecc) contrapposizione sterile che ignora come entrambi siano sintesi ordinali che di per sé non forniscono informazioni per migliorare gli apprendimenti. Infine è discussa la convinzione che il voto abbia una valenza formativa, capace cioè di generare motivazione all’apprendimento. È bene chiarire che l’autore non contesta l’utilizzo del numero al termine di un certo arco cronologico (trimestre, quadrimestre). Ciò che è oggetto di denuncia è la riduzione della misurazione degli apprendimenti a medie aritmetiche.

La parte sugli «inciampi valutativi» conduce il lettore nella tassonomia di «distorsioni, errori, e dinamiche da tenere in considerazione nel processo valutativo» (p. 39). Stereotipia, contagio, effetto Pigmalione sono lì a ricordare quanto il giudicare sia delicato e quanto sia operante la tendenza a naturalizzare processi e atteggiamenti chiamando in causa variabili attitudinali e di tipo moralistico (le “doti” naturali, l'impegno, la volontà, ecc.) con scarso riferimento all'adeguatezza delle modalità e delle procedure adottate nell'insegnamento. Le profezie che si autoavverano in ambito educativo sono frequenti e dovrebbero suggerire il senso della misura quando si parla di “dati oggettivi”.

Quali le ragioni di una cultura valutativa così deficitaria? Certamente ha un ruolo importante una scarsa qualità della discussione pubblica su temi educativi che si risolve spesso nell’uso «di stereotipi e luoghi comuni a sostegno di generalizzazioni indebite e di opinioni paternalistiche e retrive, spesso accondiscendenti verso un passato idealizzato» (p. 79). Uno specifico letterario che gode di un’ampia platea.

Inoltre come tutte le prassi emancipatrici, la valutazione educativa non incontra «necessariamente il favore di dirigenti, insegnanti, studentesse, studenti e famiglie» (p. 21) abituati a una pedagogia bancaria che è, paradossalmente, estremamente accomodante e scarsamente esigente. Lo ha segnalato, tra gli altri, Philippe Merieu analizzando il momento della restituzione delle verifiche. 

«La transazione finisce lì. Certo, sul compito ci sono annotazioni e correzioni, ma al più egli [lo studente] dedica un’attenzione distratta. Nel migliore dei casi rileggerà il compito per tener conto dei consigli ricevuti quando svolgerà il compito successivo. Ma tutto ciò, dobbiamo ammetterlo, resta qualcosa di molto casuale». (Una scuola per l’emancipazione, p. 226)

In parte sembra di poter dire che valutazione e mediazione didattica vengono percepite soprattutto dai docenti della scuola secondaria e dell’università come elementi secondari della propria professionalità, risolta nella puntuale conoscenza dei contenuti disciplinari. Il resto lo si apprende sul campo e non necessita di particolari approfondimenti. Tale elemento trova conferma nei modi, schizofrenici, con cui è organizzata la formazione del personale docente sia in ingresso sia durante l’attività lavorativa.

A complicare ulteriormente la situazione vi sono le stesse pratiche valutative messe in campo dal Ministero e dai suoi organismi preposti a tal scopo. È il caso delle rilevazioni INVALSI cui l’autore dedica ampio spazio. La scelta – sbagliata – di attribuire ai test la funzione di valutare il sistema scolastico nel suo complesso e l’efficacia di ciascun istituto ha imposto il passaggio dalla somministrazione campionaria (sufficiente per il primo scopo) a quella sull’intera popolazione scolastica (necessaria per il secondo scopo). L’esito, però, è la scarsa affidabilità dei risultati su quei processi cognitivi che si vorrebbero misurare. Corsini propone un riorientamento educativo delle indagini sulla base di virtuose esperienze estere (modello neozelandese). Il punto, come riconosce l’autore, è che le attuali rilevazioni degli apprendimenti (OCSE-PISA, INVALSI, IEA) sono interne a una logica della misurazione che è profondamente mutata nell’ultimo decennio del XX secolo, ed è centrata sulla quantificazione del capitale umano, variabile chiave nella competizione economica. Se ne è già discusso qui.

Ha giustamente osservato Antonio Vigilante che la valutazione attuale riflette «quella cultura della piramide, che è il modello in base a cui strutturiamo tutti gli ambienti sociali». Le pratiche valutative analizzate da Corsini possono ridurre l’insensato scolastico a livello personale ma per funzionare avrebbero bisogno quantomeno di un consiglio di classe che operasse nella medesima direzione. Laddove sono praticate, nella scuola elementare, reintrodotte non senza polemiche nel dicembre del 2020, hanno generato molteplici resistenze in un contesto che, è bene sottolinearlo, possiede mediamente una cultura della valutazione più ricca rispetto agli altri ordini di scuola poiché strutturalmente inserita nel percorso di formazione universitario. Una ricca documentazione è presente qui. Esistono intere scuole medie e superiori che hanno abolito i voti durante l’anno. Stanno lì a ricordare le possibilità offerte dall’autonomia scolastica stabilita dal 1999. 

In conclusione vorrei esercitare l’immaginazione. Il Ministero organizza una sperimentazione dotata di requisiti scientifici su un campione rappresentativo di scuole secondarie (licei, istituti tecnici, istruzione e formazione professionale). Alle sue strutture affianca l’Università e i centri di ricerca sull’educazione esistenti. L’obiettivo? Verificare – in assenza di valutazioni numeriche – cosa succede alla qualità degli apprendimenti, all’efficacia dell’insegnamento nel promuovere l’eguaglianza delle competenze fondamentali, al benessere della comunità scolastica. Contestualmente gli insegnanti vengono accompagnati da una sistematica attività di formazione e resi protagonisti di un progetto di ricerca-azione condiviso. Dopo la conclusione di un ciclo scolastico si analizzano i dati e se ne traggono le conclusioni in una lucida prospettiva falsificazionista. Impossibile?

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